GAURICO, Pomponio
Nacque tra il 1481 ed il 1482 a Gauro, uno dei "casali" della contea di Giffoni (presso Salerno) posseduta allora dai d'Avalos, da Cerelia e da Bernardino (appartenente forse alla famiglia Linguito) che esercitava la professione di grammaticus. Suoi fratelli maggiori erano Luca, divenuto poi famoso astrologo, un Agrippa ed un Plinio morti ambedue in giovane età.
Nulla si sa della sua primissima formazione avvenuta probabilmente sotto la guida del padre, che forse egli ed il fratello Luca solevano seguire nelle città e nei paesi dove Bernardino, come allora si usava, era stipendiato per insegnare la lingua e grammatica latina. Nel 1497 egli era a Barletta, dove gli morì il padre; da qui intraprese forse, per motivi di studio, quel viaggio verso Costantinopoli a cui sembra accennare venti anni dopo in una delle sue elegie. Poi, negli ultimi anni del Quattrocento, raggiunse il fratello Luca allo Studio di Padova, ove si trova immatricolato almeno dal 1501 probabilmente tra gli artistae. A Padova il G. continuò e perfezionò lo studio della lingua greca iniziato forse già negli anni dell'adolescenza, testimoniando, in opposizione ad una ancora diffusa indifferenza o ostilità o sottovalutazione nei confronti degli studi greci presente nell'umanesimo romano, ma anche in G. Pontano, un suo precoce filoellenismo, che poteva svolgersi e svilupparsi bene nella Padova di Niccolò Leonico Tomeo e di Marco Musuro (a Padova dal 1503), che egli ebbe come professori insieme con il filosofo Pietro Pomponazzi e il latinista Giovanni Calfurnio. Suoi compagni di studi furono in questi primi anni il fratello Luca, G. Fracastoro, Gaspare Contarini, A. Navagero, Pierio Valeriano (Giovanni Pietro Dalle Fosse) e G.B. Ramusio. Notevole già in questo primo periodo padovano l'impegno letterario ed editoriale del ventenne G.: nel gennaio 1502 a cura di G.B. Ramusio usciva a Venezia un'edizione dei Fragmenta di Gaio Cornelio Gallo (Venezia, Bernardino de' Vitali, 1501 more veneto, cioè 1502) - in realtà semplicemente le Elegiae di Massimiano, che il G. pretendeva di far passare per quelle di Cornelio Gallo -, mentre nel maggio 1504 il fratello Luca editava e dedicava al card. Domenico Grimani una traduzione del commentario del neoplatonico Ammonio all'Isagoge di Porfirio: Ammonius in quinque voces Porphyrii per Pomponium Gauricum Neapolitanum (Venezia, Sessa, 1504) che il G. aveva eseguito due anni prima.
In questo primo periodo padovano si dedicò anche alla scultura o meglio alla bronzistica; un'attività, poi abbandonata e di cui non ci rimangono prodotti, per la quale egli approntò un atelier frequentato da artisti, ma anche da un umanista quale Leonico Tomeo, che era anche un appassionato collezionista d'arte. Occupato appunto nei problemi teorici di questa sua arte, il G. scrisse l'importante dialogo De sculptura, pubblicato a Firenze, forse presso i Giunti, nel dicembre del 1504 (l'ed. è senza indicazioni tipografiche ma datata "VIII Cal. Ianuar. MDIIII", dove l'anno è dato more florentino e dunque corrisponde al 1505; quindi la pubblicazione, contrariamente a quello che si afferma comunemente, risale al 25 dic. 1504). L'edizione - patrocinata probabilmente da Bernardo Rucellai, il generoso ospite delle conversazioni che si tenevano negli Orti Oricellari - ha una doppia dedica: una, di Antonio Placido, al giovane Lorenzo Strozzi, e un'altra, del G., al duca Ercole I d'Este.
