Abstract
Questo contributo è volto ad esaminare, anche alla luce delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, le principali disposizioni relative alla Politica estera e di sicurezza comune contenute nel Capo 2 del Titolo V del Trattato sull’Unione europea. Particolare attenzione è dedicata all’analisi del sistema istituzionale e decisionale PESC improntato, a differenza delle altre politiche disciplinate dai Trattati, a logiche marcatamente intergovernative.
La Politica estera e di sicurezza comune (PESC) non solo conserva una fisionomia prettamente intergovernativa ma, a differenza delle altre politiche dell’Unione, non è definita in relazione ad alcuno dei criteri normalmente utilizzati per stabilire un riparto di competenze. Il primo paragrafo dell’art. 24 TUE, ricorrendo ad una definizione dal carattere marcatamente tautologico, stabilisce, infatti, che la competenza dell’Unione in materia di PESC «riguarda tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune».
Non vi è dunque alcuna indicazione sull’ampiezza della competenza in materia di Politica estera e di sicurezza comune, salvo il fatto che essa, ai sensi del par. 2 dell’art. 24, è condotta ed attuata «nel quadro dei principi e degli obiettivi dell’azione esterna» e si fonda «sullo sviluppo della reciproca solidarietà degli Stati membri, sull’individuazione delle questioni di interesse generale e sulla realizzazione di un livello sempre maggiore di convergenza delle azioni degli Stati membri». In questa prospettiva, un atto potrebbe essere fondato sulle disposizioni relative alla PESC solo se concerne una questione che sia d’interesse generale per l’Unione e gli Stati membri. Tuttavia, poiché l’applicazione della norma è rimessa, in definitiva, alla discrezionalità degli Stati membri, il richiamo all’interesse generale non appare idoneo a costituire un reale limite alle attività di politica estera. In questa prospettiva, in assenza di una chiara indicazione di competenza e di meccanismi regolatori, la competenza in materia di politica estera si estende laddove gli Stati consentano all’Unione di esercitarla (Cannizzaro, E., Art. 24 TUE, in Tizzano, A., a cura di Commentario del Trattato di Lisbona, Milano, 2014, 231).
La difficoltà di delimitare la competenza dell’Unione deriva non solo dall’assenza di una nozione oggettiva di Politica estera e di sicurezza comune – problema parzialmente superato solo nel limitato settore della politica di sicurezza e di difesa comune in relazione al quale il Trattato ha previamente circoscritto l’ambito ratione materiae (v. gli artt. 42 e 43 TUE) – ma anche dall’eliminazione di un qualsiasi richiamo di ordine finalista. L’ex art. 11 TUE definiva infatti la politica estera attraverso un criterio di ordine funzionale, come l’insieme delle azioni tese alla realizzazione dei fini indicati dalla disposizione. Gli obiettivi in precedenza indicati nell’ex art. 11 sono ora confluiti nell’art. 21, par. 2, TUE laddove esso indica che le azioni dell’Unione sulla scena internazionale debbano essere volte a salvaguardare i suoi interessi fondamentali, i suoi valori, la sua sicurezza (lett. a); a realizzare interessi d’indole universale quali lo sviluppo dei diritti dell’uomo, della democrazia e dello Stato di diritto e i principi del diritto internazionale (lett. b); a preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale (lett. c). È tuttavia ragionevole ritenere che essi, pur inseriti in una disposizione che riguarda l’azione esterna dell’Unione nel suo complesso, continuino ad imporre alle attività fondate sul titolo V TUE un vincolo di ordine funzionale (v. C. giust. 20.5.2008, causa C-91/05, Commissione c. Consiglio (ECOWAS), p. I-3651, par. 105). Peraltro, l’ampiezza della formulazione ed il ricorso ad elementi di carattere politico è tale da pensare che comunque alle istituzioni politiche spetti un ampio margine di discrezionalità nel determinare i fini concreti della propria azione.
