Poseidonia e la Tomba del Tuffatore
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La tomba dipinta scoperta a poca distanza dall’antica Poseidonia, la città greca fondata dai Sibariti nella piana del Sele, rappresenta il più antico esempio di pittura greca giunto fino a noi. Opera di maestranze locali formatesi mediante l’assimilazione dei caratteri formali e tematici della pittura vascolare attica, le pitture attestano, attraverso le scene dipinte sui lati lunghi, la piena adesione del defunto all’ideologia greca del simposio. Quanto all’enigmatica scena del salto dal trampolino raffigurata sulla lastra di copertura, essa viene interpretata come una rappresentazione simbolica del passaggio dalla vita alla morte, ovvero ad una più felice forma di esistenza.
Nel giugno del 1968, indagando le necropoli che circondano l’antica Poseidonia (oggi Paestum), l’équipe diretta da Mario Napoli si imbatte in uno dei più importanti rinvenimenti archeologici del secolo scorso. In località Tempa del Prete, circa 1,5 chilometri a sud della città, gli scavatori rinvengono una serie di tombe a cassa disposte a diverse quote, per un arco cronologico che va dalla fine del VI al IV secolo a.C. Una di queste è la Tomba del Tuffatore.
Essa si presenta al momento della scoperta come una cassa composta da quattro lastre di travertino locale a fare da pareti più una di copertura, ben commesse e ancora perfettamente combacianti; il piano di posa è invece ricavato nel banco di roccia naturale. Il defunto, di cui al momento dell’apertura si rinvengono pochissimi resti, vi giace con la testa rivolta verso est. Le lastre che compongono la cassa sono intonacate e affrescate: ciò non costituisce una novità agli occhi degli scavatori, abituati a trovare pitture nelle tombe già indagate, soprattutto in quelle del IV secolo a.C. Appare invece eccezionale il fatto che sia affrescata nell’interno anche la lastra di copertura, un dato fino a quel momento mai attestato, tanto che proprio la decorazione di questa lastra, la celebre scena del “salto dal trampolino” la cui fama raggiunge rapidamente anche il grande pubblico, darà il nome all’intera tomba.
Il corredo della deposizione, composto da una lekythos (vaso per unguenti) attica a figure nere più altri frammenti ceramici e i resti metallici di una lira, consente una datazione della tomba agli anni 480-470 a.C.: si tratta cioè del più antico documento di pittura greca fino ad oggi venuto alla luce. A causa della fragilità delle pitture, le lastre vengono rapidamente smontate e ricoverate al Museo di Paestum, dove oggi si possono ammirare.
Poseidonia: la città Intorno al 600 a.C. un gruppo di Greci provenienti da Sibari, la città fondata da coloni achei sullo Ionio, si stanzia sul golfo di Salerno, nella piana delimitata a nord dal fiume Sele e ad est dalle alture dell’Appennino campano-lucano, su un pianoro prospiciente una laguna costiera. La fondazione di una nuova città, che prende il nome di Poseidonia, è probabilmente la conseguenza di una pressione demografica crescente nella città d’origine, ma risponde anche all’esigenza di presidiare un’area strategica che dia accesso alle rotte tirreniche e garantisca il controllo sui percorsi interni che, attraverso il Vallo di Diano, collegano il Tirreno con lo Ionio.
Il territorio in cui i coloni si insediano è già popolato da genti indigene dedite ad attività agro-pastorali, sulle quali si esercita l’influenza culturale dell’enclave etrusca presente sull’opposta sponda del Sele, a Pontecagnano. I coloni greci realizzano allora un processo di appropriazione del territorio mediante la fondazione di una corona di santuari di confine, il più importante e meglio noto dei quali è senz’altro quello dedicato ad Era presso la foce del Sele, proprio al margine tra la zona d’influenza greca e quella d’influenza etrusca.
