NERI, Pompeo
– Nacque a Firenze il 17 gennaio 1707 da Giovanni Bonaventura Neri Badia, in quel momento giudice di Rota nello Stato senese.
Studiò nel seminario di Siena, per passare poi allo Studio pisano, dove conseguì il titolo dottorale, in anni nei quali erano vivaci le polemiche antigesuitiche e antiscolastiche.
Nel 1718 Guido Grandi, Giovanni Bottari, Tommaso Buonaventuri, Benedetto Bresciani, Giuseppe Averani, protagonisti, insieme con pochi altri, del rinnovamento dello Studio pisano e dell’intera cultura toscana, avevano collaborato all’edizione fiorentina delle Opere di Galileo. Nella Prefazione universale si rivendicava la libertas philosophandi e si affermava a chiare lettere la validità della lezione galileiana. Di tale rinnovamento fu dimostrazione, nel 1727, l’edizione delle opere di Gassendi, introdotte da un lungo saggio, Typographus philosophiae studiosis, scritto probabilmente da Bottari e da Buonaventuri, nel quale si indicava con chiarezza nella mancanza di una vera libertas philosophandi le ragioni della decadenza della cultura italiana. L’Inquisizione, le paure di un certo cattolicesimo, l’aristotelismo avevano impedito di ricercare con piena libertà di giudizio, pregiudicando così la possibilità di avanzamento della cultura. Sempre dagli ambienti pisani erano usciti negli anni Venti le feroci polemiche antigesuitiche di Pascasio Giannetti e di Tommaso Crudeli – quest’ultimo condannato dall’Inquisizione per la sua adesione alla massoneria – e, su un piano più alto di riflessione filosofica, la traduzione del De rerum natura di Lucrezio a opera di Alessandro Marchetti, pubblicata postuma nel 1717.
Poco, anzi nulla sappiamo della formazione universitaria di Neri e della sua partecipazione alla vita culturale dell’ateneo negli anni Venti. Nel 1726, appena conclusi gli studi, fu nominato lettore de iure publico. Il diploma del granduca Gian Gastone che istituiva la nuova lettura, nell’assegnarla a Neri faceva esplicita menzione dei meriti del padre, divenuto in quegli anni uno dei principali consiglieri di giustizia del principe, protagonista delle battaglie per il rinnovamento della cultura giuridica e politica nel contesto delle vicende della crisi dinastica medicea e della successione al titolo granducale.
L’apertura dell’insegnamento affidato al giovane Neri era, dunque, il segno di un rinnovamento della cultura giuridica e accademica pisana e si inseriva nel clima politico segnato dall’incerta definizione della successione. La situazione determinatasi obbligò il ceto di governo e i giuristi toscani a mobilitare le proprie competenze storiche e giuridiche e ad aderire a un metodo storico-giuridico criticamente avvertito, contro i tentativi delle grandi potenze di mettere sul trono un successore di loro gradimento. Questa ars critica di lì a pochi anni sarebbe stata esplicitamente evocata a Pisa, anche sulla scorta della scuola giuridica tedesca, da Leopoldo Andrea Guadagni e da Antonio Maria Vannucchi. All’apertura della cultura giuridica toscana, che nella rinnovata fedeltà al diritto romano non esitò a far proprie istanze giusnaturalistiche e contrattualistiche, dettero un contributo di rilievo Giuseppe Averani e Neri Badia. L’affidamento a Neri rappresentò, dunque, non solo una esplicita cesura nella cultura giuridica accademica, quanto anche l’apertura del ceto di governo fiorentino a motivi culturali che avrebbero dovuto sostenere le ragioni dell’indipendenza toscana non solo nelle aule delle cancellerie delle potenze europee e nelle trattative diplomatiche, ma anche in un confronto pubblico con le tesi dei giuristi imperiali (e tra loro anche Leibniz), che sostenevano le ragioni dell’Impero nella successione medicea.
