TORELLI, Pomponio
Nacque a Montechiarugolo nel 1539, da Paolo, conte dell’omonimo feudo, e dalla sua seconda moglie Beatrice, figlia di Gianfrancesco Pico della Mirandola.
Nel 1545, alla morte del padre, passò sotto la tutela di Pier Luigi Farnese, divenuto nello stesso anno duca di Parma. Nel 1550-51 iniziò gli studi a Padova, dove ebbe maestri come Francesco Robortello e Bernardino Tomitano.Nel 1561 tornò nel proprio feudo dove si innamorò, pare, di una popolana, che sarebbe diventata l’ispiratrice delle sue prime prove poetiche e dalla quale ebbe il figlio Pompilio.Nel 1566 ricevette il suo primo importante incarico diplomatico: Ottavio Farnese lo inviò nelle Fiandre per riportarne Maria di Portogallo, promessa sposa del figlio Alessandro. L’anno successivo, con la morte di entrambi i fratelli, Torelli restò unico signore di Montechiarugolo.
Nel 1574 Eugenio Visdomini e Giulio Smagliati fondarono l’Accademia degli Innominati, organo ufficiale della politica culturale del ducato; Torelli ne fu da subito uno dei più attivi membri, come testimoniato dalla lezione Del debito accademico intorno all’autorità degli autori più stimati, inno antidogmatico alla libertas accademica.Nel 1575 sposò Isabella Bonelli, dalla quale ebbe cinque figli e una cospicua dote. Allo stabilizzarsi della sua posizione sociale corrispose il suo debutto letterario, con la prima edizione delle Rime presso i Viotti di Parma, editori di quasi tutte le sue opere.
Nelle Rime si verifica un allontanamento dai moduli del Canzoniere petrarchesco. Torelli include tra le sue auctoritates anche la Commedia e il Decameron (più influente sulle questioni strutturali). Se la dispositio dei componimenti segue calcolate architetture e armonie numerologiche, la parabola amorosa non si sviluppa dal traviamento al ravvedimento, con la morte dell’amata a fare da spartiacque. La donna fenice/sole è sempre per Torelli veicolo di elevazione, secondo una concezione ficiniana e neoplatonica che tenta di conciliarsi con Aristotele e il cristianesimo. Ma nella sua poesia filosofica il percorso di purgazione e innalzamento segue un andamento a spirale, fatto di ascese e ricadute.
Negli stessi anni, Torelli inizia presso gli Innominati il ciclo di lezioni che andranno a comporre il Trattato della poesia lirica.
Nell’ambito del ripensamento del sistema dei generi in atto nella ‘età del Tasso’, il Trattato rappresenta uno sforzo notevole di nobilitazione teorica della lirica. La teoresi è inscindibile, in Torelli, dalla concreta prassi poetica, a propria volta ‘filosofia in atto’. Il Trattato forma dunque con gli altri e successivi affondi teorici di Torelli, soprattutto con Lettioni sopra la Poetica e Lettioni sopra il Trattato della Tragedia, un sistema compatto. Egli vi estende infatti le norme della Poetica aristotelica al genere lirico, forzando il concetto di mimesis fino a comprendervi i ‘costumi’ e gli ‘affetti’ umani, e approfondendo insieme quello di catharsis (conciliato a propria volta con il furor poetico ficiniano). Come le passioni, attraverso la loro stessa contrarietà, si moderano a vicenda, così la poesia lirica, riproducendo la dinamica psichica dell’uomo con adeguati ritmi ed eufoniche armonie, ha l’effetto di purgare gli squilibri interiori.
Nel 1582 si recò a Roma per favorire il cardinal Alessandro Farnese nel conclave, ma Gregorio XIII si rimise, alla fine, dalla malattia che aveva portato a convocarlo. Torelli si potè consolare con l’ammissione del figlio Pompilio all’Ordine dei Cavalieri di Malta, evento che gli ispirò la prima idea del Debito del cavalliero. Per il momento, un suo concreto impegno educativo fu far da precettore al quattordicenne Ranuccio Farnese.