Contemporaneamente viene circoscritto e organizzato l’abitato, che riceve però un assetto monumentale solo un po’ più tardi, dopo la metà del VI secolo a.C., quando la città dispone ormai delle risorse necessarie grazie allo sfruttamento del territorio. La città è articolata su un reticolo di assi viari ortogonali con un’area centrale lasciata sgombra per ospitare le funzioni civili e religiose, ovvero l’agorà e i due grandi santuari nord e sud, che verranno dotati progressivamente di maestosi templi in pietra: già nella seconda metà del VI secolo a.C. viene edificato a sud il tempio dorico enneastilo dedicato ad Era (la cosiddetta Basilica) e, circa cinquant’anni più tardi, il tempio di Atena nel santuario nord. Negli stessi anni (520-510 a.C.) nel settore nord-ovest dell’agorà viene realizzato un sacello ipogeico, ovvero parzialmente sotterraneo: al suo interno viene deposto un articolato corredo composto da otto vasi di bronzo pieni di miele, cinque spiedi di ferro e un’anfora attica a figure nere raffigurante l’apoteosi di Eracle. L’edificio è stato da subito identificato come un heroon, ovvero come una finta tomba eretta in memoria di una figura eroica, probabilmente il fondatore della città.
Intorno alla metà del V secolo a.C., con l’erezione del tempio cosiddetto di Nettuno nel santuario meridionale e, nell’agorà, dell’edificio a pianta circolare destinato alle assemblee dei cittadini (l’ekklesiastérion), la città raggiunge la sua piena consistenza monumentale. Poche tracce abbiamo invece della sua storia urbanistica nella seconda metà del V e nel IV secolo a.C., quando Poseidonia cade sotto il controllo dei Lucani, una popolazione di ceppo sannitico e di lingua osca: probabilmente i nuovi dominatori si stanziano in città continuando ad utilizzarne le strutture, senza modificare sostanzialmente l’assetto urbanistico, come avverrà invece con la ripianificazione successiva all’impianto della colonia latina di Paestum nel 273 a.C.
Un cambiamento più evidente si registra, sullo scorcio del V secolo a.C., nei costumi funerari. Sin dalla fondazione della città, le sepolture si erano disposte ai margini esterni settentrionali e meridionali del perimetro cittadino, raggruppate per nuclei familiari. Alcune necropoli più distanti dalla cinta muraria (come quella di Tempa del Prete) sembrano invece collegate a fattorie distribuite nel territorio. Il costume funerario adottato dalla popolazione greca è molto semplice: il defunto viene deposto in semplici tombe a cassa non decorate, con un corredo molto sobrio o del tutto assente. In questo panorama spicca come un’eccezione la Tomba del Tuffatore con le sue lastre dipinte: l’analogia della tecnica e dei soggetti con le coeve tombe etrusche di Tarquinia lascia supporre che la società pestana fosse permeabile a influenze culturali esterne, in particolare attraverso la comunità etrusco-campana stanziata sull’opposta sponda del Sele.
Già dalla metà del V secolo a.C., e poi in maniera più consistente dalla fine dello stesso, le necropoli periurbane fanno registrare un sostanziale mutamento nel rituale funerario, collegabile alla conquista lucana. Le tombe a cassa, con copertura costituita da una lastra orizzontale o da due lastre disposte a formare un doppio spiovente, ospitano ora corredi molto ricchi e differenziati per sesso: armi per gli uomini, gioielli e ornamenti per le donne. In entrambi i casi sono presenti vasi dipinti a figure rosse, prevalentemente forme da simposio per gli uomini, mentre nelle tombe femminili vengono deposti per lo più vasi da acqua o da unguenti che rimandano ad un uso domestico.
L’elemento di novità più evidente è la diffusione della pratica di decorare le pareti interne delle tombe con pitture eseguite mediante una ridotta paletta di colori (prevalentemente rosso, nero, giallo) su uno strato preparatorio di calce. I temi riflettono l’ideologia funeraria del nuovo gruppo egemone, in cui appare centrale la celebrazione del valore militare del defunto: la scena principale, collocata significativamente in corrispondenza della testa, mostra infatti un guerriero a cavallo, accolto come trionfatore da una donna che offre una libagione. Il rituale funerario è minuziosamente descritto nelle lastre più lunghe: dalla prothesis, l’esposizione del defunto sul letto di morte, attorno al quale si svolge il compianto funebre, alla processione che accompagna il morto alla tomba. Scene di corsa con i carri, gare di pugilato o di duello armato si collegano probabilmente alla tradizione italica di celebrare prove agonistiche in onore del defunto, ben attestata dalla pittura funeraria etrusca.