È certamente legato all’attività di Giovanni Bonaventura, assai vivace con altri giuristi e uomini del governo di Gian Gastone nella difesa della libertas Florentina, un nuovo diploma del granduca, che nel 1729 concedeva a Neri la grazia di esercitare il suo compito di lettore di legge a Firenze e di aiutare il padre nella carica di auditore dello Scrittoio delle possessioni, organo cui spettava l’amministrazione delle proprietà, per così dire, demaniali. Nel 1735 Neri ebbe la nomina ad assessore di questa magistratura. Nel 1737, all’arrivo dei nuovi governanti lorenesi, fu chiamato alla Segretaria del Consiglio di reggenza, che doveva governare il Granducato in accordo con il Consiglio per gli affari di Toscana, che il nuovo granduca, Francesco Stefano di Lorena, aveva istituito a Vienna.
Gli inizi dell’attività di insegnamento e poi di ‘funzionario’ di Neri si svolsero, dunque, all’ombra del padre e delle solidarietà politiche di cui questi godeva all’interno del governo fiorentino. La nomina a segretario del Consiglio di reggenza nacque, infatti, dalla vicinanza di Giovanni Neri Badia e del figlio Pompeo a Carlo Ginori, esponente di quella parte del patriziato fiorentino che si era prima schierata e impegnata direttamente nella difesa della libertà degli Stati ex medicei e nel progetto di una sorta di restaurazione dell’antica repubblica oligarchica, ma che nel 1737 aveva accettato la soluzione lorenese. Ginori era stato nominato membro del Consiglio non solo per le sue capacità politiche e amministrative e per la sua appartenenza a una famiglia che aveva esercitato rilevanti incarichi nell’amministrazione granducale ai tempi di Cosimo III e di Gian Gastone, ma anche in considerazione dei suoi rapporti familiari con la famiglia Corsini, la più importante nel patriziato fiorentino, che si era apertamente schierata a favore della soluzione borbonica alla successione medicea (Bartolomeo Corsini aveva lasciato Firenze e aveva ottenuto la carica vicereale a Palermo). Un Corsini, Lorenzo, sedeva allora sul soglio pontificio con il nome di Clemente XII.
Nel Consiglio di reggenza Neri mise subito in mostra le sue competenze storico giuridiche: dalla questione di grande rilievo politico del disegno della nuova ‘arme’ lorenese – quale spazio si doveva riconoscere, infatti, nell’arme del nuovo Granducato ai simboli della Repubblica fiorentina? – alle controversie, per ragioni di confine, con lo Stato pontificio, alla partecipazione a una commissione incaricata di vigilare sull’applicazione della legge sulle licenze per portare le armi. Sempre in quei primi anni del nuovo governo toccò a Neridi occuparsi della riforma dell’Università di Siena (le sue coraggiose proposte furono contrastate vittoriosamente dall’auditore di Siena, Neri Venturi, con il quale Neri tornò a scontrasi per tutti gli anni Quaranta), delle Maremme senesi, del bagno penale di Livorno, di una ispezione alla campagna pisana in vista di un nuovo regolamento dell’Ufficio dei fossi di Pisa e della riforma delle finanze del Granducato (appalto generale e istituzione di una nuova magistratura: la Camera granducale). Tutti questi incarichi, al di là del suo normale ufficio di segretario delle sessioni del Consiglio di reggenza, gli erano affidati in riconoscimento delle sue competenze, ma anche del suo ruolo politico. Parte del patriziato fiorentino scelse, almeno nei primi anni, di collaborare con la nuova dinastia, sia pure in un rapporto difficile, anzi di aperto contrasto, con il conte Emmanuel de Richecourt, ministro lorenese del Consiglio di reggenza assai vicino a Francesco Stefano e vero uomo forte del Consiglio fiorentino.
In questo contesto Neri e il suo patron politico Ginori dovettero per tutti primi anni della dominazione lorenese difendere le ragioni e gli spazi di un ceto di governo e di un assetto politico e istituzionale che Richecourt vedeva come un nodo gordiano da tagliare per poter costruire un più efficiente sistema di governo monarchico. Le vicende della guerra per la successione austriaca (1740-48) resero insanabile la rottura tra Richecourt, che sempre più si accreditò come il fedele interprete degli interessi del granduca lorenese, e Ginori. La rottura non poté non mettere lo stesso Neri in una posizione di scontro con i vertici lorenesi: dalla scelta della compagnia di finanzieri cui affidare l’appalto delle entrate fiscali dello Stato all’avvio di quella profonda riforma delle istituzioni toscane che i nuovi governanti ritenevano necessarie per la costruzione di un coeso Stato monarchico.