Nel biennio 1584-85 fu in Spagna alla corte di Filippo II, per trattare la restituzione di Piacenza al duca di Parma. Prima si recò nelle Fiandre per consultarsi con Alessandro Farnese; dopo qualche settimana giunse a Barcellona, dove sostenne innanzitutto la necessità di mandare rinforzi nel momento cruciale dell’assedio di Anversa, passando poi a trattare la questione della restituzione. Le trattative, tra i labirinti diplomatici e le lungaggini della corte spagnola, non furono brevi. Alla fine, nel giugno del 1585 giunse a Piacenza, dove rimase fino alla restituzione formale, nella quale ebbe parte attiva. Nell’autunno del 1585 fu a ancora Roma per spalleggiare la parte farnesiana in controversie territoriali; in quell’occasione, le doti politico-diplomatiche di Torelli furono apprezzate da Sisto V. Dopo la morte di Ottavio, nel 1586, mantenne in corte una posizione appartata, senza incarichi di rilievo. Nel 1587 portò a termine la prima stesura della tragedia Merope, cui farà seguito, l’anno dopo, il Tancredi.
Merope (Parma 1589) nasce dalla volontà di risolvere un’apparente contraddizione della Poetica, che in un punto privilegia le tragedie a fine funesto, ma in un altro commenda anche quelle in cui la possibilità di un evento terribile è alla fine evitata. L’esempio è proprio Merope, la cui ‘favola’ è ricostruita da Torelli su Igino. Egli cerca di conciliare, con difficoltà, ideologia controriformistica, tonalità lirico-patetiche e precetti aristotelici (soprattutto quello sulla medietas dei protagonisti). Fanno problema il poco ‘verosimile’ cambio di atteggiamento di Merope nei confronti del tiranno Polifonte, e l’ideologia e legibus soluta di quest’ultimo. Il Tancredisi rifà, più che alla novella boccacciana, all’omonima tragedia di Federico degli Asinari (1588), soprattutto nel tentativo di ‘elevazione’ della materia. In più, Torelli trasforma Tancredi in un principe sostenitore dell’autonomia dei regnanti, cui viene opposto un presidente del Senato che difende le ragioni del diritto. Di gusto cavalleresco e medievaleggiante, la tragedia è un’apologia dei valori gerarchici e ottimatizi, come testimonia l’agnizione finale: il valoroso e povero Guiscardo si rivela non essere altro che il figlio del re di Sicilia, cui Tancredi aveva originariamente destinato una ben poco boccaccianamente ‘onesta’ Gismonda.
Nel 1596 il conte Francesco Anguissola aveva assassinato il figlio di Torelli Pompilio, cui è indirizzato il Trattato del debito del cavaliero, uscito a stampa lo stesso anno.
Si tratta di un’accurata indagine sulla funzione del «cavaliere» nella società della Controriforma. A partire da uno spunto proprio del genere delle scritture familiari, Torelli vi dispiega un capillare saggio di precettistica comportamentale, diretta alla gioventù nobiliare non solo farnesiana, risemantizzando in termini moderni il codice cavalleresco. Se la preoccupazione di Torelli è ancora una volta il rispetto dell’ordine sociale e della gerarchia, l’insistenza sull’autocontrollo e la coscienza di sé si radica nella coeva riflessione sulle passioni e sulla possibilità di un’esercizio ‘realistico’ delle virtù: elementi che, come si è visto, confluiscono anche nella produzione tragica. Da segnalare la massiccia presenza di Pierre de Ronsard quale fonte privilegiata, testimonianza di una notevole apertura della cultura torelliana al meglio della produzione poetica europea.
Nel 1597 Torelli iniziò l’esposizione del suo Trattato delle passioni dell’animo, che lo avrebbe occupato fino agli ultimi anni della sua vita, inframmezzata da importanti lezioni su problemi estetico-filosofici (Sulla bellezza, Sull’aria del bel viso).