Il periodo d’oro delle tombe dipinte lucane, dopo aver raggiunto l’apice nei decenni centrali del IV secolo a.C., si esaurisce progressivamente tra la fine del secolo e l’inizio del successivo, in concomitanza con l’affermazione politica e militare dei Romani nell’Italia meridionale.
In questo quadro generale della storia funeraria di Poseidonia, la Tomba del Tuffatore appare come un elemento di transizione: la composizione del corredo, con i vasi da simposio e la lira, e la stessa tematica simposiale delle pitture denunciano l’appartenenza (o l’assimilazione) del defunto alla cultura greca; d’altro canto il ricorso alla decorazione dipinta lascia intuire l’esistenza di un processo di osmosi culturale tra la colonia greca e le comunità italiche circostanti.
Rispetto alle pitture delle tombe lucane del secolo successivo, quelle della Tomba del Tuffatore presentano una maggiore raffinatezza formale e tecnica: le figure sono eseguite ad affresco sulla base di un disegno preliminare realizzato con una punta sull’intonaco fresco, che viene poi campito con il colore. Una tecnica analoga a quella adottata, in negativo, dai pittori dei vasi a figure rosse: questo dato, insieme alle indubbie somiglianze formali che si possono rilevare, specie nelle scene di simposio, tra l’affresco pestano e le opere dei ceramografi attici dello stile severo suggerisce di attribuire la decorazione della tomba a maestranze locali il cui gusto si sia formato proprio attraverso le importazioni di ceramica dipinta dalla Grecia continentale.
Sulle pareti della tomba si sviluppa la rappresentazione di un simposio, con le formule consuete della consumazione del vino, della musica e del corteggiamento omosessuale utilizzate dai pittori vascolari: su ciascuna delle pareti lunghe nord e sud si dispongono tre klinai che ospitano singoli commensali o coppie costituite da un giovane e da un adulto distesi. Costoro conversano, si intrattengono nel gioco del kottabos lanciando gocce di vino contro un invisibile bersaglio, oppure si abbandonano al potere trascinante della musica e del canto, rovesciando la testa all’indietro nel gesto tipico dell’estasi musicale. Sui lati brevi, in corrispondenza della testa del defunto, un giovane coppiere si allontana dal cratere in cui il vino è stato mescolato con la giusta proporzione d’acqua; sul lato opposto, un adulto ammantato e un giovane nudo celebrano il komos, il corteo rituale accompagnato da danze e canti, preceduti da una flautista.
Sulla lastra di copertura si svolge la scena a cui la tomba deve principalmente la sua fama: un giovane nudo si tuffa da una struttura, tradizionalmente definita trampolino, costituita da grandi blocchi sovrapposti e sormontata da una cornice sporgente; ad accoglierlo, uno specchio d’acqua increspata interpretabile come una resa sintetica del mare. Se la lettura descrittiva della scena non presenta grosse difficoltà, la sua interpretazione ha rappresentato per quarant’anni una palestra per gli ingegni, né il suo significato può ancora dirsi compreso in maniera definitiva; altrettanto problematico risulta raccordare, in un programma figurativo unitario e coerente, l’immagine del coperchio con quelle che corrono sulle pareti della tomba.