Nell’ambito degli scontri all’interno del Consiglio di reggenza, tra 1745 e 1748, dall’aprirsi cioè di una concreta prospettiva di riforma del Granducato alla vittoria definitiva di Richecourt, Neri espresse in alcuni tra i testi più significativi della cultura riformatrice di quegli anni posizioni di grande respiro. Le relazioni redatte tra il 1745 e il 1748 sulle magistrature del Granducato, sulla codificazione e sulla riforma della nobiltà e della cittadinanza, ebbero non solo il pregio di dare una lettura originale e acuta dei processi di costruzione del principato mediceo, ma anche di prospettare ipotesi nuove e avanzate di riforma dello Stato e della società. La ricostruzione che questi testi danno della storia del Granducato è animata da un senso profondo dei mutamenti e delle rotture che dal principato di Cosimo I all’insediamento di Francesco Stefano avevano inciso nel regime istituzionale ereditato dalla Repubblica oligarchica, anch’essa a sua volta frutto di faticosi consolidamenti.
L’indicazione politica che emergeva dalle analisi storico-istituzionali di Neri era chiara: non una difesa dell’assetto esistente, semmai l’esigenza di una riforma delle istituzioni e degli equilibri di potere che si opponesse però a ogni progetto di riforma istituzionale, quale quello delineato da Richecourt, che volesse spezzare a tutto favore dell’arbitrio del principe il delicato compromesso costituzionale che si era realizzato nel corso del principato mediceo. Nelle memorie di Neri, più che una precisa proposta riformatrice, emergono le linee di un progetto di riforma volto a correggere le distorsioni del vecchio sistema mediceo, garantendo comunque gli equilibri di potere e soprattutto il tradizionale ruolo politico e sociale del ceto di governo fiorentino. Per Neri, l’assetto del principato mediceo, delle sue istituzioni e delle sue leggi, poteva sì essere modificato, ma nel rispetto della sua storia e delle ragioni di ordine politico e sociale che avevano condotto a quell’assetto. L’affermazione della volontà del sovrano come fonte unica della legge e di ogni privilegio avrebbe comportato non solo un mutamento delle forme costituzionali, ma una ferita al corpo della società toscana, agli equilibri faticosamente raggiunti in due secoli di principato.
Questi elementi della riflessione e della azione politica di Neri sono assai evidenti nelle relazioni del 1747 sulla riforma della legislazione e in quelle che lesse nel 1748 davanti a una commissione istituita dal Consiglio di reggenza per la riforma della cittadinanza fiorentina (ora in Verga, 1990, pp. 315-572).
Non è affatto un caso che Neri producesse il suo maggiore sforzo teorico e politico nella proposta di una nuova regolamentazione dei ‘ranghi dei cittadini’: lo stesso tema che da ben altro punto di vista Richecourt indicava in quegli anni come uno dei nodi da sciogliere per la costruzione di un Granducato conseguentemente monarchico. La proposta che Neri avanzò nel secondo dei suoi discorsi sulla codificazione era che «nella condizione o stato civile delle persone possa venire assegnato un certo grado ai proprietari dei terreni, non perché secondo il presente sistema la proprietà del terreno dia alcuna graduazione, ma perché tal graduazione secondo i costumi di altre nazioni non è nuova e perché veramente la proprietà del terreno è il fondamento del censo e il censo è il vero e primitivo fondamento della nobiltà, onde volendo sopra tal materia introdurre una regola, non sarebbe assurdo, né lontano dalle nostre antiche massime qualche simile stabilimento» (ibid., p. 353). Si coglie in questa proposta la familiarità con la riflessione politica e costituzionale più aperta del suo tempo: non tanto del costituzionalismo alla Montesquieu, quanto della cultura politica economica dell’Inghilterra dell’ultimo Seicento e del pensiero economico francese del primo Settecento. Seguendo queste linee di riflessione, Neri scioglieva il nodo della rappresentanza politica e della sovranità nel richiamo a un principio, quello della proprietà come base di ‘ogni graduazione’, che egli non esitava a definire come ‘vero’, fondato in un ordine ‘naturale’. Com’è ovvio, il senso politico di queste posizioni stava anzitutto nella contrapposizione al progetto riformatore di Richecourt, cioè a ogni tentativo di fare dell’arbitrio del principe il fondamento dell’organizzazione dello Stato e prima ancora della società.
