Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’idea del gruppo è alla base stessa di gran parte dei filoni che costituiscono la galassia delle musiche popolari. Il gruppo tende a inglobare le singole personalità e ad avanzare una proposta che non è solamente musicale ma esistenziale. Si tratta di una svolta epocale rispetto alle rigide divisioni che regolano il music business, dove compositore, paroliere, arrangiatore, produttore ed esecutore rappresentano ruoli diversi, assegnati a persone diverse, che spesso non s’incontrano mai.
L’intero sviluppo della popular music nel Novecento è segnato dai contributi di formazioni vocali e strumentali di vario tipo e dimensione. Si può affermare che l’idea stessa di gruppo – quand’anche al servizio di singoli interpreti – è alla base di gran parte dei filoni che costituiscono la galassia delle musiche popolari. L’Encyclopedia of Popular Music of the World riporta, sotto la sezione “Gruppi”, ben 64 lemmi che approfondiscono altrettante tipologie di gruppi quasi tutte emerse nel Ventesimo secolo: dalle formazioni costituite da sole fisarmoniche (accordion band) alle big bands jazzistiche, dai mariachi messicani alle steel bands caraibiche, passando per i vari duo, trio, quartetti e così via, fino alle bande specializzate in musiche per matrimoni e funerali.
Ma se questa tassonomia rende conto di logiche legate per lo più agli aspetti strettamente musicali, il fenomeno dei gruppi nella sua valenza sociale ed estetica esplode negli anni Sessanta con l’avvento del beat britannico, connotato da una forte componente collettivistica. Il gruppo tende a inglobare le singole personalità e ad avanzare una proposta che non è solamente musicale ma esistenziale: nei gruppi beat e poi, con maggior enfasi, nei gruppi rock di fine decennio, si mette in pratica l’utopia dell’uguaglianza, della solidarietà e del rispetto reciproco, attraverso l’assimilazione di arte e vita e la convinzione che la musica possa essere l’avanguardia di una rivoluzione nei rapporti umani e sociali. Sebbene questa visione sia largamente intrisa di romanticismo e valori bohémien, i musicisti la prendono molto sul serio ed è la spinta che li ha portati a condividere ogni momento della creazione musicale, compresa la composizione stessa di un brano, che tradizionalmente è affare individuale e non solo nella musica classica. Da allora la firma di un brano rock viene spesso estesa a tutti i membri del gruppo, a testimonianza di una creazione collettiva o, meglio, di un prodotto realizzato grazie alla collaborazione di tutti. Si tratta di una svolta epocale rispetto alle rigide divisioni che regolano il music business, dove compositore, paroliere, arrangiatore, produttore ed esecutore sono ruoli diversi, assegnati a persone diverse che spesso non s’incontrano mai. Il rock, con la sua ideologia “comunitaria”, scombina le carte promuovendo una svolta che investe i fondamenti stessi del copyright e il concetto di autore. Negli anni in cui la riflessione filosofica stimolata da Foucault, Barthes e Derrida giunge a ridimensionare la figura del soggetto, il rock fornisce la propria versione di questa corrente epistemologica moltiplicando la figura dell’autore in più soggetti, egualmente tutelati dal punto di vista giuridico, anche se il contributo del batterista, poniamo, è meno rilevante di quello dato dal tastierista. Con questo gesto, il rock degli anni Sessanta prelude a un’autonomia totale sul piano economico e organizzativo, quando negli anni Settanta alcuni fra i maggiori gruppi si metteranno in proprio fondando proprie etichette e incidendo in studi di loro proprietà, affidando a terzi il solo momento della distribuzione.
Il giovanilismo ribelle degli anni Cinquanta si afferma principalmente nella modalità del gruppo, che succede a una storia musicale fatta perlopiù di orchestre e solisti. E lo fa portando alla ribalta numerose supporting bands al seguito di cantanti di rock‘n’roll come Bill Haley (& the Comets) o Buddy Holly (& the Crickets). Quel tipo di gruppo, composto da base ritmica (basso, batteria, chitarra d’accompagnamento) e chitarra (o più raramente pianoforte) solista, ha ancora caratteristiche anonime, nel senso che le singole personalità rimangono sullo sfondo per dare il massimo risalto al leader. Il filone afro-americano invece sperimenta con maggior convinzione la democrazia del gruppo, già a partire dagli anni Trenta con formazioni vocali come Mills Brothers e Ink Spots (a cavallo fra swing e R&B), Golden Gate Quartet (gospel) e una vera e propria miriade di gruppi doo-wop e R&B che dominano la scena degli anni Cinquanta (dai Platters ai Drifters). Il modello è il quartetto a cappella, formato da basso, baritono e due tenori (di cui uno spesso canta in falsetto), similmente a molte culture musicali distanti nel tempo e nello spazio (come il trallallero genovese). La voga di questi gruppi vocali inizia nelle strade di New York a partire dal 1945 e per uno che ha successo, altri dieci ingrossano le fila di uno straordinario dilettantismo di massa, visibile a ogni angolo di strada: street corner harmonies si chiamano tuttora quei cori improvvisati ma rigidamente strutturati in quattro parti, che eseguono melodie di successo alla maniera dell’onomatopeico “doo-wop”. Un’alternativa alla partita a biliardo o a basket, ma anche un’attrattiva per turisti e passanti, che rafforza il secolare legame della musica afro-americana con la strada.