Ormai abbandonate sia le interpretazioni realistiche che riconoscono nel tuffo nient’altro che una prova atletica sia il rimando a dottrine escatologiche di ispirazione pitagorica, oggi si tende a ricondurre l’immagine del tuffo alla simbologia del passaggio dalla vita alla morte. Elemento dirimente della questione risulta l’identificazione della struttura da cui avviene il salto: Mario Napoli ipotizza per primo che possa trattarsi di una rappresentazione sintetica delle pylai (“porte”) del Sole poste ai confini occidentali del mondo, ai bordi della corrente dell’Oceano, che separano il mondo dei morti da quello dei vivi secondo il poeta Esiodo; funzione di demarcazione che il mito assegna anche alle colonne d’Ercole, più propriamente definite in greco stelai, pilastri. L’ipotesi è stata ripresa e precisata da Bruno d’Agostino, che ha rilevato la presenza di una struttura simile su un aryballos (vasetto da profumi) corinzio raffigurante il mito di Ulisse e le Sirene, più antico di quasi un secolo. Dietro lo scoglio delle Sirene si vede una poderosa struttura costruita in blocchi regolari sormontata da un cornicione sporgente, del tutto analoga a quella rappresentata sulla Tomba del Tuffatore. Il ceramografo di Corinto ha interpretato una tradizione che collocava le Sirene ai margini del mondo conosciuto, presso le porte che separano il mondo dei viventi da quello dei morti, attingendo ad una tradizione iconografica che, a distanza nel tempo e nello spazio, anche il pittore pestano condivide.
Il tuffo in mare doveva apparire come una vera e propria immagine parlante per uno spettatore di lingua greca: è infatti attestato anche linguisticamente, almeno da Omero in poi, l’uso del verbo dùein o dùesthai, letteralmente “immergersi”, nelle locuzioni dùein eis dòmon Aidos, “sprofondare nel regno di Ade” per indicare la morte (per esempio Iliade XI, 263); anche l’immagine del kubistetér, il tuffatore, ricorre sotto forma di metafora per descrivere il distacco dell’anima dal corpo (per esempio Iliade XVI, 750).
L’ipotesi è confermata dall’analisi di tipo etno-antropologico, che ha precisato il significato del tuffo in mare (il katapontismòs) nel linguaggio simbolico e rituale greco: le fonti descrivono infatti un antichissimo rito che prevede il tuffo/lancio in mare di un membro della comunità che, attraverso il superamento della prova ordalica o attraverso la sua stessa scomparsa tra i flutti, guadagni il superamento di una crisi personale o collettiva. Il salto avveniva da una rupe detta Leucade: a tutti verrà in mente, ad esempio, il celebre salto con cui Saffo guarì dalla follia d’amore per il bel Faone. Il tuffo in mare equivale cioè ad una morte rituale, a cui segue la rigenerazione; ma può valere anche, nel caso della Tomba del Tuffatore, come metafora che ingentilisce il passaggio del confine tra vita e morte.
Inteso come simbolo del “trasumanare”, dell’attraversamento cioè dei limiti concessi agli uomini, il salto in mare si raccorderebbe ad un altro tipo di tuffo, quello nel “mare” del vino e nell’eros di cui si fa esperienza nel simposio: il programma figurativo della Tomba del Tuffatore risulterebbe, in questa prospettiva, espressione di una visione unitaria in cui uno stesso modello, quello dell’immersione, serve ad esprimere sia il superamento del confine tra vita e morte sia il rapimento estatico indotto dalla musica, dal vino e dall’amore.
Il vino, si sa, è una bevanda sacra: un pharmakon, cura e veleno al tempo stesso, donato ai mortali da Dioniso, capace di curare gli affanni ma anche di trasportare in una dimensione di conoscenza soprarazionale in cui si può esperire il contatto con il divino. Il tema iconografico del banchetto, dunque, si presta anch’esso a più piani di lettura: da un lato esso è indicatore di status e di piena adesione alla cultura greca, dall’altro la consumazione del vino è veicolo e simbolo della conquista di una dimensione superumana, quale è quella che si augura a chi valica il confine tra vita e morte. Il commensale che occupa da solo la kline di sinistra della lastra sud regge nella mano destra il barbiton, uno strumento a corda, e nella destra un uovo: le numerose riproduzioni di uova, dipinte o modellate in ceramica, rinvenute nelle tombe, soprattutto dell’Italia meridionale, esprimono simbolicamente la speranza che la morte non interrompa il ciclo vitale, ma che essa sia il passaggio obbligato per riemergere ad una nuova, più piena esistenza.