Popoli e culture dell'Italia preromana. Gli Umbri
La suddivisione amministrativa dell’Italia in regiones, voluta da Augusto, cristallizza certamente situazioni geografiche già esistenti e trova giustificazioni anche dal punto di vista etnico. La regio VI (Umbria) non deve essersi sottratta alla logica soggiacente a uno schema conforme ai dettami del regime augusteo, assai sensibile a recuperi “antiquari”. Le fonti letterarie di epoca precedente tendono invece ad amplificare notevolmente i confini della regione. In tal senso è illuminante la testimonianza di Erodoto (IV, 49) che dilatava verso settentrione la presenza di Ombrikoi, a questi attribuendo anche territori poi abitati da genti di stirpe etrusca: per lo storico greco dell’avanzato V sec. a.C., infatti, i Lidi arrivarono es Ombrikous (I, 94). Tale convinzione troverebbe conforto in altre notizie antiche, dal momento che anche per Perugia le fonti sembrano evidenziare un apporto umbro, più precisamente sarsinate (Serv., Aen., X, 201) e che un altro centro etrusco, Cortona, viene ritenuto di origine umbra, come tramanda Dionigi di Alicarnasso (I, 20, 4).
Nella stessa prospettiva può essere letta la tradizione che vede gli Etruschi sottrarre ben 300 oppida agli Umbri (Plin., Nat. hist., III, 112), cui altri autori attribuivano, non a caso, il possesso di entrambi i versanti dell’area appenninica (Pol., II, 16, 4). Anche la paralìa adriatica nell’ottica greca era per lungo tratto terra di Ombrikoi che tenevano Ancona e le terre ancora più a sud (Ps.-Scyl., Per., 16f ). Le testimonianze elleniche più antiche appaiono dunque ampliare la presenza umbra nel territorio lambito dal Mare Adriatico rispetto a quella che sarà l’estensione della regio VI secondo il quadro successivamente disegnato dagli autori di epoca romana (Strab., V, 2, 10; Plin., Nat. hist., III, 112). Sempre dal punto di vista delle fonti greche, la stretta contiguità fra Umbri ed Etruschi deve aver contribuito inoltre all’assimilazione dei primi ai secondi sotto il comune denominatore della tryphè e della habrosyne, come Teopompo affermava nelle Filippiche (apud Ath., XII, 526 d-f ), seguito in ciò dallo Pseudo-Scimno (v. 366), ma tale convinzione appare essere frutto anche dell’opinione espressa dallo Pseudo-Aristotele sulla fertilità del territorio e sulla fecondità del bestiame e delle donne degli Umbri (apud St. Byz., s.v. Ombrikoi).
La contiguità con gli Etruschi correva dal Tevere all’Adriatico dove, secondo Strabone (V, 2, 10), genti di stirpe umbra erano attestate anche a Rimini e fino a Ravenna, il centro più settentrionale dell’Umbria, nonostante l’attribuzione di entrambe le città alla regio VIII. Plinio (Nat. hist., III, 115) ricorda poi Umbrorum Butrium non lungi da quella Spina che Giustino (XX, 1, 11) colloca addirittura in Umbris. In questi distretti l’espansione degli Umbri è stata confermata dalla ricerca archeologica mettendo in evidenza il loro effettivo concorso alla “colonizzazione” dell’area romagnola (Imola, Montericco), corrispettivo e forse riflesso di quella della Pianura Padana condotta dagli Etruschi dell’area interna. Connessa alla dilatazione geografica degli Umbri è nelle fonti antiche la connotazione della grande antichità del popolo: “estremamente grande e antico” lo definisce Dionigi di Alicarnasso (I, 19, 1) e gens antiquissima Italiae viene detto da Plinio, il quale spiega l’origine del nome greco con il fatto che gli Umbri sopravvissero alle piogge del diluvio (Nat. hist., III, 112).