Il dialogo finge una conversazione avvenuta in Padova nell'atelier del G. tra quest'ultimo, Raffaele Regio e Niccolò Leonico Tomeo; comprende inizialmente un elogio della scultura e una delineazione del tipo dell'ottimo scultore che deve possedere, secondo il G., oltre che cultura antiquaria e letteraria, un buon numero di virtù civili e segnatamente lo sprezzo del denaro e l'amore della gloria. Poi il dialogo si diffonde in una serie di capitoli tecnici nei quali si dà prima una classificazione dei generi e delle specie di scultura (per materia lavorata e per tecnica di lavorazione) e poi si passa a parlare delle proporzioni, della necessità di conoscere la fisionomia per ritrarre convenientemente le passioni, della prospettiva (della quale Luca Gaurico pubblicava in quell'anno stesso un classico come la Perspectiva communis di Giovanni di Peckham), della difficile arte di rendere vive e mosse le opere e delle tecniche di fusione. Il libretto si chiude quindi con una storia della scultura importante, tra l'altro, perché in essa si riflettono i giudizi della scuola padovana su tutta la scultura italiana del Quattrocento ed in ispecie su quella toscana. Il De sculptura, vista anche la sua discreta diffusione europea tra Cinquecento e Settecento, sarà nella storia della letteratura artistica un'importante tappa del percorso col quale l'arte entra a far parte della cultura e della formazione del letterato; ma al suo apparire diede voce, prima di tutto, a certe esigenze della scuola artistica più vivace ed importante allora a Padova, quella scultorea e bronzistica, di cui facevano parte amici del G., tutti menzionati nel dialogo, come Antonio Rizzo, i Lombardi, Giorgio Lascaris "Pyrgoteles", Bartolomeo Bellano, Andrea Riccio e Severo da Ravenna. Il G. metteva in evidenza come l'artista avesse già dovuto - a causa dello sviluppo delle scienze e del perfezionamento dei procedimenti di raffigurazione - imparare a conoscere matematica, geometria, prospettiva ed ottica, così come i nuovi segreti dell'arte fusoria; ora egli sottolineava come tutto ciò non fosse sufficiente; come non bastasse nemmeno, come molti facevano, visitare assiduamente le collezioni di antichità ed imitarne i modelli. Il G. scriveva quando era entrato idealmente in crisi il modello di artista come scienziato e scrutatore della natura, nel momento in cui egli doveva rispondere a nuove esigenze di animatio, che superavano il naturalismo. Affiancava così al vecchio ideale dell'arte-scienza il modello della retorica e della poesia.
Alla prima edizione del De sculptura facevano seguito due ecloghe latine, l'Erotikè diallèlos e l'Erotikè àplos dedicata al Musuro, nelle quali l'imitazione virgiliana si incontra con lo studio dei bucolici greci.
In entrambe si svolge, tra gli altri, il motivo degli amori pederastici di Orfeo, che era stato allora riportato di moda dal sorprendente finale dell'Orfeo polizianesco.
Al periodo padovano appartengono probabilmente anche alcune poesie latine pubblicate nell'edizione veneziana del 1526 del più tardo Elegiarum liber: alcuni epigrammi ed endecasillabi, altre due ecloghe (Ario lyricen, nella quale si inneggia, tra l'altro, a Giulio II, e Thyrsis et Lycopas) e tre Sylvae, delle quali è importante la seconda, Zographia, in lode delle pitture di Giulio Campagnola a cui è indirizzata. È perduta invece una traduzione latina, eseguita in questo periodo, del Pluto di Aristofane, che il G. ricorderà nei suoi commentari all'Ars poetica oraziana.
Il G. rimase probabilmente a Padova, senza addottorarsi, fino al 1509, anno nel quale gli eserciti della Lega di Cambrai invasero il territorio della Repubblica di Venezia e lo Studio di Padova si chiuse. Dal 1509 al 1512 egli fu probabilmente a Roma, dove aiutò il fratello Luca, astrologo ormai affermato, nella ricerca e nella traduzione di testi astrologici greci conservati nella biblioteca papale. Qui il G. entrò in contatto, o forse riannodò una vecchia amicizia stretta nella sua adolescenza a Napoli, col fiorentino Francesco Pucci, amico del Pontano e del Sannazaro e segretario allora del card. Luigi d'Aragona. A lui il G. dedicò, probabilmente tra il 1510 ed il 1512, il suo commento all'Ars poetica oraziana (De arte poetica ad Franciscum Puccium Florentinum, s.n.t.) seguito da una serie di brevi vite di poeti greci additati, su indicazione di Orazio ed in linea colla tendenza fillellenica dell'autore, quali esemplari ideali.
Notevole è in questo libro, nel commento dell'oraziano ut pictura poesis, la riaffermazione della necessità che le arti figurative - soprattutto nella dispositio degli elementi e per una migliore padronanza dei molteplici mezzi messi a disposizione dalle recenti acquisizioni tecniche ed espressive - si adeguino ai procedimenti narrativi della retorica e della poesia.
Dalla seconda metà del 1512 il G. era di nuovo a Napoli dove, succedendo a Giovanni Musefilo, tenne fino alla fine del 1519 la lettura di "umanità" nello Studio. Frattanto dal 1516 egli aveva iniziato a insegnare privatamente lettere latine e greche al giovanissimo principe di Salerno Ferrante Sanseverino e a sua moglie Isabella Villamarina, presso i quali sarà precettore almeno fino al 1526. In questi anni anch'egli, insieme con gli amici Pietro Summonte, Gerolamo Carbone, Pietro Gravina, Giano Anisio e Ludovico Vopisco, prese parte alle riunioni del cenacolo di letterati che faceva capo al Sannazaro, dove il G. sostenne tesi forse non troppo lontane da quelle che trenta anni dopo A. Minturno gli fece esporre nel De poeta.