La difficoltà di circoscrivere l’ambito d’applicazione della PESC potrebbe astrattamente comportare una serie di interferenze reciproche con le altre competenze dell’Unione di rilievo esterno. Ciò sembrerebbe accadere allorché la realizzazione di obiettivi di politica estera giustificasse incursioni della PESC nell’ambito delle altre politiche. D’altro lato, si avrebbe invece una interferenza di segno opposto qualora le competenze materiali fossero utilizzate per l’attuazione di scopi di politica estera. Tuttavia, una concezione integrata delle competenze di rilievo esterno sembrerebbe preclusa dalla presenza dell’art. 40 TUE il quale, nel presidiare da reciproche interferenze settori d’integrazione che sono e devono continuare a rimanere distinti, mantiene ed anzi rafforza la clausola di salvaguardia, già presente nel precedente art. 47 TUE, volta ad assicurare un regime di separazione tra la PESC e le altre politiche materiali. Ciò conduce peraltro al risultato, non privo di inconvenienti, che, in via generale, non vi sarebbe alcun ente competente ad adottare provvedimenti che ricadono nell’ambito delle competenze materiali per la realizzazione di uno scopo di politica estera.
Il secondo comma del primo paragrafo dell’art. 24 si apre con l’indicazione che la Politica estera e di sicurezza comune è soggetta a norme e procedure specifiche. Questa previsione, nel confermare l’autonomia e la peculiarità della PESC rispetto alle altre politiche dell’Unione, solleva innanzitutto il problema di definire la natura della competenza in materia di politica estera in rapporto a quella degli Stati membri. In assenza di una chiara indicazione da parte del Trattato non è peraltro chiaro stabilire se la politica estera possa essere qualificata come una competenza di carattere concorrente (Van Elsuwege, P., EU External Action after the Collapse of the Pillar Structure: in Search of New Balance between Delimitation and Consistency, in CMLR, 2010, 991). Se si applicassero i criteri di ripartizione utilizzati nell’ambito delle competenze materiali, si dovrebbe concludere che tale esercizio di competenza concorrente è atto a ridurre in maniera corrispondente lo spazio normativo in cui gli Stati potrebbero intervenire. Questo effetto nell’ambito della PESC sembrerebbe tuttavia precluso (v. la Dichiarazioni n. 13 relativa alla politica estera e di sicurezza comune, allegata all’Atto finale della Conferenza intergovernativa che ha elaborato il Trattato di Lisbona, la quale esclude espressamente un’erosione della competenza statale in materia di politica estera in conseguenza di un corrispondente esercizio di competenza da parte delle istituzioni dell’Unione).
Più pertinente appare invece un’analogia con le competenze di carattere “parallelo”. Questa nozione, di origine dottrinale, identifica infatti una serie di settori di competenza che, pur assai eterogenei gli uni dagli altri, sono accomunati dal permanere in capo agli Stati di una competenza simmetrica a quella dell’Unione nonostante l’avvenuto esercizio di competenza da parte di quest’ultima. Poiché l’eventuale adozione di misure in materia di PESC non dovrebbe in principio precludere corrispondenti azioni da parte degli Stati membri, la PESC sarebbe dunque assimilabile ad una competenza di carattere parallelo (KEUKELEIRE, S.-MACNAUGHTAN, J., The Foreign Policy of the European Union, London, 2008, 101).
Il Trattato di Lisbona, nell’intento di razionalizzare il sistema delle fonti PESC, ha individuato nella decisione l’atto formale tipico che deve essere utilizzato nella definizione e attuazione della Politica estera e di sicurezza comune (v. art. 25 TUE). Gli strumenti dati rispettivamente dall’azione e posizione comune, che nel quadro normativo precedente a Lisbona si ponevano come strumenti tipici della PESC, sono recuperati al fine di definire il contenuto che contraddistingue le singole decisioni (Eeckhout, P., EU External Relations Law, Oxford, 2011, 469 ss.).
Una lettura congiunta degli artt. 24, par. 1, e 25 TUE porta ad escludere che la decisione possa assumere, in ambito PESC, il carattere di atto legislativo. Questa esclusione è presumibilmente una diretta conseguenza non solo del ruolo assai marginale assegnato al Parlamento europeo nell’ambito del processo decisionale, ma anche della volontà di sottrarre le attività normative poste in essere in ambito PESC a determinate regole in tema di trasparenza delle stesse e di rapporto con le prerogative dei Parlamenti nazionali.