Se le evidenze archeologiche provano che la frequentazione antropica in Umbria è attestata a partire dal Paleolitico inferiore e prosegue senza interruzione sino al Bronzo Finale, è con l’iniziale età del Ferro che le sedi degli Umbri di età storica appaiono già stabilmente occupate e non di rado la continuità insediativa non mostra soluzioni, essendo documentata fino a epoca romana (Todi, Spoleto, Amelia, Terni). L’epoca protostorica vede definirsi nei suoi tratti caratteristici la più importante facies umbra, la cosiddetta “cultura di Terni”. I dati più cospicui, come di consueto, provengono dalle necropoli, dove a partire da un momento compreso tra IX e VIII sec. a.C. si attesta decisamente il rito inumatorio, riconosciuto peculiare dei costumi funerari delle genti di etnia umbra. La recente edizione della necropoli di Colfiorito di Foligno ha contribuito a far luce sulle effettive affinità esistenti, in questa fase, tra questa area di valico appenninico e quella della conca ternana, parimenti caratterizzata da notevole abbondanza di documenti, soprattutto per quanto riguarda la necropoli delle Acciaierie. In entrambi i distretti si registra la presenza di tombe a fossa, i cui corredi caratterizzano e specificano sesso e status del defunto.
Le sepolture “emergenti” dell’area ternana presentano talvolta un modesto tumulo al disopra della fossa, delimitata a sua volta da un circolo di pietre, non di rado provvisto anche di un allineamento di pietre infisse verticalmente nel terreno, in asse con la prosecuzione ideale della fossa, secondo modelli attestati anche in altre necropoli dell’area appenninica interna (Tivoli, Fossa, Scurcola Marsicana, Celano, Bazzano; indagini recenti hanno evidenziato la presenza di tombe a circolo anche a Matelica, nelle località Crocefisso e Incrocca). Alla – seppur relativa – abbondanza di dati ricavabili dall’esame dei corredi funerari non corrisponde quasi mai altrettanta dovizia di informazioni per quanto riguarda gli abitati, dal momento che i materiali a essi riferibili vengono generalmente rinvenuti in giacitura secondaria e non associati a vere e proprie strutture insediative: tuttavia, alcuni fondi di capanne sono stati rimessi in luce ancora a Colfiorito, mentre resti di un abitato, le cui prime fasi risalgono all’età del Ferro, stanno tornando in luce in località Maratta Bassa di Terni, in un’area non distante dal corso del Nera.
Il fiume Nera, nel cui nome antico, Nahar, si rifletteva la peculiarità delle sue acque (Serv., Aen., VII, 517: Sabini lingua sua Nar dicunt sulphur), si palesa, fin da ora, quale principale elemento di aggregazione delle genti insediate lungo la sua vallata. La loro qualificazione onomastica, Naharcii, ne segnala inequivocabilmente il legame con il corso d’acqua: nelle tavole di Gubbio (il cui testo fissa un rituale sicuramente più antico di quanto non indichi la paleografia) la “maledizione” dei gruppi sociali diversi dalla tuta ikuvina, oltre a quello turskum e iapuzkum, si estende, significativamente, anche a quello naharkum. In questo senso si può pensare, per l’Umbria, a un’organizzazione socio-politica che prevedeva entità territoriali distinte le quali, pur mantenendo la propria autonomia, dovevano però riconoscersi all’interno di uno stesso e più ampio gruppo etnico, quello degli Umbri. La segmentazione dell’ethnos umbro dall’originaria unitarietà delle stirpi umbro-sabine è ascrivibile a una fase più antica di quella che vede la formazione dei diversi gruppi delle popolazioni sabelliche: su tale precocità deve aver pesato la stretta contiguità con il mondo tirrenico, il cui sviluppo evolutivo ha fatto da volano di accelerazione per le zone contermini.
La questione è quella di precisare, sulla base degli elementi attualmente disponibili, in quale periodo sia possibile riconoscere una forma di autocoscienza “umbra”. Sebbene ormai si affermi che con la prima età del Ferro, se non addirittura in epoche precedenti, inizi la differenziazione delle culture attestate in epoca storica nei vari distretti geografici d’Italia, nell’ambiente degli Italici orientali le testimonianze archeologiche di IX e di VIII sec. a.C. mostrano un’indiscussa affinità che coinvolge la fascia centrale della penisola. Sostanzialmente analoghi sono infatti i caratteri delle fasi iniziali delle culture umbre, sabine, picene, medio-adriatiche: affinità che possono, da un lato, agganciarsi all’unitarietà d’origine dei diversi gruppi da quella conca reatina ove la tradizione antica associa Umbri, Aborigeni, Pelasgi (Dion. Hal., II, 16, 1; 19, 1; 20, 4) e da cui fa discendere il fondatore della sabina Cures (Dion. Hal., II, 48, 1-4) e, dall’altro, all’evanescenza dei confini assegnati agli Umbri dalla stessa tradizione.
