popolo
I diversi significati assunti dalla nozione di popolo possono essere ricondotti, con qualche approssimazione, a due accezioni principali. Nella prima per p. si intende la totalità delle persone unite da un vincolo di tipo giuridico-politico (il populus romanus, il p. italiano a partire dal 1861), storico-culturale (il p. italiano prima del 1861), etnico-geografico (il p. normanno, il p. siciliano) o religioso (il p. di Dio, il p. dei fedeli). Nella seconda accezione per p. si intende quella parte della società contraddistinta dall’assenza o dalla relativa scarsità di potere e di ricchezza; come tale il p. si distingue dalle élites politiche e sociali e spesso, sul piano politico, si contrappone a esse, dotandosi di propri ‘partiti’ o servendosi, là dove previsto dall’ordinamento, di specifiche istituzioni rappresentative (come nella Roma repubblicana o nei Comuni italiani del 13° sec.). Tali accezioni, qui presentate in termini descrittivi, si sono caricate – nelle diverse fasi storiche e nei vari pensatori che hanno contribuito alla loro elaborazione – di giudizi di valore positivi o negativi e, soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese, di potenti suggestioni emotive.
Nella cultura greca la nozione di p. (δῆμος) assume diversi significati: essa indica l’insieme dei liberi coltivatori e allevatori, l’intera comunità in armi (Omero) o l’insieme dei governati, distinti dai governanti e contrapposti a essi. Nella democrazia periclea il δῆμος è la generalità dei cittadini che governano tramite l’assemblea. Ma per Aristotele la democrazia non è il governo del p., bensì il governo dei poveri, e per tale ragione rientra nelle forme degenerate di governo, quelle in cui non vi è equilibrio tra i vari elementi della πόλις e in cui i governanti non perseguono l’interesse generale. Nella Roma delle origini il p. designava l’insieme di coloro che non erano ottimati (populus plebesque), mentre in età repubblicana indicava la totalità dei cives romani. Secondo Cicerone, infatti, la res publica coincide con la res populi, con l’avvertenza, però, che «non è popolo ogni agglomerato di uomini riunito in un modo qualsiasi, bensì una riunione di gente associata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza degli interessi» (De re publica, I, 25). Emerge qui una definizione giurico-politica di p., che non include alcun elemento di tipo culturale, etnico o territoriale. Per esprimere questi due ultimi elementi i Romani usavano il termine natio, nel quale era presente una sfumatura di significato corrispondente all’odierno ‘nativi’; quando i Romani volevano indicare una comunità civile di livello superiore, paragonabile alla loro, non usavano natio ma populus.
Nell’alto Medioevo Isidoro di Siviglia (6°-7° sec.) dà la seguente definizione: «Populus est humanae multitudinis, juris consensu et concordi comunione sociatus. Populus autem eo distat a plebibus, quod populus universi cives sunt, connumeratis senioribus civitatis. Populus ergo tota civitas est; vulgus vero plebs est». Questa definizione di Isidoro, da un lato, riecheggia quella ciceroniana (perché anche Isidoro vede nel p. una comunità legata da vincoli giuridici e di concordia politica); dall’altro lato, essa riprende la distinzione tra p. e plebe contenuta nelle Istituzioni di Giustiniano, nelle quali il primo era costituito dalla intera comunità dei cittadini, mentre la seconda era composta dalla sua componente medio-bassa, cioè dal p. senza gli ottimati. Una svolta importante nella storia del concetto di p. è quella realizzata da Manegoldo di Lautenbach (fine sec. 11°) che abbozza l’idea di un vero e proprio pactum tra il p. e il re che lo deve proteggere. Il ruolo e i poteri di un re, egli dice, superano ogni altro potere terreno, sicché uomini cattivi non possono esercitarli. Il p. non innalza sopra di sé un re («neque enim populus ideo eum super se exaltat») perché egli faccia il tiranno, ma perché lo protegga dalla ingiustizia e dalla tirannia. Questa idea si rafforza nel basso Medioevo. Secondo Tommaso d’Aquino il populus è «multitudo hominum sub aliquo ordine sociatus» (Summa theologiae, I, q. 31), proposizione che ribadisce ancora una volta l’idea del diritto come fondamento del popolo. Del resto Tommaso, assertore della superiorità della forma monarchica, considera un bene che «tutti partecipino in qualche modo al governo»: il principato migliore, scrive l’Aquinate, è «un principato di tutti», sia «perché tutti possono essere eletti, sia perché sono eletti da tutti». Tolomeo da Lucca, portando a termine il De regimine principum di Tommaso, sostiene che quanti hanno coraggio e intelligenza «non possono non essere governati se non con un regime politico», ossia con un regime in cui le cariche siano elettive. Questa linea di pensiero culminerà in Marsilio da Padova, per il quale la legge è il frutto della volontà del legislatore e questi coincide con l’universitas civium seu populus: «il legislatore, ovverosia la prima e l’effettiva causa efficiente della legge, è il p. o il complesso dei cittadini, oppure la parte prevalente di essi, che comanda e decide per sua scelta o per suo volere, in un’assemblea generale» (Defensor pacis, 1522, I, 12).
