Vedi PORTO dell'anno: 1965 - 1996
PORTO (Ostia) (V. vol. VI, p. 393)
Il riesame (Colonna, 1981) della barchetta nuragica di bronzo, rinvenuta a P. attorno al 1860 e conservata all'Ermitage, ha confermato che fin da età antica il sito poi occupato dai porti imperiali di Ostia, dove certo esisteva una baia naturale, fosse utilizzato come approdo per le rotte della navigazione tirrenica.
Una monografia dedicata ai porti imperiali (Testaguzza, 1970) contiene una sistemazione dei risultati delle ricerche condotte in occasione dei lavori per la costruzione dell'aeroporto L. da Vinci (1957-1961), che interessarono una parte considerevole delle strutture del bacino di Claudio, oggi in larga misura distrutte o rese invisibili dalla presenza degli impianti aeroportuali.
Secondo la linea interpretativa già del Lugli, sviluppata da Testaguzza e Scrinari (v. Fiumicino), il molo destro corrisponderebbe alla dorsale detta Monte Giulio. L'accesso al bacino sarebbe avvenuto da NO. Il molo sinistro sarebbe costituito da un muraglione a gettate di calcestruzzo, rivestito all'esterno, in un primo tratto, da quattro ricorsi di blocchi di travertino. La fondazione del faro sarebbe stata inserita nel molo sinistro e progettata contestualmente a esso: una massa muraria di conglomerato corrisponderebbe a parte dell'enorme nave che, secondo le fonti, trasportò a Roma sotto Caligola l'obelisco destinato al Circo Vaticano, e che poi venne affondata per servire, appunto, da basamento del faro del Porto di Claudio.
Una diversa ricostruzione - avanzata di recente sulla base delle foto aeree, e che riprende, del resto, le ipotesi già formulate da Castagnoli - prevede invece, per il bacino, un accesso da SO (il lato più protetto dai venti dominanti nel Tirreno); al centro di tale apertura vi sarebbe stato l'isolotto del faro (Giuliani, 1992).
Nel bacino di Claudio sono state scavate le chiglie di sette navi affondate, cinque delle quali sono esposte dal 1979 nel vicino Museo delle Navi (v. Fiumicino).
Nell'area della città di P. e degli impianti attorno al porto esagonale traianeo, comprensorio finora poco noto archeologicamente, sono state eseguite - soprattutto in coincidenza dell'avvio dell'esproprio nel 1989 - alcune campagne di scavo e di restauro, che hanno confermato la datazione all'età Claudia del molo destinato poi a proteggere il canale di collegamento col bacino di Traiano. Le acquisizioni più importanti hanno riguardato però l'età tardoantica (Coccia, Paroli, 1993; Coccia, 1993). Il c.d. Xenodochio di Pammachio, nuovamente indagato, si è rivelato in realtà una probabile basilica, attiva forse fin dalla seconda metà del IV sec. (mentre lo Xenodochio sarebbe da ubicare presso S. Ippolito: Testini, 1986). Presso la basilica, un ninfeo decorato da marmi sembrerebbe essere parte di una ricca domus.
Si è potuta precisare inoltre l'epoca di costruzione (non prima della fine del IV sec.) della cinta muraria, che lascia fuori una parte dell'abitato. Un ulteriore restringimento è segnato dalla realizzazione delle mura «interne» (forse nel pieno V sec.), che corrispondono a uno spostamento del baricentro urbano verso S, cioè dall'area dei porti a quella della Fossa Traianea (come dimostra, sull'altro lato del canale, lo sviluppo del complesso di S. Ippolito: v. oltre).
L'inizio dell'abbandono degli horrea di P. è da situare, secondo gli indizi offerti dai recenti scavi, fra il V e gli inizi del VI sec., ma i bacini portuali - e l'abitato connesso - sarebbero rimasti parzialmente attivi almeno fino alla seconda metà del IX secolo.
Un aspetto importante dei commerci portuensi, quello dei marmi, è stato illuminato dall'identificazione della statio marmorum sulla sponda meridionale del canale artificiale di Fiumicino, presso Capo Due Rami; qui, fra l'altro, sono stati recuperati, in due grandi gruppi, circa 250 pezzi di marmi sbozzati, per lo più colorati, di diversa provenienza. Alcuni reperti hanno bolli di piombo con ritratti imperiali, o recano iscritte le date consolari (comprese fra l'età di Domiziano e quella di Marco Aurelio) e formule connesse con la gestione delle cave e con il controllo imperiale su questo commercio. Si è anche ipotizzata (Fant, 1992) l'esistenza di officine situate presso la statio e adibite alla finitura di marmi.
In una delle necropoli della città, quella lungo la Via Portuense, sono state scavate nel 1984 una ventina di tombe a camera del tipo ad arcosoli e formae su livelli sovrapposti, databili soprattutto agli inizi del III sec. d.C. Nella stessa zona era stato già recuperato un pregevole sarcofago del tipo microasiatico a colonne.
La necropoli dell'Isola Sacra è oggetto di un complessivo riesame, con la ripresa delle indagini di scavo da parte dell'Istituto di Archeologia dell'Università «La Sapienza» di Roma. I risultati hanno portato alcune novità nell'interpretazione di aspetti anche sostanziali della storia e dell'organizzazione del sepolcreto. Si è potuto accertare che la strada che lo attraversa risale al I sec. d.C. e fu progettata per collegare Ostia con il Porto di Claudio (l'epigrafe tarda alludente alla bia Flabia va, dunque, riferita alla prima dinastia Flavia e non ai Flavi constantiniani). Questo dato trova conferma nelle modalità di occupazione del terreno da parte delle sepolture: i nuovi sondaggi hanno permesso di chiarire che il più antico fronte di tombe si allineò a ridosso del lato O della strada fin dalla fine del I sec., e che nel III sec., quando lo spazio retrostante cominciava a scarseggiare, un nuovo filare di sepolcri si sovrappose a quello già esistente. Nel fianco E della strada, contrariamente a quanto ritenuto in passato, si sono individuate diverse file di tombe a cella, con un'organizzazione analoga a quella del lato opposto.
