PONTEFICE
. I pontefici, riuniti in collegio ufficiale sotto l'autorità del pontefice massimo, erano in Roma un'accolta di esperti del diritto sacro (fas), i quali avevano il compito di conservare le tradizioni religiose della città, di adattarle allo sviluppo politico e culturale della medesima, suggerendo sia allo stato sia ai privati il modo di soddisfare alle obbligazioni derivanti dalla religione e riuscendo così a mantenere la pax deorum, cioè la buona armonia tra la città e i suoi dei, ciò che costituiva l'aspirazione suprema della legalistica religiosità romana. Essi erano dunque piuttosto teologi e canonisti che ministri del culto, quali i Flamini, i Salî, ecc., ma controllavano il culto e potevano anche sbrigarne le mansioni.
Messe da parte le altre etimologie antiche e recenti (da posse e facere; da pompam e facere; dall'osco pomtis "cinque"; dalle radici sanscrite pū "purificazione", panthāḥ [gr. πατός] "sentiero") la più verosimile rimane sempre quella da pontem e facere, suggerita da Varrone (De lingua lat., V, 83). Quest'etimologia ci riporta alla preistoria latina e precisamente alla costruzione di quei villaggi di legno su palafitte, con ponte di allacciamento del villaggio alla terraferma, che si chiamano terremare: costruzione tutta a sistema d'incastro e senza chiodi, che richiedeva speciali cognizioni d'ingegneria, quelle cognizioni che per l'appunto dai pontefici venivano applicate a Roma nella riparazione del ponte Sublicio.
Secondo la tradizione, il collegio pontificale sarebbe stato istituito da Numa (cioè, secondo la terminologia dell'erudizione romana, rimonterebbe alla protostoria della razza) in numero di 5 membri, portati poi a 9, a 15 e infine a 16 e le sue attribuzioni sono sinteticamente elencate da Livio (I, 20): controllo rituale ("quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent"); responsi sull'attività circa le cose sacre private e pubbliche (omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit"); controllo sul culto degli dei patrî e sull'accettazione di culti stranieri (ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur"); controllo sul diritto funerario (iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex doceret"); espiazione e neutralizzazione di fulmini e altri prodigi funesti ("quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur"). Le attribuzioni del collegio pontificale erano dunque di controllo di tutto il culto romano, sia pubblico interpretando la tradizione giuridico-religiosa, adattando le prescrizioni alle circostanze, guidando nel rito il magistrato celebrante, sia privato specialmente in quelle circostanze che più avevano attinenza con la vita sociale, quali il matrimonio, l'adozione e il diritto funerario.
Insegna del grado, ma solo nelle cerimonie, era la toga orlata di porpora (praetexta). La nomina avveniva per cooptazione, cioè per scelta fatta dal collegio, da principio tra i soli patrizî, poi per la legge Ogulnia (300 a. C.) anche tra i plebei; ma nel 104 la legge Domizia attribuisce la facoltà di nomina alla parte minore del popolo, cioè a 17 tribù scelte a sorte sulle 35. Silla abrogò questa legge, la quale tuttavia fu richiamata in vigore da Labieno per iniziativa di Cesare. Sotto l'impero i pontefici furono nominati dall'imperatore nella sua qualità di pontefice massimo. Nonostante la loro grande autorità i pontefici erano sottoposti al controllo del censore e del tribuno della plebe.
I pontefici si distinguevano in maggiori e minori. I maggiori erano i membri ordinarî del collegio: l'epiteto di minori era riservato, forse dal tempo di Silla, agli scribi o segretarî del collegio, che potevano aiutare e all'occorrenza supplire, nelle mansioni secondarie, i pontefici.