La parola p. ricorre molte volte negli scritti di Machiavelli, il quale afferma che il p., insieme ai «grandi», è uno dei «dua umori diversi» che si trovano in ogni città e dalla cui combinazione scaturisce la forma di governo: «il populo desidera non essere comandato ne’ oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nella città uno de’ tre effetti, o principato o libertà o licenzia» (Il Principe, 1532, IX, 1). Secondo il Fiorentino l’appoggio popolare è decisivo ai fini della stabilità politica: «colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficoltà che quello che diventa con lo aiuto del populo, perché si trova principe con di molti intorno che li paiano essere sua equali, e per questo non li può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a obbedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a’ grandi e senza iniuria d’altri, ma si bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso» (ivi, IX, 2-3). Un rilievo assai maggiore ha il p. nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1531) di Machiavelli, ed è stato sostenuto che in essi (almeno nel I libro) il p. è il protagonista della vita profonda dello Stato. Alcuni decenni dopo la morte di Machiavelli esplodono in buona parte d’Europa le guerre di religione, che determinano un modo nuovo di guardare al popolo: il quale viene concepito come «p. di Dio», ossia come la comunità dei credenti, alla quale Dio ha affidato la sua legge, e che ne è custode anche di fronte ai sovrani. In un famoso testo di incerta attribuzione, Vindiciae contra tyrannos, si legge che «le città non consistono in un mucchio di pietre, ma in quello che chiamiamo p.», il vero «proprietario» dello Stato, intendendo con ciò non l’intera popolazione, «quella bestia da un milione di teste», bensì i magistrati intermedi (cioè i notabili). Qui viene espressa una concezione che vede il p. costituito soltanto quando è strutturato in comunità (vicus, pagus, oppidum), rette da autorità cui egli ha dato il consenso. Anche per Grozio (De jure belli ac pacis, 1625) era impensabile un p. senza summum imperium, sicché il p. è un corpo artificiale che, a somiglianza di quello naturale, ha bisogno di uno ‘spirito vitale’ (l’autorità) che lo muova. Hobbes, a sua volta, distingue nettamente tra moltitudine e popolo. Egli rifiuta la teoria del doppio patto presente nella precedente tradizione contrattualistica, secondo la quale una moltitudo di individui, attraverso il pactum societatis, si unisce in un populus, e quest’ultimo, attraverso un pactum subjectionis con il sovrano, dà vita alla civitas, ossia allo Stato. Per Hobbes prima che sorga lo Stato non esiste il p. come persona e quindi come soggetto di diritti, ma soltanto una moltitudine dispersa e irrimediabilmente conflittuale; e dopo la stipula del patto, avendo tutti i singoli alienati i loro diritti al sovrano, il vero p. è il sovrano. È solo con Rousseau che il p. viene a costituire la grande realtà della politica: ciò che non è p., affermerà il Ginevrino, rappresenta un’entità così modesta che non vale la pena di tenerne conto. Gli uomini sono nati liberi ed uguali: e l’unica forma di associazione politica che può conservare tali caratteristiche è quella fondata su un patto in cui ogni individuo cede tutti i propri diritti «a tutta la comunità». Da un simile patto scaturirà un corpo morale e collettivo, una persona pubblica, i cui componenti prenderanno collettivamente il nome di p. e saranno, al tempo stesso, sovrani (in quanto legislatori) e sudditi (in quanto sottoposti alle leggi). Se Rousseau declina l’idea di p. in termini essenzialmente politici, Herder la declina in termini esclusivamente culturali: ogni p. è una grande individualità storico-culturale, con la sua anima profonda che trova espressione nel linguaggio, nella religione e nel folclore. Ne consegue che ogni p. deve rimanere fedele a questa sua identità, tanto più ricca quanto meno è regolamentata dallo Stato, quanto meno è logorata dalla civilizzazione. Da questo momento in avanti, l’idea di p. fa tutt’uno con quella di nazione, di cui seguirà la divaricazione fra l’accezione politica di ispirazione democratica (la linea Mazzini-Renan) e quella identitaria di ispirazione nazionalistica (la linea Fichte-Treitschke): per questi sviluppi (➔) nazione.
Nell’elaborazione dell’idea di p. un posto particolare spetta a Hegel. Per un verso, al pensatore tedesco si deve la concezione della storia del mondo come una successione di «spiriti dei p.» (Volksgeister). In ogni epoca, per Hegel, vi è un p. che incarna il principio più alto raggiunto sino a quel momento dalla storia universale: di qui il diritto di tale p. a essere considerato dominante (concezione che influirà sulle correnti nazionalistico-imperialistiche). Il p., però, fa tutt’uno con lo Stato, e solo all’interno delle sue cerchie organizzate (classi, corporazioni) esso trova la propria realtà sostanziale. Il p. preso a sé, senza lo Stato (cioè senza le istituzioni politiche e l’organizzazione giuridico-amministrativa) rappresenta per Hegel la «parte che non sa quel che vuole. Sapere che cosa si vuole, e, ancor più, che cosa vuole la volontà che è in sé e per sé, la ragione, è il frutto di una conoscenza e di una penetrazione più profonda che, appunto, non è affare del p.» (Lineamenti di filosofia del diritto, 1821, § 301). Con ciò Hegel rifiuta radicalmente la concezione democratico-liberale di popolo. Per Marx occorre distinguere tra le diverse classi del p., il quale non è dunque un’entità omogenea, ma profondamente differenziata. L’unica classe omogenea all’interno del p., e che ha il futuro per sé, è la classe operaia, costituita da coloro che lavorano nella manifattura moderna, e che prima o poi (con la scomparsa delle classi intermedie) costituirà la grande maggioranza del p., conquisterà il potere politico e costruirà una società comunista.