Nel Trattato Torelli affronta un problema che gli era in qualche modo imposto dalle sue ricerche precedenti, ma anche attualissimo nell’orizzonte culturale a cavaliere tra Cinque e Seicento. Per risolverlo, egli è costretto ad operare un considerevole sforzo di sistematizzazione di un’enorme massa di sapere filosofico, medico e soprattutto poetico. Con un singolare metodo che fonde empirismo medico e logica scolastica, Torelli vi intraprende un’opera di ‘rivalutazione’ del corpo passionale, allo scopo di conciliare l’antropologia cattolica con una visione realistica dell’essere umano. Basandosi sulla fenomenologia emotiva di personaggi poetici quale il Dante della Commedia, ma soprattutto la Laura e il Francesco dei Fragmenta petrarcheschi, l’analisi di Torelli trascorre da passioni elementari quali il desiderio e la «fuga» a complessi aggregati psichici quali la cortesia e l’ironia.
Nel 1598 esce la seconda edizione della Merope, pubblicata col Tancredi e gli Scherzi poetici.
Gli Scherzi presentano temi, motivi e procedimenti propri delle Rime. Essi confluiscono, come ha fatto osservare il loro moderno editore, nella costruzione di «un ritratto per frammenti dell’individuo-poeta», incardinato a sua volta a una serie di nuclei emblematici (la fiamma, la freccia e la ferita, gli occhi ecc.). Prossima al manierismo ferrarese, la produzione madrigalistica di Torelli si caratterizza per una modulazione originale dei tòpoi e una ricerca stilistica in equilibrio tra musicalità, gravitas e artificio.
Nel 1598 le condizioni di Filippo II erano critiche; Torelli venne inviato in Spagna col compito di «compiere gli atti preliminari al giuramento di fedeltà al nuovo re, che doveva essere pronunciato da Ranuccio Farnese, e fra l’altro, per chiedere quali ricompense intendesse concedere il governo spagnolo ai Farnese per i meriti militari acquisiti da Alessandro Farnese» (I movimenti, 1983, p. 161). Egli espresse peraltro un giudizio assai disincantato sulla politica interna ed estera della Spagna. Nel 1600 comparvero i Carminum libri sex, contenenti la poesia latina del Torelli, che nel 1602 terminò la stesura della Galatea, pubblicata a stampa l’anno successivo.
Concepita in aperta polemica con la favole boscherecce miranti al puro diletto, la Galatea mutua alcuni elementi dal genere pastorale e altri dalla commedia, mentre lo stile, denso di concetti e metafore, è quello della tragedia. Ad essa sono anche da ascrivere il Prologo, l’uso dei cori gnomici e l’intento edificante. Chiaro è il fine politico, che si esprime nella figura di Ciclope, tiranno totalmente ‘basso’, e nel consiglio dei pastori, che allude alla Repubblica ideale e alla sua controparte accademica (gli Innominati). Impregnato di platonismo cristiano, il dramma termina con una condanna dell’amore terreno, benché Aci e Galatea rimangano validi esempi di virtù umane (e ‘pastorali’).
Nel 1604 iniziò il Polidoro, pubblicato insieme alla Vittoria nel 1605 in un libro che contiene l’intero corpus della sua produzione tragica.
