Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato
. Questa canzone (Rime LXXXIII) è citata da D. nel De vulg. Eloq. (II XII 8) per ricordare che in essa, come in Donna me prega di Guido Cavalcanti, si trova usato il verso trisillabo non per se subsistens, che è cosa da evitare assolutamente nello stile tragico, ma solo come parte dell'endecasillabo per ripercussione della rima del verso precedente (ad rithimum praecedentis carminis velut eco respondens). Nella struttura della stanza (ce ne sono 7, non seguite da congedo) che comprende 19 versi, dei quali 10 endecasillabi, 7 settenari e 2 quinari, il trisillabo in rimalmezzo compare due volte: in terza e nona sede, dopo il quinario. Precedentemente D. l'aveva usato solo nella stanza di canzone Lo meo servente core. Ecco Io schema, dov'è da notare l'eccezionale lunghezza dei piedi, di 6 versi ciascuno, e la frequenza della rima baciata (7 coppie in 19 versi, oltre la rimalmezzo dei due trisillabi): aaBbcD, aaBbcD; dEeFGgF.
La tradizione manoscritta del testo della canzone è rappresentata dai codici più autorevoli del sec. XIV, quali il Chigiano L VIII 305, il Magliabechiano VI 143, il Veronese 445 e i due autografi del Boccaccio (Chigiano L V 176 e Toledano 104. 6), dove occupa l'undicesimo posto nella serie di 15 canzoni che comincia con Così nel mio parlar e si chiude con Amor da che convien. Fu stampata in appendice all'edizione veneziana della Commedia del 1491 insieme con le altre canzoni della tradizione del Boccaccio alle quali furono aggiunte due canzoni della Vita Nuova e il discordo Aï faux ris. Nell'edizione Giuntina del 1527 la canzone si trova nel Libro IV della sezione dantesca insieme con altre 5 " canzoni morali " al quarto posto fra Le dolci rime e Doglia mi reca. Nell'edizione del '21 il Barbi la collocò nel Libro IV (" Rime allegoriche e dottrinali ") subito dopo Le dolci rime e prima dei due sonetti Parole mie e O dolci rime. Che sia posteriore a Le dolci rime non può cader dubbio perché la trattazione dottrinale sulla leggiadria, che è argomento di questa canzone, presuppone il concetto di nobiltà qual è in quella dimostrato. Non altrettanto certo è che fra l'una e l'altra non siano da inserire altre rime, ma in ogni caso non si può dilungarla di molto da Le dolci rime con la quale ha in comune il nuovo stile della rima aspr'e sottile, il discorso dottrinale connesso con gli studi filosofici che D. intraprese qualche anno dopo la morte di Beatrice, e lo stato di disamoramento della donna cantata in Voi che 'ntendendo e in Amor che ne la mente, sia essa da intendere per la Filosofia, come D. afferma nel Convivio, o per donna reale o immaginata come tale.
Come per la canzone Le dolci rime così per Poscia ch'Amor D. sente il bisogno di giustificare nella prima stanza la temporanea rinunzia al soave stile della poesia amorosa e il volgersi alla poesia dottrinale. Qui, rispetto a Le dolci rime, la situazione dei suoi rapporti con Amore è ancora più grave (del tutto m'ha lasciato), ma resiste ancora la speranza di un ritorno al soave stile in un tempo non lontano (per ch'io son certo... / ch'Amor di sé mi farà grazia ancora, vv. 17-19). Essendo così disamorato cercherà di rendersi utile trattando nei suoi versi della leggiadria per dimostrare che a torto essa, che ha nome di valore, viene attribuita a tal ch'è vile e noioso (v. 10), poiché, al contrario, ell'è verace insegna / la qual dimostra u' la vertù dimora (vv. 15-16), cioè: la vera leggiadria dimostra in chi se ne può fregiare l'esercizio della virtù la quale, come sappiamo da Le dolci rime, deriva a sua volta dalla nobiltà che è un dono di Dio.