Né va dimenticato che le analogie possono attribuirsi alla mobilità sociale. In tema di autocoscienza appare pertanto opportuno rivolgere l’attenzione ai periodi successivi. Un indizio finora poteva scaturire, seppur con tutte le necessarie cautele, dal titolo ternano CIL XI, 4170 che ascrive al 672 a.C. la data di fondazione della città, ma su ricostruzioni di questo tipo possono aver pesato rivendicazioni dettate da orgoglio cittadino, con la conseguenza di annullarne qualsiasi veridicità. Tuttavia oggi questo indizio acquista uno spessore del tutto diverso se correlato a un nuovo documento: la recente attribuzione all’idioma paleoumbro di un’epigrafe di dedica graffita su un biconico della metà - terzo quarto del VII sec. a.C., datazione che risulta in sorprendente sincronia con la cronologia riferita dall’epigrafe latina. Centro propulsore di questa realtà “umbra” è stato riconosciuto in Terni, la futura Interamna Nahars romana: i dati finora noti sulla città inducono infatti a considerarne lo sviluppo in senso protourbano già da questo momento.
Altri segnali suggeriscono che l’autocoscienza etnica si sviluppi a partire dal VII sec. a.C. Nel corso di esso e nell’iniziale VI sec. a.C. si colgono in Umbria, in particolare a Terni e Colfiorito, in quanto meglio indagate, i sintomi di un processo che, sulla spinta della diffusione della facies orientalizzante, conduce a un’articolazione delle classi sociali e all’affermazione di un ceto aristocratico. Ai documenti dei due siti menzionati possono essere aggiunti, sul versante adriatico dell’Umbria antica, quelli di Matelica, Fabriano e Pitino. La diffusione di modelli culturali e ideologici emananti dal più progredito versante tirrenico ha dunque sollecitato un affine processo di strutturazione sociale, affinità recepita anche dalla tradizione antica nella ricordata assimilazione di Umbri ed Etruschi in tema di “mollezza” dei costumi. Alla strutturazione gentilizia non può dunque che essersi affiancata la presa di coscienza della pertinenza etnica che trova la propria formalizzazione nel nuovo documento epigrafico. All’iniziale consapevolezza dell’appartenenza a un unico grande ethnos faranno seguito, in progresso di tempo, ulteriori frammentazioni che condurranno al definitivo assetto delle genti di ceppo umbro, ad esempio i Volsci, ricordate dalla letteratura antica.
Anche testimonianze della cultura materiale depongono nello stesso senso. I documenti di VII-VI sec. a.C., rispetto alle età precedenti, mostrano un accentuarsi delle specificità locali e del frazionamento in comparti geografici, differenziazioni che comunque vanno lette anche in funzione della maggiore o minore capacità produttiva (basti pensare alla diversità fra le zone gravitanti verso la Val Tiberina e quelle montuose della dorsale appenninica). Nonostante ciò, è possibile selezionare convergenze denotanti una comune cultura centro- italica, sostanziata dagli indubbi confronti morfologici sul piano delle ceramiche, dalla presenza di stessi tipi di fibule, dalla diffusione di analoghe tipologie tombali, dall’affine strutturazione delle fosse spesso fornite di ampliamento laterale. La condivisione di caratteri assimila molte manifestazioni della cultura materiale della fascia centrale della penisola, dal Tevere all’Adriatico, dalla Romagna all’Abruzzo, in significativa assonanza con la diffusione che degli Umbri è restituita dalle fonti ab antiquo.
L’uniformità culturale viene accentuata anche da altri fattori: ad esempio, un peso non indifferente assume la comune matrice sabino-falisco-capenate di non poche di quelle manifestazioni. È certo che le connessioni più rilevanti si hanno infatti con la cultura sabina e con l’ambiente falisco-capenate, a sua volta notoriamente legato alla prima. Le assonanze vengono indubbiamente esaltate anche dalla diffusa ricezione di elementi originanti dal contatto con l’Etruria. In epoca orientalizzante risaltano infatti con chiarezza i rapporti instaurati con l’area etrusco-meridionale e con quella falisco-capenate: a tali ambiti riconducono gli scudi bronzei – prodotti a Veio o Tarquinia – che sono stati rinvenuti a Terni, Sant’Anatolia di Narco, Colfiorito, Fabriano e ugualmente paradigmatica appare la presenza, nelle stesse aree, di cinturoni femminili di tipologia capenate; agli stessi settori geografico- culturali sono riconducibili anche impasti sottili, decorati a incisione o excisi, caratterizzanti alcuni corredi emersi dalla necropoli ternana.