L’art. 25 TUE fornisce, rispetto alla precedente formulazione, qualche indicazione più dettagliata in merito alla possibilità di determinare una gerarchia tra le fonti PESC. Esso infatti, stabilendo che l’Unione adotta decisioni «che definiscono le modalità di attuazione» delle decisioni che, a loro volta, definiscono le azioni da intraprendere e le posizioni da assumere, stabilisce implicitamente una relazione di carattere gerarchico tra le prime e le seconde. Altre indicazioni sono fornite dal combinato disposto degli artt. 26, par. 2, e 31, par. 2, TUE. È evidente, infatti, che un atto dovrà essere considerato sovraordinato ad un altro quando il secondo è emanato al fine di dare esecuzione al primo. Una decisione del Consiglio europeo relativa agli orientamenti generali e agli interessi e obiettivi strategici adottata ai sensi dell’art. 22, par. 1, o dell’art. 26, par. 1, TUE, dovrà pertanto essere considerata superiore rispetto ad una decisione adottata in sua attuazione. Di conseguenza, in applicazione del criterio gerarchico, in caso di contrasto tra due atti normativi dovrebbe sempre essere garantita la prevalenza a quello di rango superiore. In tutte le altre ipotesi, l’equiparazione gerarchica di due atti dovrebbe far sì che l’eventuale conflitto sia invece risolto sulla base del criterio cronologico. Non è invece chiaro se in relazione agli atti PESC trovino applicazione altri criteri di soluzione delle antinomie, come il criterio della specialità. In caso di contrasto tra una decisione PESC ed una dichiarazione del Consiglio o dell’Alto Rappresentante si dovrebbe preferire l’atto cui il Trattato riserva un riconoscimento formale.
Le “azioni” e “posizioni” dell’Unione possono essere considerate gli strumenti tipici della PESC. A differenza della precedente formulazione, il TUE, agli artt. 28 e 29, non fa più riferimento alla nozione di azione e posizione “comune”, preferendo ad essa quella di “azione dell’Unione” e “posizione dell’Unione”. Questa differente dicitura non sembra tuttavia idonea a determinare alcuna conseguenza sul piano sostanziale. Differenza ben più rilevante rispetto alla precedente formulazione è la previsione di un’unica tipologia di atto – la decisione – che si sostituisce sul piano formale alle azioni e posizioni comuni. La distinzione tra queste, come è stato osservato, è ora ripresa al fine di contraddistinguere il contenuto delle singole decisioni. Le decisioni che definiscono azioni e posizioni, oltre ad essere strumento di attuazione delle decisioni del Consiglio europeo relative agli interessi e obiettivi strategici dell’Unione ai sensi dell’art. 22, par. 2, e 26, par. 1, TUE (v. sub art. 31, par. 2), possono essere adottate anche in via autonoma: in tal caso, si utilizzano procedimenti decisionali differenti (vedi sub art. 31, par. 2, TUE).
Per quanto concerne le rispettive caratteristiche, il Trattato di Lisbona riafferma la distinzione formale, già operata dal Trattato di Amsterdam, tra la natura operativa delle azioni e il carattere più generico delle posizioni. Le azioni infatti hanno la funzione di affrontare situazioni specifiche che richiedono un’attività operativa dell’Unione. A tal fine, esse ne definiscono gli obiettivi, la portata, le condizioni di attuazione e, se necessaria, la durata, indicandone, inoltre, i mezzi che l’UE deve mettere a disposizione. Nella prassi, l’Unione ha utilizzato le azioni per affrontare specifiche questioni internazionali o per porre in essere concrete attività di supporto nei confronti di Paesi terzi, come, ad es., l’istituzione di missioni di consulenza e assistenza o di polizia e la nomina di rappresentanti speciali dell’Unione. Le posizioni esprimono invece l’atteggiamento dell’Unione «su una questione particolare di natura geografica o tematica». Conformemente alla nozione delineata all’art. 29 TUE, le decisioni relative alle posizioni sono utilizzate per definire obiettivi, priorità e strategie nei confronti di singoli Stati o aree geografiche. Questa ampia nozione ha consentito l’utilizzo dello strumento della posizione anche al fine di deliberare misure sanzionatorie nei confronti di Stati terzi e di persone fisiche e giuridiche.