Chi sono, dunque, i falsi leggiadri? Per tratteggiarne le caratteristiche D. si vale della seconda e terza stanza che esauriscono la parte negativa della dimostrazione, così come avviene nella canzone Le dolci rime dove le due stanze corrispondenti sono dedicate alla confutazione della falsa definizione della nobiltà. Una prima specie di falsi leggiadri è costituita da coloro che spendono senza misura il loro denaro convitando a sontuosi banchetti e vestendo abiti con lussuosi ornamenti, credendo con ciò di comportarsi come uomini virtuosi che meritano buona fama dopo la morte presso i savi, quei cotanti c'hanno conoscenza (v. 25). Ma s'ingannano, perché operare secondo virtù (in questo caso la virtù della liberalità) vuol dire mantenersi nel giusto mezzo (cfr. Le dolci rime 85-87) fra due opposti eccessi (nel caso della liberalità essi sono prodigalità e avarizia). Perciò se la prodigalità di costoro fosse azione virtuosa, lo sarebbe anche l'avarizia che è l'altro eccesso (tenere / savere fora, vv. 27-28), ma nessun saggio commetterebbe un tale errore di valutazione, abituato com'è a pregiare il senno e li genti coraggi (v. 38). Un'altra specie di falsi leggiadri sono quelli che, avendo il riso facile (per esser ridenti), ostentano prontezza di spirito suscitando l'ammirazione degli sciocchi (quei che so' ingannati, v. 42), incapaci di rendersi conto della causa del loro riso. Costoro parlano con vocaboli eccellenti, camminano atteggiandosi sprezzantemente a uomini superiori, contenti di essere ammirati da lontano; non s'innamorano mai di donna che comprenda il vero amore (amorosa); nei loro discorsi tengono scede (v. 50), cioè si dilettano di facezie scipite e di smorfie buffonesche; non muoverebbero un passo per andare a corteggiare una donna (per donneare) come si fa per vera leggiadria, ma di nascosto, come fa il ladro per il furto, vanno a pigliar villan diletto (v. 54), e può darsi che per tale degradazione dell'amore non siano immuni da colpa anche le donne nelle quali è sì dispento / leggiadro portamento, / che paiono animai sanza intelletto (vv. 55-57; è questa l'interpretazione più probabile, ma non c'è concordia fra gl'interpreti). Si conclude così la parte dedicata alla dimostrazione di ciò che è falsa leggiadria.
La quarta stanza fa da anello di congiunzione con la seconda parte della canzone (le ultime tre stanze) in cui il poeta dirà che cosa è vera leggiadria. D. ammette, prima di passare alla parte dimostrativa, che la disposizione dei cieli nel tempo in cui egli vive porti influsso tale sulla terra, che la leggiadria non segue la via che le è propria, ma ciò non è una buona ragione per farlo tacere perché, essendole egli conto, cioè amico, in grazia d'una gentile / che la mostrava in tutti gli atti sui (vv. 62-63; par certo che D. alluda a Beatrice), sarebbe una colpevole villania che lo accomunerebbe ai suoi nemici. Tratterà, dunque, il ver di lei, pur non sapendo a chi rivolgere le sue parole. È verità indiscutibile, afferma D. continuando il suo discorso con rima più sottile, che nessuno può acquistar verace loda (v. 73) nell'ambito della vita attiva, se non opera virtuosamente, ed è altrattanto vero che la leggiadria è matera bona e quindi meritevole di lode. Ne consegue, secondo un procedimento sillogistico già adottato nella canzone Le dolci rime per il rapporto fra nobiltà e virtù, che la leggiadria sarà vertù o con vertù s'annoda (v. 76).