Facevano parte del collegio pontificale anche il rex sacrorum, i Flamini in numero di 15 e le Vestali: tutti nominati e dipendenti dall'autorità del pontefice massimo. Questi ha nel sacerdozio una posizione analoga a quella dei consoli nella magistratura e perciò è scortato dai littori, ma, a differenza della magistratura, la sua carica è a vita ed è unitaria cioè non divisa con un collega, il che ci riporta alla situazione del re, di cui il pontefice massimo è il successore nella direzione del culto, ed abita perciò nella regia. Tuttavia il pontefice massimo non aveva il primo rango nelle cerimonie ufficiali, e nei banchetti sedeva quinto dopo il rex sacrorum e i tre Flamini maggiori: "maximus videtur rex, dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus" (Festo, s. v. ordo), il che si spiega considerando che i pontefici erano più canonisti che sacerdoti e che perciò il rappresentante dell'antico re nelle cerimonie liturgiche e i ministri delle tre massime divinità romane dovevano nel cerimoniale passargli innanzi.
I pontefici e il culto pubblico. - I pontefici partecipavano direttamente al culto di quelle divinità che erano strettamente connesse con la vita di Roma cioè Vesta, i Penati e la triade capitolina. Il pontefice massimo presenziava anche al culto di Ops Consiva e di Saturno e tutto il collegio interveniva ai riti che si celebravano nei luoghi connessi con la protostorio di Roma: Lavinio, Ardea. Il rex sacrorum sacrificava alle calende di ogni mese e uno dei pontefici minori, osservata la posizione della luna, annunziava il cadere delle none e delle idi, nel qual giorno, sacro a Giove, compiva il sacrifizio il flamine Diale; nelle Fordicidie (15 aprile) il pontefice interveniva insieme con le Vestali che raccoglievano le ceneri del feto vitulino; i pontefici intervenivano nella cerimonia degli Argei (14 maggio), nella quale si gettavano dal ponte Sublicio 27 fantocci di paglia; nella cerimonia dell'aquaelicium in cui accompagnavano la processione magico-espiatoria del lapis manalis per ottenere la pioggia. Anche il calendario era nelle mani del collegio pontificale, che provvedeva ogni due anni all'intercalazione del mercedonio (mese di 22 e 23 giorni alternativamente) il quale riportava l'anno civile, che era lunare, cioè di 355 giorni, a concordare con quello astronomico: intercalazione compiuta con tanto arbitrio, non estraneo a vedute politiche (Cens., De die nat., 20), da indurre G. Cesare alla nota riforma.
Consacrazioni (consecrationes). A causa della concezione legalistica che i Romani ebbero dei loro rapporti con la divinità, fu compito precipuo dei pontefici di determinare con chiarezza i rapporti della società umana con la divinità di guisa che non vi fossero interferenze e avendo, con il rigore di un contratto legale, avuto ognuno il suo, si mantenesse la pax deorum. I pontefici avevano all'uopo un insieme di precetti e di canoni, detti ius pontificium, ius sacrorum, ius divinum, in virtù dei quali sapevano fissare il tempo, il luogo, l'entità dell'omaggio dovuto alla divinità; sapevano provvedere ad adattamenti, sostituzioni e annullamenti di convenzioni precedentemente pattuite con gli dei.
"Nei decreti dei pontefici - dice Macrobio, Sat., III, 3, 1 - va ricercato specialmente ciò che debba intendersi per sacro e per profano, per santo, per religioso". Sacro è per i Romani tutto ciò che spetta agli dei, e agli dei spetta tutto ciò che è stato loro legalmente donato (giorni festivi, vittime, voti, edifici) con l'apposito rito della consacrazione. Trattandosi di edifici sacri, la cerimonia si svolgeva in due tempi: nel primo il magistrato faceva la cessione del tempio (dedicatio) al pontefice; nel secondo il pontefice lo riceveva tenendo con la mano lo stipite della porta, e lo dichiarava proprietà della divinità (consecratio). Ma prima di procedere alla consacrazione i pontefici dovevano accertarsi se il suolo su cui il tempio doveva sorgere era romano, se non fosse stato già consacrato ad altra divinità, se era ben garantito il suo carattere sacro. Compilavano poi una serie di obbligazioni rituali (dette lex templi, lex dedicationis) relative al culto che doveva svolgersi nel tempio, alla qualità dei sacrifizî, alle opere di restauro: sono celebri la lex templi arcaica di Iuppiter Furfo, e quella del tempio di Diana sull'Aventino che servì di norma ai templi dedicati poi nelle varie provincie dell'impero.