Quanto all’efficacia delle decisioni che definiscono azioni e posizioni dell’Unione, è pacifico che esse vincolano gli Stati membri nella loro condotta, nel senso che, una volta adottate, ne limitano l’autonomia nella gestione delle rispettive politiche interne ed estere. La natura, in particolare, delle azioni come norme di condotta che richiedono, a prescindere dall’obbligo che di volta in volta stabiliscono, un comportamento conforme degli Stati è confermato dagli obblighi strumentali e dal regime di deroghe particolarmente stringenti (v. art. 28, parr. 1, 3, 4 e 8, TUE).
Sebbene il Trattato di Lisbona abbia contribuito a razionalizzare il sistema delle fonti PESC, l’enumerazione degli strumenti in esso contenuti non può essere considerata né completa né tantomeno tassativa. Ulteriori basi giuridiche sono infatti individuabili sulla base di specifiche disposizioni. Tra queste, l’art. 26, par. 2, TUE parrebbe attribuire al Consiglio una generale competenza ad adottare decisioni che risultino necessarie per la definizione e l’attuazione della PESC, mentre l’art. 32, par. 2, TUE («il Consiglio europeo o il Consiglio [definiscono] un approccio comune» in merito a qualsiasi questione di politica estera) sarebbe invece l’implicito fondamento giuridico delle numerose delibere informali che il Consiglio europeo e il Consiglio utilizzano nella definizione della PESC. La prassi ha infatti messo in luce l’utilizzo di strumenti che, pur non essendo espressamente codificati, sono costantemente utilizzati. Tra questi si possono annoverare le conclusioni del Consiglio dell’Unione e le dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o della Presidenza a nome dell’Unione europea. Si tratta sostanzialmente di atti che hanno una forte connotazione politica e che esprimono la posizione dell’Unione nei confronti di una particolare situazione internazionale o di uno Stato terzo. È chiaro che tali atti, pur non godendo di uno status formale, fanno parte integrante della PESC.
Il Trattato di Lisbona, innovando rispetto alla precedente formulazione, delinea un quadro unitario in cui collocare in maniera sistematica ciascuna istituzione coinvolta nella definizione ed attuazione della Politica estera e di sicurezza comune.
Nell’intento di operare una suddivisione di funzioni tra le due istituzioni intergovernative nell’ambito della PESC, il Trattato, innanzitutto, attribuisce al Consiglio europeo un ruolo chiave nella determinazione della Politica estera e di sicurezza comune conferendogli il potere di individuarne gli interessi strategici e di definirnegli obiettivi e gli orientamenti generali. Il Trattato di Lisbona, a differenza del Trattato di Amsterdam, non si limita tuttavia a consacrare il ruolo d’impulso e di indirizzo politico del Consiglio europeo, già previsto in termini generali dal Trattato di Maastricht, ma gli assegna una vera e propria competenza decisionale. Il Consiglio europeo, al pari del Consiglio, è infatti investito del potere di adottare decisioni. In tal modo, gli obiettivi, gli interessi strategici e gli orientamenti generali di Politica estera e sicurezza comune, che possono concernere anche questioni aventi implicazione in materia di difesa, possono essere formalizzate in un atto produttivo di effetti giuridici, qual è la decisione.
Al Consiglio dell’Unione, che è il principale organo decisionale, spetta l’attuazione della PESC. A tal fine l’art. 26 TUE gli attribuisce una competenza generale a prendere decisioni per definire e per dare concreta esecuzione alle linee strategiche e agli orientamenti definiti dal Consiglio europeo (art. 26, par. 2). Gli orientamenti ed interessi strategici costituiscono dunque il presupposto per l’adozione di qualunque decisione del Consiglio. Lo scopo della norma è presumibilmente quello di rafforzare la coerenza e l’efficacia dell’attività del Consiglio in ambito PESC, come si può ricavare esplicitamente dallo stesso art. 25, par. 2, co. 2, TUE. Non è tuttavia chiaro, invece, se gli orientamenti e gli obiettivi strategici costituiscano un presupposto giuridico per la valida adozione dell’atto PESC da parte del Consiglio o un mero presupposto di fatto, la cui assenza non potrebbe in ogni caso comprometterne la validità. Sotto questo profilo, se è ragionevole pensare che l’assenza di una decisione del Consiglio europeo in cui siano espressi gli orientamenti e obiettivi generali non sia idonea a precludere l’azione del Consiglio, una sua eventuale inosservanza potrebbe forse determinare problemi di compatibilità tra i due livelli decisionali.