Gli ultimi due drammi torelliani sono legati ai precedenti da una sorta di simmetria chiasmatica. Essi manifestano però una netta evoluzione da un tipo di tragedia ‘del tiranno’ a quella ‘del martire’, prefigurando esiti propri del teatro seicentesco. La Vittoria è ambientata nel Duecento, e ha come protagonista il dantesco Pier delle Vigne, exemplum del consigliere retto di cui viene rivalutata, seppur in modo ambiguo, anche la scelta del suicidio (in significativa consonanza con le valutazioni morali contenute nelle lezioni accademiche sulla fuga e sullo sprezzo). Al contempo Federico II non è il tipo perfetto del tiranno, essendo questa funzione ‘dirottata’ sul terribile Ezzelino da Romano. Il Polidoro, quarto polo del chiasmo suddetto, si lega al primo per molti aspetti, a cominciare dalla materia tratta da Igino (contaminata però con altri elementi, ad es. con l’Ecuba di Euripide). Come nella Merope, il nucleo tragico e politico è la necessità di estinguere la stirpe di un re sconfitto (qui Polinestore con Deifilo, che si svelerà essere suo figlio). Un’altra affinità risiede nell’importanza attribuita ai lamenti patetici e alle altercationes: si veda quella tra Polinestore, tiranno machiavellico sostenitore della ragion di Stato, e il Sacerdote, ovvio portavoce del diritto e della pietà.
Nel 1606, in riconoscenza dei suoi meriti, Torelli venne eletto principe degli Innominati. La sua morte, il 9 aprile del 1608, fu salutata da un’orazione funebre di Visdomini e da rime di vari accademici in onore del Perduto Innominato.
Per la bibliografia delle edizioni a stampa e dei manoscritti completi dei testi torelliani, si rimanda agli apparati e alle note delle Opere pubblicate da Guanda: Opere, I. Poesie con Il trattato della poesia lirica, introduzione di R. Rinaldi, testi, commenti critici e apparati a cura di N. Catelli - A. Torre - A. Bianchi - G. Genovese, Parma 2008; Opere, II. Teatro, introduzione di V. Guercio, testi, commenti critici e apparati a cura di A. Bianchi - V. Guercio - S. Tomassini, Parma 2009; Opere, III. Prose, introduzioni, testi critici, commenti e apparati a cura di F. Bondi - G. Genovese - N. Ruggiero - A. Torre, Parma 2017. Da vedere, anche se l’attribuzione del testo edito è discussa, P. Torelli, I movimenti dell’animo, a cura di L. Vignali, Parma 1983, anche per la bella silloge di lettere torelliane pubblicata in appendice.
I. Affò, Memorie degli scrittori e dei letterati parmigiani, tomo IV, Parma 1793, ad ind.; B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, Bari 1933, pp. 329-337; A. Mezzacappa, The Love Lyrics of P. T., in Italica, XVII (1940), pp. 49-57; G. Vernazza, Poetica e poesia di P. T., Parma 1964; M. Ariani, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze 1974, pp. 289-332; S. Cecchetti, Una biblioteca erudita del Cinquecento: l’inventario dei libri letterari e storici di P. T. (1539-1608), in Italia medievale e umanistica, XXXIX (1996), pp. 301-394; M. Beer, L’ideologia cavalleresca di P. T., in L’ozio onorato. Studi sulla cultura letteraria italiana del Rinascimento, Roma 1996, pp. 261-266; V. Guercio, Tirannide e Machiavellismo in scena pastorale: sulla Galatea di P. T., in Giornale storico della letteratura italiana, CXV (1998), pp.161-209; L. Denarosi, L’Accademia degli Innominati di Parma: teorie letterarie e progetti di scrittura (1574-1608), Firenze 2003, passim; V. Guercio, Vertù contra furore...: analisi del petrarchismo tragico di P. T., in I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a cura di C. Montagnani, Roma 2005, pp. 249-297; C. Bevilacqua - G. Nori, Libraria di quasi tutte le professioni di scienze arti et facultà. La biblioteca di P. T., Montechiarugolo 2008; P. Montorfani, Uno specchio per i principi. Le tragedie di P. T., Pisa 2010; Il debito delle lettere. P. T. e la cultura farnesiana di fine Cinquecento, a cura di A. Bianchi - N. Catelli - A. Torre, Milano 2012; F. Bondi, In cerca della meraviglia. Due lezioni accademiche (Giovanni Talentoni, P. T), in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, s. 5, XI (2019), pp. 511-542.