In epoca arcaica l’occupazione del territorio è segnalata in prevalenza da insediamenti di altura che, oltre a essere naturalmente difesi, sfruttano al meglio le caratteristiche geomorfologiche e consentono un agevole controllo delle aree circostanti. Tali insediamenti, aventi destinazione per lo più abitativa, sono connotati da caratteristiche più o meno costanti, quali cinte di pietrame a secco (Monte Il Cerchio, Monte Rotondo, Monte Castellari) e fossati: i due elementi delimitano aree di forma quasi perfettamente circolare (in alcuni casi ancora ben rilevabile nella cartografia ottocentesca, come nel caso di Schignano, presso Massa Martana), o subcircolare ed ellittica (Castellaro di Annifo). Non mancano inoltre esempi di abitati di altura articolati su terrazze realizzate artificialmente e racchiuse entro una cinta perimetrale (Monte Orve di Colfiorito); talvolta all’interno dell’area delimitata possono riconoscersi tanto nuclei abitativi veri e propri, indicati da elementi fittili riferibili alle coperture delle singole abitazioni, quanto elementi che fanno pensare alla presenza di aree a destinazione sacra, occupanti generalmente il punto più elevato dell’insediamento, talvolta con un’ulteriore fortificazione (Sant’Erasmo di Cesi), l’ocar o ocri, corrispettivo dell’arx latina: la radice si coglie ancora in maniera trasparente in alcuni dei toponimi di aggregati umbri particolarmente arroccati, quali Otricoli, l’antica Ocriculum.
Meno evidente è, almeno al momento, tale modalità di occupazione del territorio nel settore dell’Umbria adriatica. Uno dei centri emergenti in questa fase è Todi, il cui nome – noto nella forma TUTERE dalle attestazioni numismatiche – richiama in maniera inequivocabile il ruolo derivante alla città dalla sua dislocazione geografica, posta a confine (tular) con l’Etruria: definita polin ombriken da Plutarco (Crass., 6), è al contempo avamposto umbro e testa di ponte volsiniese a controllo delle due rive del Tevere, altro elemento unificante fra le aree successivamente comprese entro le regioni augustee VI e VII. L’oscillazione di Todi fra Umbria ed Etruria si riflette nei modelli adottati dalle classi emergenti, le cui tombe a semplice fossa seguono la tradizione “strutturale” dell’area di appartenenza, mutuando però dal mondo etrusco i simboli di rango: sufficientemente esplicito in tal senso il frontale di carro, le cosiddette Lamine Ferroni assegnate a una bottega di Volsinii e provenienti da una ricca sepoltura della necropoli tuderte.
Ad Amelia, l’apporto volsiniese è stato riconosciuto nelle affinità ideologiche e religiose che legano il santuario della necropoli di Pantanelli a quello orvietano di Cannicella, accomunati, con ogni probabilità, anche nella scelta della stessa divinità, Vei/Demetra, dalle ben note valenze ctonie. Per Amelia è stato inoltre possibile evidenziare altri contatti con l’ambito etrusco meridionale – segnatamente con Cerveteri – rappresentati dall’adozione di strutture tombali a camera assimilabili a tipi ceretani. Nel corso del V sec. a.C., pur nella diffusa organizzazione pagano-vicanica che caratterizza la fascia centrale italica, si assiste alla nascita di abitati che preannunciano, almeno nella struttura degli edifici, forme di tipo urbano: iniziano a essere documentate case con fondazioni di pietra e coperture fittili, a volte articolate in due o tre ambienti, come quelle di Colle Mori a Gualdo Tadino e di Pesaro. Non mancano inoltre conferme di strutturazione “politica”: il rilievo ternano datato al V sec. a.C. e letto come documento “pubblico” o come rappresentazione di una lustratio, testimonia, al di là del riconoscimento della specifica cerimonia raffigurata, la presenza di una figura seduta e connotata da un attributo che rinvia a personaggi insigniti di carica magistraturale.