L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR), che rappresenta una delle innovazioni più rilevanti nel complessivo quadro istituzionale PESC, viene nominato dal Consiglio europeo con l’accordo del presidente della Commissione. Già dalla procedura di nomina emerge il cd. doppio cappello di questa figura: l’AR è infatti strettamente collegato, da una parte, al Consiglio europeo, ai cui lavori è pienamente associato, dall’altra, alla Commissione, rivestendo contemporaneamente la qualità di vicepresidente della stessa ed essendo incaricato, al suo interno, del coordinamento dell’azione esterna dell’Unione. Tale doppia natura dell’AR ne fa una interessante figura di raccordo tra la dimensione intergovernativa e quella sovranazionale dell’azione esterna dell’UE, benché il suo ruolo individuale sia soprattutto legato alla PESC. Infatti, ai sensi dell’art. 18, par. 2, TUE l’AR guida la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione, contribuendo alla sua elaborazione ed attuazione in qualità di mandatario del Consiglio. All’AR è dunque assegnato, innanzitutto, un ruolo di impulso e di proposta nell’ambito decisionale PESC. A questo ruolo si affianca una generale funzione di dare attuazione alle decisioni adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio (artt. 26, par. 3 e 27, par. 1, TUE) e di rappresentare l’Unione per le materie PESC (par. 27, par. 2). In conseguenza di questa sua funzione, l’AR è tenuto a vigilare e assicurare l’unità, la coerenza e l’efficacia dell’azione dell’Unione (18, par. 4 e 26, par. 2).
Il procedimento decisionale si caratterizza per il ruolo marginale assegnato alla Commissione – che non svolge alcun ruolo d’iniziativa – e al Parlamento europeo – per il quale non è prevista alcuna forma di consultazione sulle decisioni del Consiglio e del Consiglio europeo. Per quanto concerne più specificamente la Commissione, il ruolo d’iniziativa originariamente attribuitole dall’ex art. 22 TUE è stato trasferito dal Trattato di Lisbona in capo all’AR il quale lo condivide con gli Stati membri. Alla Commissione è stato invece riservato il ruolo residuale di appoggiare,tutt’al più, le proposte dell’AR (v. art. 30, par. 1, TUE). Quanto al Parlamento europeo, non è prevista alcuna sua forma di consultazione nell’ambito dei procedimenti decisionali, con la sola eccezione della decisione che il Consiglio può adottare al fine di stabilire le procedure specifiche per garantire il rapido accesso agli stanziamenti del bilancio dell’Unione destinati al finanziamento urgente d’iniziative nel quadro della Politica estera e di sicurezza comune e, in particolare, al finanziamento di una missione dell’Unione (art. 41, par. 3, TUE). Di regola, il Parlamento europeo è unicamente consultato dall’AR «sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica estera e di sicurezza comune e della politica di sicurezza e di difesa comune» che lo informa dell’evoluzione di tali politiche.
Riguardo alla Corte di giustizia, oltre al controllo che essa può esercitare al fine di assicurare la separazione fra politiche materiali e politica estera dell’Unione (art. 40 TUE), il Trattato, colmando una grave lacuna, le ha attribuito anche la competenza a pronunciarsi sui ricorsi avverso gli atti PESC idonei ad interferire con posizioni soggettive individuali (v. art. 275 TFUE). Ad eccezione di questo limitato sindacato, il Trattato di Lisbona riafferma, in materia, l’incompetenza della Corte di giustizia. L’indicazione di fini vincolanti per le attività di politica estera è dunque indebolita dall’assenza di un controllo giurisdizionale diretto sul loro rispetto. Il controllo sul rispetto dei fini dell’art. 21, par. 2, lett. a), b) e c) appare quindi soprattutto di carattere politico e può essere attuato nei limiti consentiti dalle dinamiche istituzionali dell’Unione. Peraltro, ci si può chiedere se atti fondati sulle politiche materiali funzionali all’attuazione di misure di politica estera, ma che possiedano una autonoma base giuridica, possano essere sindacati quanto alla rispondenza di tali misure rispetto ai fini della Politica estera e di sicurezza comune.