Non sorprende che le analisi e le idee di Neri non siano state neppure prese in considerazione da Richecourt. Troppa era la distanza, politica, ma anche culturale, che separava quest’ultimo dal giurista fiorentino. Mentre il primo, infatti, leggeva la realtà politica del Granducato in termini di mélange e di restes derépublique e auspicava una società politica incentrata sul rapporto sovrano-sudditi e a mediare tra questi due poli ammetteva solo un ruolo di funzionari, fedeli esecutori della volontà del sovrano, Neri, in questa stessa realtà toscana sapeva leggere il peculiare esito di un complesso processo politico, istituzionale e sociale, che non poteva essere costretto nei termini voluti da Richecourt.
Travolto dalla sconfitta del partito ‘fiorentino’ di Ginori, Neri, sempre grazie alla rete di solidarietà che si richiamava a Ginori e alla famiglia Corsini e ai rapporti tra questo partito con il marchese Gianluca Pallavicini, in quegli anni governatore della Lombardia austriaca, passò a Milano, chiamato a completare le opere di catastazione avviate da oltre un trentennio. Nel prendere possesso della nuova carica, stese una lucida Relazione dello stato in cui si trova l’opera del censimento universale del ducato di Milano nel mese di maggio 1750 (Milano 1750, senza indicazione dell’autore; ed. anast. a cura di F. Saba, ibid. 1985), nella quale la ricostruzione puntuale delle operazioni fino ad allora effettuate serviva alla indicazione di un piano di riforme istituzionali (in primo luogo una riforma dei consigli delle Comunità che avrebbe dovuto riconoscere il diritto dei proprietari alla partecipazione governativa sotto il controllo di un rappresentante del potere sovrano), che avrebbero dato un diverso senso al rapporto tra sovrano e governo degli interessi territoriali.
Impegnato nella realizzazione del Catasto, si misurò con le questioni legate alla tassazione dei beni ecclesiastici; mentre su un altro piano, nel contesto della definizione dei cambi tra le monete milanesi e quelle del Regno di Sardegna, redasse le Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete e le difficoltà di prefinirlo e sostenerlo, presentate a Sua Eccellenza il signor Conte Gian-Luca Pallavicini… sotto il dì 30 settembre 1751 (Milano 1751, senza indicazione dell’autore; poi, con il titolo di Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete, in Scrittori classici italiani di economia politica, parte antica, VI, Milano 1804, pp. 3-375; e Documenti annessi alleOsservazioni sopra il prezzo legale delle monete di Pompeo Neri fiorentino, ibid., VII, ibid.), nelle quali sostenne che il valore delle monete era dato non dal sovrano, ma dai mercati e, nel caso delle monete milanese e torinesi, dalla media delle transazioni dei mercati degli Stati italiani circostanti.
L’azione di Neri provocò una forte diffidenza e a volte aperta opposizione in altri ministri del Milanese e anche nel governo di Maria Teresa e da parte della stessa sovrana e di Giuseppe II: anzitutto per la sua eccepibile condotta morale e per l’eccessivo attaccamento al denaro. Ma è certo che la sua azione per la messa in opera del Catasto milanese suscitò un grande interesse in Europa. Nel 1764 un inviato del controllore generale delle Finanza di Francia si recò a Firenze a chiedere a Neri una memoria sull’amministrazione delle finanze e sul Catasto.
