politica e matematica
Se della politica si vuole sottolineare il carattere propulsivo che ha, o dovrebbe avere, nell’indirizzare la società verso il raggiungimento di determinati obiettivi, allora si può dire che i matematici (come del resto, tutti gli uomini di scienza) fanno sempre politica. A prescindere dalle loro convinzioni e dai loro orientamenti, svolgono un ruolo essenziale nella trasformazione della società con le ricadute culturali ed economiche del loro lavoro di ricerca. È un’osservazione che vale oggi ma che permette anche di ricordare comportamenti, situazioni e snodi di tempi lontani. Non ha forse fatto politica, in questo senso, Ipazia con lo “scandalo” di una donna che studiava e insegnava matematica e si proponeva come paladina della tolleranza e di un approccio razionalista alla conoscenza? Non ha forse fatto politica, in questo senso, Galileo per come ci ha insegnato a osservare la natura e per la rivoluzione che ha avviato nei rapporti tra fede e scienza? L’osservazione sul ruolo oggettivamente politico svolto dai matematici (e da tutti gli uomini di scienza) si allarga con molta naturalezza ai secoli e ai decenni più vicini a noi. Non ha forse avuto un carattere rivoluzionario – per quanto ha influito sulla nostra conoscenza, sulla tecnologia, sulle nostre abitudini di vita, sullo stesso sviluppo economico – il contributo fornito dagli uomini di scienza al grande mutamento socio-economico intervenuto nelle società occidentali negli ultimi decenni dell’Ottocento e basato su una conquista fisico-matematica quale la conoscenza dell’elettricità? E cosa dire, venendo in particolare all’Italia, di un uomo quale Guglielmo Marconi? E non ha fatto forse politica un matematico quale A. Turing che, con la sua macchina, ha dato il via a una trasformazione radicale nella quale siamo ancora immersi?
■ Scienza e società. In Italia, la riflessione sui rapporti tra scienza e società si è sviluppata con un certo ritardo per via dell’arretratezza del nostro sistema industriale e di una realtà politica che si è “sbloccata” solo con l’unificazione del paese. Il primo a porre in termini espliciti la questione del ruolo politico che gli scienziati oggettivamente ricoprono è stato il matematico V. Volterra. All’inizio del Novecento, soprattutto con la fondazione della sips (Società italiana per il progresso delle scienze) ha richiamato il mondo scientifico ad assumere maggiore consapevolezza di una funzione che non è solo tecnica o strumentale, sollecitando contemporaneamente i “palazzi” della politica ad accorgersi di una presenza, quale quella della scienza e dei suoi rappresentanti, a cui occorre in ogni epoca concedere spazio se si vuole che il paese intraprenda la via della modernità e regga la competizione con le nazioni più sviluppate. Gli interventi di Volterra in questa direzione sono principalmente raccolti nel volume Saggi scientifici pubblicato nel 1920. Sono gli anni in cui le sue idee, sia pure con alcuni adattamenti alla situazione creatasi con la prima guerra mondiale, portarono alla fondazione del cnr, di cui Volterra fu il primo presidente, nel triennio 1923-26, dedicato proprio a costituire uno snodo politico tra ricerca scientifica, tecnologica e apparato produttivo.
La matematica influenza la politica e, più in generale, la scienza influenza la società. Tra le due sfere sussistono comunque anche relazioni dirette in senso contrario. La stessa matematica, che è spesso percepita – e in un certo senso lo è – come la più astratta delle scienze, risente del contesto sociale in cui si sviluppa. Si dice che «2 + 2 fa sempre 4»: oggi e ieri, nei secoli vicini e in quelli più lontani rispetto ai nostri tempi; in Italia, come in Cina o in Argentina o in qualunque altro paese. Questo è senz’altro vero, ma non è vero che l’attività matematica si riduca sempre al calcolo. La centralità di una teoria matematica, piuttosto che di un’altra, e la scelta delle direzioni e degli obiettivi che la ricerca persegue sono funzione anche del periodo storico. L’aria e la cultura che in esso si respirano riescono persino a raggiungere e contaminare la matematica che, nella sua astrazione, appare invece impermeabile e indifferente a qualsiasi sollecitazione esterna.