Per quanto riguarda l’adozione degli atti, il potere decisionale è riservato esclusivamente al Consiglio e al Consiglio europeo che deliberano, nella generalità dei casi, all’unanimità. Un’attenuazione di questa regola è data dalla previsione dell’istituto dell’astensione costruttiva, grazie al quale uno Stato membro, senza impedire che una certa decisione impegni l’Unione, non è tuttavia obbligato ad applicarla. L’astensione costruttiva non corrisponde tuttavia ad una semplice esclusione di qualsiasi effetto di una certa decisione rispetto ad uno Stato membro, ma pone rispetto a quest’ultimo una sorta di obbligo in negativo di non adottare comportamenti atti a pregiudicarne l’applicazione o la realizzazione dei fini posti. Sotto altro profilo, l’astensione costruttiva se, da una parte, ha il merito di facilitare l’adozione di decisioni per le quali è prevista l’unanimità, dall’altro, ha l’inconveniente di creare una “differenziazione al ribasso” nell’applicazione interna delle misure PESC. Forse proprio al fine di limitare questa conseguenza, il ricorso all’astensione costruttiva è precluso allorché i membri del Consiglio che si avvalgono di quest’istituto «rappresentino almeno un terzo degli Stati membri che totalizzano almeno un terzo della popolazione dell’Unione» (art. 31, par. 1, co. 2, TUE).
Il voto a maggioranza qualificata, che è previsto in ipotesi tassativamente indicate, non appare tuttavia molto significativo se si considera che il suo utilizzo è generalmente previsto in corrispondenza di atti previamente adottati all’unanimità (v. art, 31, par. 2, primo e terzo trattino e art. 31, par. 3). Esso risulta senz’altro più significativo nelle rimanenti ipotesi. Tra queste, il voto a maggioranza qualificata è previsto quando il Consiglio «adotta una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione in base a una proposta dell’alto rappresentante». Proprio in relazione a quest’ultima ipotesi, è ragionevole pensare che la possibilità di utilizzare una modalità di voto meno gravosa rispetto all’unanimità possa essere da stimolo all’esercizio del potere d’iniziativa da parte dell’AR.
Per le questione procedurali è previsto, infine, che il Consiglio deliberi a maggioranza dei suoi membri. Resta ovviamente la difficoltà di definire cosa debba intendersi per questione procedurale.
L’art. 37 TUE si limita a sancire che «[L]’Unione può concludere accordi con uno o più Stati o organizzazioni internazionali nei settori [della PESC]». Il procedimento per la conclusione degli accordi è invece disciplinato all’art. 218 TFUE, norma che riflette, in linea di principio, il ruolo assegnato a ciascuna istituzione nell’ambito della procedura di formazione degli atti interni. Di conseguenza, coerentemente con la previsione che accentra nell’AR il potere d’iniziativa nell’ambito del procedimento decisionale interno, spetta a questo raccomandare l’apertura del negoziato allorché l’accordo previsto riguardi esclusivamente o principalmente la Politica estera e di sicurezza comune. Poiché il Consiglio, nell’autorizzare l’avvio dei negoziati, designa il negoziatore «in funzione della materia dell’accordo» è ragionevole altresì ritenere che l’AR sia anche il negoziatore di un accordo dal contenuto prevalente di politica estera.
Le esigenze di parallelismo tra il procedimento di conclusione degli accordi internazionali e la procedura di formazione di atti interni sembrano invece venir meno nella previsione, contenuta al par. 6, co. 2, dell’art. 218 TFUE, che impone la partecipazione del Parlamento – nella forma impegnativa dell’approvazione nei casi previsti dalla lett. a), ovvero della consultazione nei casi previsti dalla lett. b) – alla conclusione di accordi che non rilevano “esclusivamente” della politica estera. Questa disposizione dà dunque rilievo alla mera presenza di disposizioni che ricadono in altre politiche materiali, indipendentemente dal rilievo che ad esse spetta nel sistema dell’accordo. Mentre però appare ragionevole prevedere la partecipazione del Parlamento qualora tali clausole rilevino al medesimo titolo di quelle di carattere politico, sì da configurare un accordo che, nella fase antecedente al Trattato di Lisbona sarebbe stato definito come interpilier, la partecipazione del Parlamento appare meno comprensibile allorché tali clausole abbiano un ruolo meramente secondario, e tale da non intaccare quindi la prevalente caratterizzazione dell’accordo sul piano della politica estera. Sancendo che il Parlamento debba intervenire a meno che l’accordo non riguardi esclusivamente la politica estera, la partecipazione parlamentare viene dunque imposta anche rispetto ad accordi aventi un contenuto prevalente di politica estera, pur se, come è noto, nella formazione di atti interni di politica estera il ruolo parlamentare è assolutamente marginale (Bartoloni, M.E., Sulla partecipazione del Parlamento europeo alla formazione di accordi in materia di politica estera e di sicurezza comune, in Riv. dir. intern., 796 ss.). Questa anomalia è stata recentemente corretta dalla Corte di giustizia la quale ha indicato che, al fine di escludere il Parlamento dall’iter decisionale di un accordo, è sufficiente che questo si fondi «su una base giuridca sostanziale rientrante nell’ambito della PESC» (C. giust., 24.6.2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio, non ancora pubblicata in Racc.).