Grazie ai piccoli gruppi, e non solo attraverso le big band e i loro direttori-star, si diffonde anche il jazz (dagli Hot Five e Hot Seven di Louis Armstrong al Sextet di Benny Goodman), con insiemi denominati combo, dove il numero di strumentisti varia mediamente da sette a dieci. Dallo spirito dello swing prendono forma alcuni gruppi vocali femminili che negli anni Quaranta e Cinquanta registreranno notevoli successi di vendita, primo fra tutti le Andrews Sisters. Il fenomeno vivrà una eccezionale stagione fra i tardi anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta, quando si parlerà di “girl group sound” a proposito di un pop per adolescenti romantico e sognatore. Formazioni come le Shirelles, le Shangri-Las, le Chiffons hanno spesso origine studentesca: nascono nei college femminili durante le feste da ballo o le serate spese a fantasticare sul ragazzo della porta accanto o sui personaggi del cinema. La loro stagione tramonterà quando la legge del gruppo non basterà più a tenere insieme amiche che nel frattempo hanno sviluppato una propria personalità artistica e desiderano mettersi alla prova da sole (è il caso delle Supremes, che si sciolgono quando Diana Ross sceglie la strada solistica).
I primi a veicolare l’idea di gruppo presso il grosso pubblico sono i Beatles, da subito conosciuti per nome, uno ad uno e oggetto di un culto senza precedenti a partire dal 1964, l’anno della loro affermazione planetaria. I Beatles nascono in una Liverpool che si rivela il primo storico paradiso per centinaia di gruppi musicali, al punto da dare il nome a un genere che farà da apripista al beat (il Merseybeat) a partire dal fiume cittadino. Presto le strategie di marketing dell’industria discografica contrappongono all’immagine pulita e autoironica dei “favolosi quattro” l’impatto assai meno rassicurante dei Rolling Stones. E sarà proprio il gruppo di Mick Jagger e Keith Richards a imporsi come la primigenia incarnazione della mitologia rock: anticonformisti, sarcastici, rispetto per le radici (blues, R&B), preminenza di riff e chitarre “sporche”, testi provocatori. Dalla seconda metà degli anni Sessanta alla metà dei Settanta i gruppi dominano la scena della musica giovane, con formazioni a tre (Cream, Nice) o più fino a un massimo di nove elementi (Blood, Sweat & Tears). Poi il panorama si semplifica di molto, lasciando sul terreno i soli gruppi dell’heavy-metal con le loro vendite milionarie. Numeri meno eclatanti ma un ben diverso impatto sulla storia della musica accompagnano nella seconda metà degli anni Settanta i gruppi del punk, mentre la mitologia della rock band sopravvive negli anni Novanta nelle esperienze che più da vicino ricordano le origini “belle e dannate” della musica giovane (Nirvana, REM).
Se dagli anni Novanta in poi il successo arride per lo più alle boy band che rilanciano con forza il pop per adolescenti (Take That, Spice Girls, Oasis), un caso unico sono le esperienze quarantennali dei Grateful Dead, o dei Nomadi in Italia, che hanno fatto dell’idea stessa di gruppo uno stile di vita e un culto intergenerazionale ai margini del music business.
In Italia i gruppi, chiamati per molti anni “complessi”, emergono per la prima volta a metà dei Sessanta, negli anni dei “capelloni”, a immagine e somiglianza del beat britannico e del folk-rock americano. Iniziano come cover band e solo in un secondo tempo si impongono con canzoni originali (Equipe 84, Rokes). Ma la vera stagione dei gruppi italiani comincia negli anni Settanta, sull’onda di un movimento controculturale che dà il via a numerosi festival, etichette e riviste. Il modello di riferimento è il progressive rock inglese, ma PFM (Premiata Forneria Marconi), Banco del Mutuo Soccorso (poi Banco), Area e Stormy Six elaborano percorsi originali all’incrocio con sonorità pre-world e una sincera vocazione politica. È e rimane per anni un rock alternativo, che si travasa negli anni Ottanta come “indipendente” (Litfiba, CCCP, Avion Travel) per la forte opposizione nei confronti della musica prodotta dalle majors. Una vocazione che rimarrà costante nella nuova generazione degli anni Novanta, affascinata dalle contaminazioni con i dialetti locali, l’hip hop, i ritmi del mondo e l’ironia (Almamegretta, Sud Sound System, Elio & Le Storie Tese).