Nell’estate del 1757, dopo il ritiro di Richecourt, per motivi di salute, dal governo del Granducato, a guidare la Toscana fu inviato il maresciallo Antoniotto Botta Adorno, in un clima segnato da un rapporto più disteso della dinastia lorenese con il patriziato fiorentino. In questo contesto Neri fu, infatti, richiamato in Toscana a sedere nel Consiglio di reggenza. Con la partenza del Richecourt, sembrò aprirsi una nuova fase nei rapporti tra Toscana e Vienna, dando spazio e speranze per una opera di elaborazione e di riflessione sugli assetti istituzionali del Granducato. Di questa stagione di avvio di un progetto di riforme dell’assetto politico e istituzionale Neri rappresentò la punta più alta del ministero fiorentino: per la insuperata conoscenza delle istituzioni, acquisita negli anni in cui aveva ricoperto la segreteria del Consiglio di reggenza e aveva lavorato alla codificazione, alla riforma della legge sopra la nobiltà e la cittadinanza e alla riforma più complessiva degli assetti istituzionali dello Stato, oltre che per la vastità della sua preparazione giuridica e per l’esperienza di governo che non trovavano eguali tra i ministri fiorentini.
A partire dal 1763, alla notizia della nomina a governatore della Toscana dell’arciduca Pietro Leopoldo (poi, nel 1765, alla morte del padre, insediatosi in Toscana come granduca), Neri riprese e inviò a Vienna la memoria scritta nel 1745 sull’assetto dello Stato toscano e insieme una seconda memoria, nella quale denunciava le contraddizioni in esso apportate dalle riforme volute dal conte di Richecourt. Insomma, si candidò a vero primo ministro del nuovo granduca, sfidando diffidenza e opposizione da parte di altri ministri toscani e anche dello stesso principe che ripetutamente segnalò i suoi grandi meriti, ma anche i suoi difetti e il suo essere uomo di partito, come si evince dal giudizio che su di lui che dettò nelle sue cosiddette Relazioni sugli impiegati del 1773.
All’arrivo di Pietro Leopoldo Neri intervenne su questioni di assoluto rilievo. Sui provvedimenti a favore di una moderata liberalizzazione del commercio dei grani, in preparazione della legge del settembre 1767, scrisse un importante Discorso sopra la materia frumentaria. A proposito delle misure per il controllo e la repressione della mendicità, in una memoria sempre del settembre 1767, sostenne con grande lucidità l’inutilità delle leggi di espulsione dei mendichi dalle città. Inoltre, si espresse sui primi interventi granducali per la riduzione del numero delle monacazioni femminili.
«Le cattedre di Pisa dipendono da Neri» si legge nel carteggio dei fratelli Verri (lettera 20 febbraio 1767, in Viaggio a Parigi e Londra, 1766-1767: carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Gaspari, Milano, 1980). In effetti Neri, tornato a Milano era stato chiamato a dare un parere sul ruolo per l’Università di Pisa per l’anno accademico 1758-59 e aveva ricordato con forza come il rilancio dell’Università dovesse essere il risultato in gran parte, se non in misura esclusiva, di una migliore selezione del corpo docente. «Questi lettori nuovi io crederei che fosse bene – scriveva – d’introdurre l’usanza di eleggerli ad triennium. Quest’uso darebbe ai giovani maggiore stimolo di studiare e servirebbe di un noviziato che darebbe luogo a conoscere i loro talenti e a non aggravare l’università di soggetti inutili, poiché sebbene sia sempre in arbitrio di Sua Maestà il congedarli, questo non si fa dalla Sovrana Clemenza senza grave colpa» (Arch. di Stato di Firenze, Miscellanea di Finanze, A 339, parte II). Riguardo agli aumenti di stipendio da concedere ai professori proponeva «che i professori che si distinguono con le stampe meritino l’aumento ordinario e triennale e meritino ancora l’aumento straordinario a proporzione delle loro fatiche e della lode che ne hanno riportato. Ai professori che non stampano io non darei aumento né ordinario né straordinario e così gli obbligherei a voltarsi a un altro mestiere. Per conoscere un professore abile dall’inabile e per tenerlo sempre in obbligo di studiare e far cadere l’impostura, non vi è altro compenso che farlo stampare. Gli esercizi scolastici sono stati sempre equivoci ed in oggi sono ridotti così facili che da tutti si possono eseguire» (ibid.). Sull’Università di Pisa intervenne di nuovo nel 1768, soffermandosi, tra molte altre proposte, sulla formazione universitaria dei notai per la rilevanza che queste figure avevano nel sistema della giustizia dello Stato, quando erano chiamati a ricoprire la carica di assessori dei vicari e dei podestà fiorentini.