Voti (vota). Anche i voti pubblici, cioè le solenni promesse condizionate fatte agli dei, di compiere una data cosa (vittime, bottino, templi da costruire, ludi da celebrare), purché essi ne concedessero un'aura, venivano emessi dai magistrati ma con l'assistenza dei pontefici, per garantire la legalità delle formule (verba praeire) e la legittimità del voto stesso.
Diritto funerario (iusta funebria). Anche questo era di competenza dei pontefici; i riti sia d'inumazione sia di cremazione, i riti del lutto (feriae denicales), che prescrivevano la segregazione temporanea di coloro che avevano toccato il cadavere, il banchetto funebre (silicernium) e infine la chiusura del lutto (finis funestae familiae), per le morti normali. Nel caso poi di sudidio per impiccagione (suspendium), che escludeva la sepoltura, i pontefici, con apposito responso che sanasse l'atto insano, potevano accordarla. Il morto di fulmine (fulguritum) doveva secondo il loro diritto essere semplicemente messo sotterra (conditium) come il fulmine stesso. Quanto alle sepolture, i pontefici vegliavano a che i morti non fossero esumati e spostati, né i sepolcri riparati senza loro autorizzazione. Questa vigilanza serviva a garantire l'ininterrotta esecuzione dei riti funerarî, che coincideva con le credenze dei Romani sulla sorte dell'anima nell'oltretomba, e serviva a tutelare la perpetuità della famiglia, provvedendo con una perpetuazione artificiale, quando la linea naturale era venuta ad estinguersi.
I pontefici nel diritto privato. - I pontefici entrarono nel diritto privato in forza del principio che la conservazione dei sacra privata è necessaria per il bene dello stato. Questa sorveglianza si esercitava sui matrimonî, sulle adozioni, sui testamenti, mezzi tutti che servivano a garantire la trasmissione dei sacra, connettendoli con la proprietà, anche all'infuori della discendenza naturale. "Dall'autorità dei pontefici sono derivate queste leggi, cioè che per la morte del padre di famiglia non si perda la memoria dei sacra, e questi siano aggiunti agli obblighi di coloro ai quali l'eredità è pervenuta per la morte di quello" (Cic., De leg., II, 19).
I pontefici intervenivano nella celebrazione del matrimonio sacro (confarreatio), perché questo creava quelle unioni da cui sarebbero potuti uscire membri del sacerdozio, poiché per adire ad alcuni sacerdozî, per esempio a quello del flamine Diale, bisognava che i candidati fossero nati da matrimonio confarreato e si sposassero con matrimonio confarreato.
Qualora la famiglia si fosse dovuta estinguere per mancanza di eredi diretti, i pontefici la perpetuavano per mezzo di un'adozione pubblica, detta adrogatio, nella quale l'adottando rinnegava i sacra della sua propria famiglia (detestatio sacrorum), dinnanzi al popolo riunito per curie, per aderire a quelli della famiglia in cui entrava.
Anche la più antica forma di testamento si faceva davanti al popolo riunito per curie, convocato (comitia calata) e presieduto dal rex sacrorum a nome del collegio pontificale, in due giorni fissi dell'anno, registrati nel calendario, il 24 marzo e il 24 maggio. In questi due giorni si facevano anche le adrogationes, stando all'informazione di Labeone in Gellio, XV, 27: "Calata comitia esse quae pro conlegio pontificum habentur... Iisdem comitiis quae calata appellari diximus et sacrorum detestatio et testamenta fieri solebant".