È evidente, dice D. entrando nella parte più decisiva della sua dimostrazione con la quinta stanza, che la leggiadria non si può identificare con la pura vertù perché essa non sta bene (è blasmata) in persone per le quali più si richiede la virtù in sé stessa, come sono quelle votate a vita religiosa (gente onesta / di vita spiritale) o gli uomini di scienza, i filosofi. La leggiadria sta bene (è lodata), invece, nei cavalieri (nella Firenze dei tempo di D. c'erano cavalieri - milites - d'investitura recente da parte d'imperatori o re, o per discendenza ereditaria, e costituivano una categoria sociale nell'ambito dei nobili e dei magnati). Escluso che la leggiadria sia pura vertù perché essa sta bene in alcuni e male in altri, mentre la virtù in sé stessa sta bene in tutti, se ne deduce che con vertù s'annoda, cioè è costituita, oltre che dalla virtù (l'opera perfetta), da altre componenti, e precisamente da Sollazzo e Amore. Da questa triade retta / è vera leggiadria e in esser dura, / sì come il sole al cui esser s'adduce / lo calore e la luce con la perfetta sua bella figura (vv. 91-95).
Il paragone col sole è ampliato nella sesta stanza per consentire al poeta una più motivata esaltazione della leggiadria rispetto a un accenno precedente: bella tanto / che fa degno di manto / imperial colui dov'ella regna (vv. 12-14). La somiglianza della leggiadria col sole non si limita soltanto alla composizione ternaria degli elementi costitutivi, ma è ben più profonda: come il sole, dall'alba al tramonto, co li bei raggi infonde / vita e vertù qua giuso / ne la matera sì com'è disposta (vv. 99-101), così la leggiadria, disdegnando la moltitudine di persone che hanno solo l'apparenza di esseri umani per lo mal c'hanno in uso (v. 106), riserva i suoi doni di vita e virtù, simili a quelli del sole, ai cuori gentili, cioè a quelle persone che hanno avuto il privilegio di ricevere da Dio il dono della nobiltà, che è disposizione a essere perfetti nel raggiungimento dei fini propri dell'uomo (cfr. Le dolci rime).
Ma invano si cercherebbe questa meravigliosa leggiadria ch'al prenze de le stelle s'assimiglia nei falsi cavalier, malvagi e rei, / nemici di costei (vv. 112-114).
Di contro ai falsi cavalieri, che sono falsi leggiadri (cfr. vv. 20-57), ecco nell'ultima stanza i segni che distinguono il vero cavaliere, l'uomo veramente leggiadro (evidente anche qui l'analogia strutturale con Le dolci rime, dove l'ultima stanza è dedicata ai segni della nobiltà): dà e riceve doni con letizia senza mostrare rammarico per quello che dà né delusione per quello che riceve, si dimostra mansueto fuggendo l'ira, e parla con grazia ed eleganza; desidera la stima delle persone sagge per i meriti intrinseci della propria personalità, e non s'inorgoglisce per altezza di posizione sociale; ma quando l'occasione esige di mostrare coraggio e ardimento (franchezza) è giusto che accolga le lodi dei buoni. Se ne può dedurre che le virtù caratteristiche dell'uomo leggiadro sono la liberalità, la mansuetudine, l'affabilità, la verità, la magnanimità. Il verso lapidario con cui si chiude la canzone (Color che vivon fanno tutti contra) conferma con sdegno accorato quanto il poeta aveva detto al v. 69, di non sapere a chi rivolgersi trattando il vero della leggiadria.