Quanto alla conclusione dell’accordo da parte del Consiglio, l’art. 218, par. 8, stabilisce, riaffermando così la regola del parallelismo, che questo delibera all’unanimità «quando l’accordo riguarda un settore per il quale è richiesta l’unanimità per l’adozione di un atto dell’Unione». Da questa disposizione si evince dunque che gli accordi PESC sono conclusi all’unanimità, in quanto all’unanimità sono deliberati gli atti interni. La disposizione lascia peraltro aperta la possibilità che il Consiglio europeo, utilizzando la possibilità offerta dall’art. 31, n. 3, TUE, estenda il voto a maggioranza qualificata all’adozione di decisioni di conclusione di accordi PESC o di alcuni di essi.
Il Trattato riafferma un generale dovere di cooperazione e di solidarietà tra gli Stati membri nella conduzione della propria politica estera al fine, in particolare, di non pregiudicare l’attuazione della politica estera dell’Unione.
A tal fine, il TUE sembra innanzitutto porre agli Stati un obbligo di adoperarsi allo scopo di favorire, nel quadro dei processi decisionali dell’Unione, la formazione di orientamenti comuni (v. art. 24, par. 3, TUE). Ai sensi del par. 1 dell’art. 24 TUE, gli Stati membri hanno infatti il dovere di informarsi e consultarsi in sede di Consiglio europeo e di Consiglio al fine di definire un approccio comune in relazione ad una qualsiasi questione di Politica estera e di sicurezza comune di interesse generale. C’è da ritenere che, nonostante la formulazione della norma, il dovere di cooperazione non operi solo nell’ambito del Consiglio o del Consiglio europeo. Questa interpretazione sembra d’altra parte confortata dall’art. 34, par. 1, TUE secondo cui gli Stati membri hanno l’obbligo di coordinare la propria attività anche nell’ambito delle organizzazioni e conferenze internazionali (Wessel, R.A., The European Union’s Foreign and Security Policy, The Hague, Boston, London, 1999, 103). L’unico effettivo limite all’obbligo d’informazione e di consultazione è costituito dalla natura delle operazioni rilevanti: gli Stati membri hanno infatti il dovere di informarsi e consultarsi reciprocamente nella misura in cui le questioni di Politica estera e di sicurezza siano considerate d’interesse generale. In tal modo, l’applicazione della norma è rimessa, in definitiva, alla discrezionalità degli Stati membri, fermo restando però l’obbligo generale di lealtà e solidarietà reciproca in base al quale gli Stati hanno il dovere di sostenere e rispettare «attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell’Unione» e di astenersi da «qualsiasi azione contraria agli interessi dell’Unione o tale da nuocere alla sua efficacia» (art. 24, par. 3, TUE).
Agli Stati membri incombe, in secondo luogo, il dovere di consultarsi in sede di Consiglio o di Consiglio europeo prima di intraprendere azioni o assumere obblighi sul piano internazionale idonei a ledere gli interessi dell’Unione. È di tutta evidenza che questa norma imponga agli Stati solo un obbligo di consultazione e non anche quello di conformarsi ad eventuali raccomandazioni che gli altri Stati membri adottassero al riguardo. Tuttavia, trattandosi di una norma che consente l’adozione di misure nazionali derogatorie potenzialmente lesive degli interessi dell’Unione sulla scena internazionale, essa deve essere interpretata, come tutte le disposizioni del genere, in senso restrittivo.
Titolo V, Capo 2, TUE; art. 218 TFUE; art. 275 TFUE.
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