I pontefici nel dirttto pubblico. - Per quella laicizzazione che è caratteristica dello sviluppo delle istituzioni romane, i pontefici - nelle cui mani in origine si accentrava tutto il diritto - non ebbero mai le attribuzioni dei magistrati. Non potevano indirizzarsi al popolo salvo i casi di adrogatio, di testamenti factio, e di multa, non emanavano editti, se non quelli relativi al calendario, non avevano giurisdizione religiosa, salvo che sui sacerdozî loro sottoposti, ma avevano un'influenza capitale come giureconsulti, intervenendo presso i magistrati investiti di potere giudiziario per illuminarli intorno a quegli arcani di procedura di cui bisognava tener conto nell'amministrazione della giustizia. In questo senso Livio (IX, 46) ha potuto affermare: ius civile reconditum in penetralibus pontificum; le norme del diritto non erano segrete (le XII Tavole erano esposte al pubblico), ma la loro interpretazione non era possibile senza le glosse dei pontefici. Questo stato di privilegio durò fino allo stabilirsi della pretura (366 a. C.) e fu più radicalmente scosso nel 304 quando lo scriba del collegio pontificale, Gneo Flavio, pubblicò il formulario delle legis actiones (detto da lui ius Flavianum) ossia l'insieme di quelle formalità di atti e di parole mediante le quali gli uomini applicano la giustizia (Dig., I, 2, 2, par. 6). Ma anche esclusi gradatamente dalla manipolazione della giustizia, l'influenza dei pontefici nella vita pubblica fu sempre notevole per quell'intima connessione che nella città antica lega le istituzioni civili alle religiose: ond'è che la carica fu assunta, sull'esempio di Cesare, da Augusto e dai suoi successori fino a Graziano per controllare, attraverso la religione, la vita dell'impero.
L'archivio dei pontefici. - Si deve a questo collegio di esperti della religione e del diritto anche la raccolta scritta delle norme religiose e giuridiche che regolavano la vita di Roma e anche la registrazione dei nomi dei magistrat. e dei fatti più notevoli relativi alla storia della città. Sebbene le citazioni degli antichi autori riferentisi a queste compilazioni pontificali siano spesso generiche (pontificum libri, pontificii libri, apud pontifices legimus, libri sacri, ecc.) si possono distinguere quattro compilazioni principali.
1. Libri sacerdotum populi Romani (Gell., XIII, 23,1) contenenti le formule di preghiera e le rubriche del cerimoniale per le funzioni che ritu Romano fiunt. La tradizione (Livio, I, 20) attribuiva a Numa la redazione di questi sacra, exscripta exsignataque. Questi libri liturgici sono stati naturalmente i primi a sparire con la fine del paganesimo.
2. Commentarii pontificum. Raccolta di decreti e responsi, relativi ad argomenti sacro-giuridici e che rappresentavano in qualche modo il codice della loro funzione specifica, analogamente a quanto si verificava anche negli altri sodalizî religiosi.
3. Fasti, cioè l'elenco dei magistrati eletti annualmente, cominciato a compilare dal collegio pontificale dal principio della repubblica. Sotto il nome di Fasti va anche il calendario, la cui redazione era di spettanza esclusiva del collegio.
4. Annales pontificum o maximi, specie di cronaca dov'erano registrati gli avvenimenti occorsi nell'anno ed esposti al pubblico su tavole di legno imbiancate (tabulae annales) dal pontefice massimo all'esterno della reggia (Cic., De orat., II, 12, 51-54). Questi annali fornirono agli annalisti posteriori il primo materiale per le loro storie. L'uso di queste tavole durò fino all'epoca del pontefice massimo P. Muzio Scevola, il quale ne sospese la redazione e nel 123 a. C. ne fece fare un riassunto in 80 libri, che narravano la storia di Roma dalle origini fino al suo tempo. Va ascritta alla attività dei pontefici anche la raccolta delle leges regiae, leggi dell'epoca antichissima, ereditate dal periodo monarchico, dette anche ius Papirianum perché messe insieme dal pontefice Papirio.