Delle tre componenti della leggiadria D. ha illustrato nell'ultima stanza solo l'opera perfetta, cioè l'esercizio delle virtù morali più pertinenti all'uomo leggiadro. Per le altre due componenti (Sollazzo e Amore) D. non ha creduto opportuno aggiungere chiarimenti a quanto risultava dalla schematica definizione della leggiadria nei vv. 89-90. Non è difficile, però, ricavare dal contesto della canzone che cosa D. intendesse in questo caso per Sollazzo e per Amore. Sollazzo, che richiama il valore semantico del provenzale solaz nell'uso dei trovatori, si può interpretare per letizia, stato gioioso che accompagna spesso le azioni e le conversazioni di dame e cavalieri nel mondo cortese e cavalleresco; letizia mai disgiunta da quella serena compostezza implicita nell'esercizio delle virtù morali e che perciò si contrappone alla smodata e insulsa ilarità dei falsi leggiadri che, per essere ridenti, vengono ammirati dagli sciocchi (cfr. vv. 39-44). Si potrebbe anche intendere per " gioco " o " divertimento ", tenendo presente un passo del Convivio (IV XVII 6), dove appunto sollazzo è usato in tal senso a proposito della decima virtù morale chiamata Eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo. L'amore degno dell'uomo leggiadro sarà evidentemente tutto il contrario di quanto è detto nei vv. 48-57 (non sono innamorati / mai di donna amorosa, ecc.), e cioè: l'uomo leggiadro s'innamorerà di donna amorosa (che abbia il dono della bellezza e sia gentile e virtuosa), si diletterà di donneare (stare a conversazione con le donne corteggiandole), non andrà furtivamente alla ricerca del volgare diletto sensuale.
Rispetto alla canzone Le dolci rime, dove si può dire esclusivo l'interesse filosofico ai fini di una corretta definizione della nobiltà, in questa canzone il gusto intellettuale per la ricerca di una definizione della leggiadria si accompagna alla protesta morale contro i falsi leggiadri e falsi cavalieri di cui D. aveva diretta esperienza nella Firenze del suo tempo. Il decadimento dei bei costumi gli appare così esteso da fargli sembrare inutile il suo intervento di denunzia, se non fosse per il dovere che egli sente di compiere per coerenza verso la propria personalità morale. È certo che con questa canzone D. si avvicinava a un modello non gradito, alla poesia moraleggiante di Guittone d'Arezzo, e forse congiuravano insieme l'antipatia verso il poeta aretino e il perdurante pregiudizio che in lingua volgare non si dovesse rimare sopra altra macera che amorosa (Vn XXV 6) per far sì che D. rinunziasse, dopo Poscia ch'Amor, a interessarsi di questioni morali, sociali e politiche che la travagliata situazione del comune fiorentino in quegli anni anteriori al suo esilio gli offriva abbondantemente. Sarà l'ingiusto esilio a sollecitare la sua vocazione di poeta della rettitudine di cui si vanterà nel De vulg. Eloq. (II II 9) citando la canzone Doglia mi reca, ma qualcosa di quella vocazione è già in questa canzone della leggiadria che D. avrà certamente presente in alcuni luoghi della Commedia.
La denunzia di D. contro i falsi cavalier, malvagi e rei dei suoi tempi ha una sua eco nelle accorate parole di Guido del Duca sulla decadenza dei costumi connessi con la leggiadria: le donne e' cavalier, li affanni e li agi / che ne 'nvogliava amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi (Pg XIV 109-111). Ma la suprema conferma dell'alto concetto che D. ebbe della leggiadria si troverà nelle parole di s. Bernardo per indicare a D. l'arcangelo Gabriele nell'atteggiamento festoso di contemplare la vergine Maria, innamorato sì che par di foco (v. 105). Nei suoi atti c'è una sublime leggiadria, come fa rilevare s. Bernardo: Baldezza e leggiadria / quant'esser puote in angelo e in alma, / tutta è in lui (Pd XXXII 109-111).
Bibl. - C. De Lollis, Quel di Lemosì, in Scritti di filologia in onore di E. Monaci, Roma 1901, 353 ss.; Contini, Rime 98 ss.; D.A., Rime, a c. di D. Mattalia, Torino 1943, 158; F. Montanari, La canzone della leggiadria, ibid. 1961; V. Pernicone, Le prime rime dottrinali di D., in " Belfagor " XX (1965) 501 ss.; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, 228 ss.; Barbi-Pernicone, Rime 437 ss.; P. Boyde, Dante's style in his poetry, Cambridge 1971.