Nel IV sec. a.C. il processo evolutivo delle strutture “urbane” è ancora una volta più rapido nei settori a più stretto contatto o in più facile e diretta comunicazione con le poleis etrusche e laziali: ben lo dimostra la costruzione di cinte murarie nei centri dell’Umbria meridionale (Otricoli, Amelia, Spoleto). La logica soggiacente alla dislocazione degli insediamenti si riconosce in maniera altrettanto puntuale anche nella scelta delle aree su cui si impiantano, a partire dagli inizi dell’età arcaica, i santuari: le aree sacre si propongono quale centro catalizzatore di ambiti ancora inurbati soltanto embrionalmente od organizzati secondo modalità di tipo paganico. Spesso, accanto ai santuari disposti su alture (Cancelli e Monte di Pale di Foligno, Spoleto, Monte Torre Maggiore di Terni, Monte San Pancrazio di Calvi), sono documentati quelli ubicati in aree di passaggio obbligato (Grotta Bella di Avigliano Umbro, Colfiorito), toccate dai percorsi transumantici (Monte Subasio, Fossato di Vico), o in aree di confine territoriale (Santa Maria in Canale, presso Amelia).
Cifra peculiare dei luoghi di culto dell’Umbria antica è la piccola plastica votiva di bronzo che connota, con attestazioni talvolta veramente cospicue, tutte le aree sacre del territorio. Si tratta di bronzetti che riproducono schematicamente figure umane (esemplificate per lo più dal cd. Marte in assalto) o animali: le caratteristiche formali dei votivi inducono a ritenerli prodotti talvolta all’interno degli stessi santuari. Iscrizioni incise su lamine bronzee da Colfiorito e da Fossato di Vico ricordano la grande dea Cupra, divinità legata alla fecondità e all’acqua, il cui teonimo, le cui manifestazioni archeologiche ed epigrafiche e i cui relitti toponomastici costellano e ritmano tutta l’area “umbra”, dalla Sabina (con la glossa varroniana) a Rimini, da Gubbio (con il Marte Cyprio) a Cupramontana e Poggio Cupro, fino a Cupramarittima sull’Adriatico. La divinità riceve dai fedeli di Colfiorito lo specifico appellativo di Pletina, quasi a farla propria, distinguendola dalle altre. Se il santuario di Monte Torre Maggiore appare al momento configurarsi come uno dei più importanti e senz’altro il maggiore del popolo naharco, recenti acquisizioni hanno condotto a identificare nel complesso ispellate di Villa Fidelia il santuario “etnico” degli Umbri: da qui proviene una dedica in umbro a Giove, assegnata a un momento compreso fra il III e il II sec. a.C.
Alla progressiva romanizzazione del territorio, che vede le tappe iniziali negli accordi stipulati con Otricoli (308 a.C.), a un estremo della regione, e con Camerino (310 a.C.) all’altro, viene di norma attribuita la monumentalizzazione dei luoghi di culto che, dopo la presa di Nequinum (299 a.C.) e la conquista della Sabina (290 a.C.), si concretizza in alcuni edifici, fra i quali quelli di Villa San Silvestro di Cascia, in Sabina, di Collemancio di Cannara e di Santa Maria in Canale di Amelia, in Umbria: anche in questo caso elemento discriminante può riconoscersi la vicinanza ad aree diversamente strutturate, perché il fenomeno non appare altrettanto attestato nell’area dell’Umbria adriatica dove la sentinate Civitalba appare essere più tarda. Il fatto che a essere tradotti in cospicue forme architettoniche siano, a eccezione dell’esempio di Collemancio, santuari ubicati al di fuori dei centri abitati suggerisce la continuità di culti di carattere cantonale.
Il ricordo della frammentazione tribale perdura a lungo, tanto da sembrare ancora significativo quando Plinio (Nat. hist., III, 112-14) redige l’elenco dei gruppi umbri, distinguendo Amerini e Aesinates, Mevanates e Matilicates, Plestini e Sentinates, soltanto per citarne alcuni al di qua e al di là dell’Appennino. La designazione mediante l’etnico può essere stata condizionata anche dalla percezione dell’assenza di veri e propri organismi urbani. D’altro canto, se il greco Strabone (V, 2, 10) usa invece i poleonimi nella descrizione dell’Umbria, non manca di aggiungere che alcuni centri si sono accresciuti grazie alla loro posizione lungo la via Flaminia più che per la loro organizzazione politica.
Per una recente bibliografia sugli Umbri e sui singoli centri umbri si veda L. Bonomi Ponzi, s.v. Umbria, in EAA, II Suppl. 1971-1994, V, 1997, pp. 875-81 e, per la fase romana, D. Manconi, ibid., pp. 881-87. Di seguito vengono date, in ordine cronologico, alcune indicazioni relative a contributi editi dopo il 1994, nei quali viene fatta ampia menzione di notizie di rinvenimenti e di singole problematiche:
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