Popiół i diament
(Polonia 1957-58, 1958, Cenere e diamanti, bianco e nero, 106m); regia: Andrzej Wajda; produzione: Stanisław Adler per Kadr; soggetto: dall'omonimo romanzo di Jerzy Andrzejewski; sceneggiatura: Jerzy Andrzejewski, Andrzej Wajda; fotografia: Jerzy Wójcik; montaggio: Halina Nawrocka; scenografia: Roman Mann; costumi: Katarzyna Chodorowicz; musica: Jan Krenz.
Provincia polacca, maggio 1945. Maciek Chełmicki, ex partigiano dell'Armata Interna, una formazione combattente nazionalista e avversa ai comunisti, è incaricato di eliminare Szczuka, il nuovo segretario locale del Partito, ma uccide per sbaglio due operai. Più tardi, nella città che sta festeggiando la resa tedesca, viene a sapere che Szczuka alloggia all'Hotel Monopol. Deciso a portare a termine la missione, affitta una stanza vicina alla sua. Conosce Krystyna, una cameriera con la quale intreccia una breve e intensa storia d'amore. Informato dell'arresto del figlio, schierato con i nazionalisti, Szczuka esce in fretta dall'albergo, seguito da Maciek, che lo affronta e lo uccide sparandogli a bruciapelo. Imbattutosi in alcuni soldati, il giovane si dà a una fuga istintiva quanto insensata. Colpito a morte, arrossa col proprio sangue un lenzuolo steso al sole, prima di stramazzare in un campo di immondizie.
È il film-manifesto della cosiddetta scuola polacca, il nuovo corso seguito agli avvenimenti del 1956, frutto del clima instauratosi grazie alla guida illuminata di Władisław Gomułka ma anche delle professionalità forgiate nel laboratorio di Łódź e nei gruppi di produzione (zespoly filmowe). Andrzej Wajda, Andrzej Munk e compagni, spesso ispirandosi alla miglior letteratura nazionale contemporanea, e facendo propria la lezione neorealista, ruppero con il conformismo e misero in discussione gli stessi canoni realsocialisti, in nome di una sorta di 'etica della sconfitta' che si traduceva nella registrazione minuziosa della quotidianità e in una struttura narrativa libera fino alla frantumazione.
Maciek, il protagonista di Popiół i diament, è un eroe negativo, e la scelta rischia di essere imbarazzante, per l'epoca e il contesto. L'ambiguità è poi accentuata dalla dismisura della recitazione grotowskiana, dalle carature divistiche e dall'aura di Zbigniew Cybulski, il 'James Dean polacco'. Il suo personaggio porta gli occhiali scuri ‒ più che tipizzazione da intellettuale, un ricordo dell'insurrezione di Varsavia ("La luce mi dà fastidio, ho vissuto nelle fogne durante la rivolta", confessa alla ragazza durante il loro idillio): dunque, una maschera messagli addosso dalla Storia, dalle ferite del passato. Nella sua tormentata coerenza c'è una purezza che è anche incolpevole cecità nei confronti del presente, oltre che oscura coscienza del proprio destino. Nelle rovine morali della Polonia, l'incontro fra i due giovani, in cui l'iniziale disincanto si fa emozione della scoperta e lirismo della fisicità, tanto più forti quanto più disperata è una cornice che non offre vie di fuga, appare l'unico momento in cui il tempo si sospende, facendo balenare la possibilità di una vita degna di essere vissuta.
Al pullulare di 'gente che viene, gente che va' del-l'Hotel Monopol, luogo geometrico in cui si dipana buona parte del film, il regista assegna poi una precisa funzione simbolica senza dimenticare le ragioni della psicologia, di una caratterizzazione spesso affidata all'icasticità dello schizzo, oltre che a dialoghi e tic memori della lezione del realismo poetico francese. In un'aristotelica unità di tempo, luogo e azione, sulle dissonanti cadenze della Polacca in la maggiore di Chopin, il protrarsi di una festa abitata da inconsapevoli ectoplasmi celebra il destino di una nazione decrepita, assumendo in maniera evidente le caratteristiche del suicidio, di una cultura e di una classe, patetiche nel loro sfarzo impettito e mediocre. Questa sorta di finis Poloniae viene messa in scena con un'ottica deformata e ridondante, con quelle tonalità appassionatamente barocche che sembrano essere il dato costitutivo della cifra stilistica del regista, e insieme con una sorta di espressionismo reinventato (fasci di luci oblique e polverose, ombre che disegnano minacciose geometrie sui muri), una profondità di campo in qualche modo wellesiana, una sontuosa ambiguità nelle simbologie (il cavallo bianco nell'incipit, il Cristo capovolto che quasi incombe sui due amanti nella chiesa, l'esplosione dei fuochi d'artificio durante l'omicidio di Szczuka). Anche la sorte di Maciek si compie con magniloquenza, dapprima tra lenzuola bianche destinate fatalmente a colorarsi di sangue, poi nella fin troppo emblematica sozzura di un'immondezzaio. Ma la sua disperata negatività, gli improvvisi soprassalti verso un impossibile cambiamento, il 'lasciarsi vivere', la sospensione tra un passato di miti obsoleti e un futuro confusamente utopico, tra narcisistica eleganza del gesto e brutalità dell'azione, vanno a comporre l'identità del protagonista di un grande film romantico, con il quale Wajda si inserisce a pieno titolo in una tradizione peculiarmente nazionale.
Interpreti e personaggi: Zbigniew Cybulski (Maciek Chełmicki), Ewa Kriżłewska (Krystyna), Adam Pawlikowski (Andrzej), Wacław Zastrzeżyński (Szczuka), Bogumil Kobiela (Drewnowski), Jan Ciecierski (portiere), Stanisław Milski (Pieniażek), Artur Młodnicki (Kotowicz), Halina Kwiatkowska (signora Stankiwicz), Ignacy Machowski (Waga), Zbigniew Skowroński (Słomka), Barbara Krafftowna (Stefka), Aleksander Sewruk (Swiecki), Irena Orzecka, Grazyna Staniszewska, Józef Pieracki.
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