Nelle memorie di Neri scritte tra il 1768 e i primi anni Settanta si coglie il dispiegarsi di un progetto di riforma dello Stato, che avrebbe segnato la cultura politica e la stessa azione riformatrice della cosiddetta età leopoldina, anche al di là della effettiva realizzazione delle proposte e dei riconoscimenti che il granduca era disposto a riconoscergli. Se, infatti, si leggono in una unica sequenza le memorie e l’azione riformatrice di Neri sull’Università di Pisa, sulla riforma dei tribunali e del sistema di amministrazione della giustizia e sulla riforma dei governi municipali – questioni che lo impegnarono tra 1768 e 1776 – appare il disegno di una trama complessiva di un nuovo assetto istituzionale. Da un lato, infatti, le osservazioni sull’Università pisana prefigurano la direzione delle riforme dei curricula dei giudici e notai che faranno seguito alla riforma dei tribunali varata dallo stesso Neri nei primi anni Settanta. Dall’altro, la memoria sulla riforma dei governi comunitativi e sulla nuova magistratura, la Camera delle comunità, che ne avrebbe avuto il controllo, inviata da Neri al sovrano nel 1769, sosteneva il modello di uno Stato fondato su una trama di Comunità locali guidate dai maggiori proprietari, secondo il modello già sperimentato nel Milanese, e di una magistratura in qualche modo rappresentativa dei nuovi governi municipali. La proposta di Neri incontrò forti resistenze negli altri ministri e nello stesso granduca, che pure avrebbe ripreso queste suggestioni sia nell’attuazione della riforma dei governi comunitativi, avviata negli anni Settanta con il sostegno di Francesco Maria Gianni, sia nella redazione assai complessa e incompiuta di una costituzione alla quale Pietro Leopoldo lavorò alla fine degli anni Settanta, quando Neri era già morto.
La ‘statalizzazione’ ormai piena dell’amministrazione della giustizia comportava, almeno in linea di principio, l’esercizio del controllo diretto dello Stato sulla formazione e sulla preparazione culturale e professionale di coloro che andavano a esercitare la giurisdizione: non più cittadini fiorentini, tratti a sorte, quali erano i podestà e i vicari fiorentini, ma giudici e notai di esclusiva nomina del principe, funzionari che avevano ottenuto un titolo dall’Università e che avevano superato un esame di concorso. Che la riforma cosiddetta dei ‘governi provinciali’, cioè dei tribunali, dovesse riguardare l’Università di Pisa, fu idea di Neri, accolta dal motuproprio granducale del 10 luglio 1771 «per l’approvazione de’ notai, degli attuari dei Tribunali e dei Giusdicenti», al quale fecero seguito il motuproprio del 30 dicembre 1771, entrato in vigore il primo marzo 1772 sul «modo di eleggere i giudici dai Magistrati di Firenze e della loro giurisdizione», e la riforma dei governi provinciali, attuata da una commissione presieduta e nei fatti fortemente controllata da Neri. Fu lui, dunque, l’artefice della riforma del sistema giudiziario, che approdò con i provvedimenti del 1771 e 1772 a una professionalizzazione dell’amministrazione della giustizia e al superamento del sistema tradizionale di affidare ai soli cittadini fiorentini gli incarichi di giusdicenti nelle comunità dello Stato. D’altro canto, la statalizzazione della giustizia si accompagnava, nel progetto di Neri, alla costituzione di una rete di comunità rette dai proprietari, i più ‘interessati’ – parola chiave, questa, del lessico politico del ceto politico toscano di quei decenni – alla realizzazione di un ordine che era insieme politico e sociale.
Morì a Firenze nel 1776, mentre riprendeva in mano le sue memorie sulla riforma delle leggi e sulla nobiltà e cittadinanza.