Anche in questa opera il G. è infatti, insieme con il Vopisco, nettamente caratterizzato come il sostenitore della cultura greca ed è introdotto poi particolarmente a parlare diffusamente e da specialista della storia della antica commedia. E a questo amore per la Grecia si deve forse anche un viaggio nelle isole greche fatto dal G. in compagnia di Lelio Campano e di Francesco Peto.
Di questo periodo è un libro di elegie latine di cui il fratello Luca si farà editore a Venezia nel 1526: Pomponii Gaurici Neapolitani Elegiae XXIX eclogae IIII sylvae III epygrammata (Venezia 1526). Nell'edizione esse sono seguite, oltre che da quelle produzioni del periodo padovano cui si é accennato sopra, dalle Annotationes dell'amico napoletano Catosso Trotta indirizzate da Decio Apranio al conte Troiano Cavaniglia.
Nelle ventinove composizioni, che trattano per lo più dell'amore per una donna di origine spagnola, il G. fonde i vecchi motivi dell'elegiaca latina con spunti gnomici da Teognide o lirici dai cori della tragedia sofoclea o euripidea. Sono imitazioni che l'amico Trotta è incaricato programmaticamente di segnalare e che costituiscono un'altra prova di interesse per una zona della letteratura greca - quella della poesia lirica e tragica - che tutto sommato continuava a rimanere sostanzialmente estranea al Sannazaro ed al suo gruppo. Ma anche se questo filoellenismo poteva produrre alcuni di quei ridicoli eccessi - il riempire di grecismi la prosa latina - di cui lo biasimava in quegli anni il Giovio nel Dialogus de viris litteris illustribus, è certo che il G. proprio attraverso la lingua ed il linguaggio poetico greco abbia trovato la sua vena più ispirata e disinvolta, come nell'inno greco in esametri in lode del giovane Fabrizio Brancia (Napoli, Bibl. nazionale, cod. XIII.AA.62, cc. 46r-49v).
Di questo periodo sono anche tre poesie - un'ode saffica e due elegie (di cui l'ultima in morte di Giovanni dalle Bande Nere) - pubblicate postume dal fratello Luca in calce al suo De ocio liberali (Roma, Dorico, 1557), una perduta laudatio funebre per una fanciulla della famiglia Requesenz ricordata dal Giovio e probabilmente anche una Grammatica Graece et Latine conscripta che il Chioccarelli vide ancora sul principio del secolo XVII nella Biblioteca del convento napoletano di S. Giovanni a Carbonara.
Duplice la tradizione riguardante i tempi e le circostanze della sua morte. Secondo la più antica, ma probabilmente più infida e romanzesca, versione risalente al Giovio, il G. tra il 1528 ed 1530, per aver troppo imprudentemente cantato il suo amore per una nobildonna, sarebbe stato assassinato mentre da Sorrento si recava a Baia e quindi gettato in mare. Secondo l'altra versione trasmessaci dal più tardo, ma probabilmente meglio informato, Minturno nel De poeta, il G. sarebbe stato fatto prigioniero dai Francesi durante l'assedio da loro posto a Napoli nella prima metà del 1528; liberato dopo la fine dell'occupazione, il governo spagnolo lo avrebbe accusato di aver parteggiato per il nemico ed egli, bandito da Napoli, sarebbe quindi morto di dolore sulla via dell'esilio. Forse il G. fu semplicemente uno dei tanti napoletani rifugiati nelle campagne attorno alla città, che i soldati francesi uccisero e dei quali i congiunti non ebbero più notizie.
L'opera del G. De sculptura è stata pubblicata, in edizione annotata e tradotta a cura di A. Chastel e R. Klein, a Ginevra nel 1969.
Fonti e Bibl.: Napoli, Bibl. nazionale, Mss. XIV.A.28: B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus qui in civitate et Regno Neapolitano floruerunt, cc. 147r-148v; XIV.G.15-16: V. Meola, Biografia di P. G.; una biografia del G. scritta dal fratello Luca è nell'opera miscellanea di Johannes Musler, De titulis et dignitatibus reipublicae litterariae, Lipsiae 1533; P. Giovio, Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita quae in Musaeo Ioviano Comi spectantur, Venetis 1546, cc. 2v-3r; Id., Dialogus de viris litteris illustribus, in G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VII, 4, Modena 1792, pp. 1685 s.; A. Minturno, De poeta ad Hectorem Pignatellum, Venetijs 1559, pp. 270-368, 435; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, pp. 254 s.; L. Nicodemo, Addizioni copiose alla Biblioteca napoletana, Napoli 1683, p. 213; G.B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1750, III, 1, pp. 231-233; III, 6, p. 102; E. Percopo, P. G. umanista napoletano, in Atti della R. Accademia di archeologia, lettere e belle arti, XVI (1891-93), pp. 145-261; R. Klein, La forma e l'intelligibile, Torino 1975, pp. 251-297; Gallo, P. G. e la poesia umanistica meridionale in lingua greca, in Res publica litterarum, XIII (1990), pp. 93-100.