L'erario dei pontefici. Il collegio dei pontefici aveva un proprio erario (aerarium o arca pontificum), il cui fondo era stato secondo la tradizione già stabilito da Numa ("unde in eos sumptus pecunia erogaretur", Liv., I, 20) e che veniva alimentato dalle multe giudiziarie (cfr. Festo, s. v. sacramentum). Detto erario era conservato nella casa e sotto il controllo del pontefice massimo che lo amministrava per mezzo dei curatores e dei quatuorviri ad aerarium.
Sviluppo storico. - Questo mirabile collegio, tutore del ius divinum e mantenitore della pax deorum, che ebbe funzioni così preponderanti nell'epoca più antica quando religione e diritto erano strettamente congiunti, mantenne il suo prestigio anche quando lo stato romano venne politicamente secolarizzandosi. Da interpreti delle leges regiae essi con la promulgazione delle XII Tavole, che separavano l'attività giuridica da quella sacra, videro strapparsi il monopolio politico-religioso; perdettero, come è detto sopra, anche il segreto della procedura giudiziale con la pubblicazione del ius Flavianum ed ebbero nettamente delimitato il loro compito religioso dall'elezione del pretore. Con la scalata dei plebei ai sacerdozî essi perdettero anche con la legge Ogulnia il privilegio della scelta tra i patrizi e con Ti. Coruncanio nel 252 si ebbe il primo pontefice massimo plebeo. Tuttavia a grado a grado che perdevano le mansioni più strettamente politiche vennero ampliando quelle civili, cercando con altissima sapienza di conciliare il vecchio deposito patrizio con i diritti della plebe e con quelli delle città latine confederate di Roma; il che si ricava specialmente dall'autorizzazione da essi data a fondazioni di templi di divinità straniere in Roma: Fors Fortuna dall'Etruria, Giuturna da Lavinio, Minerva capta da Falerii, Feronia da Capena, Vertumno da Volsinii.
Il loro aumento progressivo, fino a 16 sotto Giulio Cesare, sta a provare l'importanza persistente del collegio, confermata dal fatto che Augusto nel 12 a. C., alla morte di Lepido, volle essere insignito del grado di pontefice massimo che gli dava l'autorità su tutti i sacerdozî e lo costituiva in certo modo capo della religione romana. I successori conservarono il titolo di cui aumentarono il prestigio, sebbene la presidenza effettiva del collegio l'avesse un vicario o magister. Nel caso che gl'imperatori fossero più di uno, solo il primo aveva il titolo di pontefice massimo, fino a quando Pupieno e Balbino (238 d. C.) lo assunsero entrambi.
Per opera degl'imperatori quel connubio tra sacerdozio e stato che era stato impedito dall'evoluzione laica della repubblica, si riaffaccia durante l'impero e caratterizza tutta la storia interna dell'impero bizantino che religiosamente soffre di questa equivoca fusione; e quando gl'imperatori d'occidente divenuti cristiani depongono con Graziano questo titolo, esso è ormai maturo per passare, nel suo valore esclusivamente religioso, come titolo specifico del vescovo di Roma, ad esprimere il supremo gerarca dell'aggruppamento cristiano.
Bibl.: J. Gutherius, De veteri iure pontifcio urbis Romae, Parigi 1612; L. Mercklin, Über die Anordnung und Einteilung des römischen Priestertums, in Mélanges gréco-romaines, I (1852); A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l'ancienne Rome, Parigi 1871; Corniquet, Les attributions juridiques des Pontifes, Parigi 1894; J. B. Carter, The reorganisation of the roman priesthood at the beginning of the republic, in Mem. Amer. Acad. Rom., I, pp. 9-17; A. Sogliano, Intorno all'etimologia del nome pontifex, in Historia, V (1931), pp. 555-562; F. Ribezzo, I pontifices nell'organizzazione e nella struttura della città italica, in Riv. indo-greco-italica, 1931, pp. 171-181.
Per il pontefice nella Chiesa cattolica, v. chiesa; curia; papa; papato.