Modifiche delle conoscenze precedenti si sono avute a proposito dei riti funerari. La ricerca ha documentato che fin dall'età adrianea esisteva l'uso dei seppellimenti in formae (loculi sottopavimentali delimitati da muretti), costruttivamente previste nelle tombe a cella caratterizzate da rito misto. Tale sistema implicava inoltre che a ogni nuova sepoltura il pavimento (a mosaico o a lastre marmoree) dovesse essere rotto e ripristinato. Da questo e altri elementi si desume che in una prima fase la configurazione architettonica della tomba prescinde sostanzialmente dal suo uso e, in generale, da ogni preoccupazione circa il destino ultraterreno dell'individuo; interessa solo il messaggio che il monumento funerario trasmette alla collettività in termini di prestigio e posizione sociale del gruppo familiare proprietario. La fase di transizione a un diverso atteggiamento nei confronti della morte è segnata, in età antonina, dagli eccezionali mosaici della Tomba della Mietitura, scavata nel 1988-89 sul lato E della strada. Se i riquadri con i lavori agricoli (ciclo della coltura del grano) alludono ancora alla posizione del defunto nel contesto della comunità, la scena del ritorno di Alcesti dall'Ade rinvia probabilmente al concetto del legame coniugale non spezzato dalla morte.
Di un mutamento dell'ideologia funeraria si hanno numerose conferme nella seconda metà del III sec. e nel IV sec.; l'accento (anche nelle decorazioni) è ora posto sulla sorte finale del defunto, e la struttura della tomba è più consona alla sua funzione di accogliere il corpo. La migliore testimonianza è data dalla tomba 34, che originariamente aveva una sistemazione a formae del pavimento della cella e del recinto, capace di ben 150 inumazioni, mentre nella seconda fase (fine del III sec.) si eliminarono le formae sotto un settore del portico e si creò un ambiente ipogeo utilizzato per seppellirvi tre sarcofagi figurati, non visibili e quindi privi di ogni funzione celebrativa (si tratta di una singolare lenòs con elefanti e scene di caccia, e di due sarcofagi strigliati con figurazioni centrali).
Gli scavi nel sepolcreto hanno portato anche alla scoperta di oltre 600 tombe non monumentali (in sarcofagi fittili e lignei, anfore, fosse terragne) e di klìnai e altri apprestamenti rituali all'esterno delle tombe architettoniche.
La via centrale della necropoli attraversava la Fossa Traianea, poco più a N, mediante un ponte, la cui rampa d'accesso è stata scoperta nel corso di recenti scavi. Un'epigrafe opistografa ne attribuisce la costruzione a Matidia, nipote di Traiano (in evidente connessione con la creazione del bacino portuale traianeo) e ricorda i restauri effettuati per due volte nel corso del V sec., a testimonianza della perdurante importanza della via, che metteva in comunicazione il Lazio meridionale con i porti. Nei pressi del ponte, sul lato dell'Isola Sacra, si sviluppò col tempo un vero e proprio quartiere della città di P., la cui consistenza è stata in parte chiarita dalle indagini degli anni '70. Esso comprende, fra l'altro, la Basilica di S. Ippolito, martire portuense del III sec., le cui vicende sono riferite in modo piuttosto confuso dalle fonti cristiane.
Gli scavi hanno rivelato che il luogo di culto cristiano, impiantatosi su precedenti strutture di età imperiale, si sviluppò inizialmente con un edificio absidato (forse dovuto a papa Damaso, e non sappiamo se già dedicato a Ippolito) e infine con la vera e propria basilica, della fine del IV sec. d.C. Si trattava, originariamente, di un grande edificio a tre navate, porticato e absidato. Divenuta la cattedrale di P., la chiesa fu distrutta dai Vandali nel 455; ricostruita, fu abbellita da Leone III (759-816) con un ciborio, oggi ricomposto e conservato nel Castello di Giulio II a Ostia Antica. Sappiamo che papa Formoso, nel IX sec., fece traslare le reliquie di S. Ippolito sull'Isola Tiberina, ma probabilmente non per intero, se sotto il presbiterio della basilica è stato rinvenuto un sarcofago con i resti di più individui e l'iscrizione hic requiescit beatus ypolitus mar(tyr).
Un altro luogo di culto tardoantico, pagano in questo caso, è stato scoperto nell'Isola Sacra, sulla sponda sinistra della Fossa Traianea, presso l'antica foce (area della raffineria S.A.R.O.M.). Si tratta di strutture disposte attorno a un'area trapezoidale, che ebbero una fase edilizia della seconda metà del IV sec. d.C. Vi è stata rinvenuta una statua marmorea di ascendenza ellenistica, esposta nel Museo Ostiense, che viene identificata col tipo di Iside Pelagia (protettrice della navigazione) accompagnata dal serpente Agathodàimon. Dall'edificio proviene anche un ritratto di Settimio Severo come Serapide. Tutto ciò ha fatto supporre che nel complesso vada riconosciuto l'Iseo di P., noto da alcune epigrafi, una delle quali attribuisce l'ultimo restauro al 375-378 d.C. Indagini riprese nel 1985 hanno rivelato l'esistenza, presso il presunto Iseo, di altre strutture (fra le quali un ambiente riscaldato), risalenti alla piena età imperiale con interventi più tardi.
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