«Uomo di grande abilità, talento e capacità; vedute grandi, di molto studio, pratico delle cose legali, che conosce a fondo il paese e i soggetti che sono impiegati»: così, nel 1773, il granduca Pietro Leopoldo aveva scritto di Neri, nel contesto di un giudizio non alieno però da sospetti e insinuazioni (Relazione dei dipartimenti e degli impiegati, a cura di O. Gori, Firenze 2011). Una figura la sua che non può essere racchiusa nella definizione di funzionario, magari politicamente e culturalmente più avvertito di molti altri. Le sue doti intellettuali; il suo appartenere a quella generazione di allievi pisani di Giuseppe Averani, dalla quale erano usciti – come lo stesso Averani ricordò nel suo testamento – Bernardo Tanucci, Giulio Rucellai, Antonio Niccolini; l’inserimento, favorito ovviamente dalla figura del padre, negli ambienti di corte e di governo; i suoi rapporti con Carlo Ginori e con altri esponenti del patriziato fiorentino; la sua presenza negli organi di governo: tutte queste qualità e condizioni hanno fatto di Neri un personaggio chiave non solo della Toscana lorenese, ma delle vicende politiche e culturali dell’Italia delle riforme del Settecento. Alla sua morte Pietro Leopoldo provvide a far sequestrare buona parte delle carte di governo del suo ministro, che oggi si ritrovano disperse in molte filze dell’Archivio di Stato di Firenze (particolarmente nei fondi della Reggenza lorenese e della Segreteria di Stato di Pietro Leopoldo), mentre la sua biblioteca, considerata allora assai pregevole, fu venduta ‘alla spezzata’ dal fratello Filippo.
Opere. Discursus legales I-IV, in G.B. Neri Badia, Decisiones et responsa Juris, tomus secundus… quibus accedunt Pompeii filii Decisiones er discursus legales …, Firenze 1776, pp. 498-550 (contiene i tre discorsi sul codice del 1747 e il Discorso sopra lo stato antico e moderno della nobiltà di Toscana del 1748; insieme con le relazioni sulle magistrature fiorentine del 1745-63 sono editi in appendice a Verga, 1990, pp. 313-689); Memoria sopra la materia frumentaria, Discorso di Pompeo Neri stampato per la prima volta in fine dell’opera di Giovanni Fabbroni De’ provvedimenti annonari, Firenze 1804, in Scrittori classici italiani di economia politica, XLIX, Supplimento, Milano 1816; Relazione della visita fatta all’ufizio dei Fossi di Pisa l’anno 1740, in http://dante.di. unipi.it/ricerca/html/ner.html; Memoria sulla tassazione degli ecclesiastici, in L. Sebastiani, La tassazione degli ecclesiastici nella Lombardia teresiana, con una memoria di Pompeo Neri, Milano 1969; Memoria sui catasti, in A. Alimento, Finanze e amministrazione. Un’inchiesta francese sui catasti nell’Italia del Settecento (1763-1764), I. Il viaggio di Joseph-François Harvoin con uno scritto inedito di Pompeo Neri, Firenze 2008. Una scelta antologica della Relazione sul censimento; del Discorso sopra la nobiltà; della Memoria sulla mendicità è in Riformatori lombardi, piemontesi e toscani del Settecento, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958.
Fonti e Bibl.: P. Rocchi, P. N., in Archivio storico italiano, s. 3, XXIV (1876), pp. 47-69; 253-269; 441-449; I. Masetti Bencini, Notizie su P. N. e su alcuni suoi scritti, in Miscellanea storica della Valdelsa, XXIII (1914), pp. 137-176; C. Mozzarelli, Sovrano, società e amministrazione locale nella Lombardia teresiana (1749-1758), Bologna 1982; C. Capra, Il Settecento, in D. Sella - C. Capra, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, Torino 1984, pp. 153-618; M. Verga, Da “cittadini” a “nobili”. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano 1990, passim; B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, Milano 1991; P. N. Atti del Colloquio di studi di Castelfiorentino, a cura di A. Fratoianni - M. Verga, Castelfiorentino 1992; F. Diaz et al., Il Granducato di Toscana. I Lorena, Torino 1997, ad ind.; M. Verga, L’Università di Pisa nel Settecento delle riforme, in Storia dell’Università di Pisa, II, 3, Pisa 2000, pp. 1129-1166; A. Contini Bonacossi, La Reggenza lorenese tra Firenze e Vienna. Logiche dinastiche, uomini e governo (1737-1766), Firenze 2002, ad indicem.