■ Il ruolo dell’ideologia. La storia della matematica offre a questo proposito una mole impressionante di esempi. Si può dire in generale che per ogni concetto, definizione, teorema, lo studio del contesto storico nel quale sono stati formulati e si sono poi sviluppati offre indicazioni quanto mai interessanti sulla loro genesi e sul loro approfondimento. Ma, in alcuni momenti e in alcune particolari situazioni, che si presentano più spesso in regimi non democratici, la politica ha cercato di orientare la ricerca matematica in un senso più preciso. Si è accennato alla ricerca matematica dei primi anni Venti del Novecento, al periodo cioè in cui si sviluppò il lavoro matematico di Volterra e fu fondato il cnr. Proprio a partire da quegli anni, il fascismo ha progressivamente prestato un’attenzione nuova, rispetto al precedente periodo giolittiano, alla scienza, mirando non solo a incentivare le applicazioni della ricerca per fini militari ed economici ma anche a indirizzare le ricerche stesse verso modalità e obiettivi che avvertiva come più vicini alla sua ideologia.
D’altra parte, esperienze simili, nello stesso periodo storico, vengono vissute anche in Germania, con il nazismo, e nell’Unione Sovietica staliniana. Nella Germania hitleriana, il messaggio chiave inviato dalla politica è quello della razza e il riflesso sulle politiche culturali e scientifiche è quello della discriminazione su tale base. Ancor prima dei drammatici esiti a tutti noti, si tratta di messaggi che sono raccolti e rilanciati anche da eminenti studiosi. Si inizia a parlare di una “fisica ariana” e di una “fisica ebraica”, sintetizzata quest’ultima nella figura di Albert Einstein, e a operare una tale distinzione sono addirittura due Premi Nobel per la fisica quali Philipp Lenard (1862-1947) e Johannes Stark (1874-1957). Si parla anche di una “matematica ebraica”, che inventa concetti più o meno astrusi, in contrapposizione a una “matematica ariana” che scopre le leggi della natura nella loro concretezza. L. Bieberbach, altra figura tutt’altro che marginale di matematico, riprenderà la distinzione fra individui “di tipo S” e individui “di tipo J” introdotta dallo psicologo nazista Erich Rudolf Jaensch (1883-1940): mentre i primi considererebbero soltanto gli aspetti logici e formali (i matematici ebrei apparterrebbero a questo gruppo), i secondi cercherebbero di comprendere la realtà nella sua concretezza e in tutte le sue sfaccettature. In Unione Sovietica la parola chiave è “classe”: il principio della lotta di classe viene esteso ai contesti scientifici dove, nell’interesse degli ideali del proletariato, bisogna distruggere le catene ideologiche imposte dalla scienza borghese. Così, in documenti ufficiali, si arriva a sostenere che «nostro compito è quello di appropriarci di tutte le effettive acquisizioni della scienza della società capitalistica e di utilizzarle, ma è altresì quello di ricostruire le forme di organizzazione della scienza e di rielaborare il suo stesso contenuto sulla base della metodologia marxista-leninista». Lungi dal fermarsi al mondo filosofico e all’ambito delle prese di posizione pubbliche, le sollecitazioni provenienti dall’ideologia ufficiale del regime approdano in alcuni casi direttamente alla pratica scientifica. Il caso dell’agronomo ucraino Trofim D. Lysenko (1898-1976) è forse il più noto, ma converrà ricordare che a essere coinvolte non sono soltanto la genetica e la biologia. Il tentativo di costruire una scienza proletaria riguarda anche la fisica, con le polemiche contro la teoria della relatività e la meccanica quantistica, bersagliate come forme degenerative della cultura borghese, e la stessa matematica, con la presa di distanza dalla logica formale e da un formalismo che la ridurrebbe a un mero gioco di simboli privo di ogni riferimento alla realtà, nonché dall’invadenza dell’assiomatizzazione accusata di cancellare la storia e di presentare la matematica come una creazione che si realizza istantaneamente.
Anche l’Italia del fascismo respira a pieni polmoni, dopo la grande guerra, l’aria che pervade tutti i paesi occidentali, ai quali il conflitto ha fatto scoprire in termini nazionalistici l’utilità della scienza. Assorbendo questo sentire comune, il regime finisce per impossessarsene rilanciandolo con la retorica che gli è propria e con qualche sottolineatura in più. La consapevolezza maturata nel clima della guerra si traduce presto nella convinzione che la scienza debba essere soprattutto pratica, utile, adatta a risolvere i problemi contingenti del paese. Di slittamento in slittamento, si arriva così alla decisione di privilegiare le indagini che prevedono un’applicazione immediata e di dedicare minori attenzioni alla ricerca pura. «Come ministro della guerra, della marina, dell’aviazione – dichiara Mussolini – ho molto bisogno della scienza. Bisogna che la scienza mi dica se ci sono dei gas ultravenefici, e soprattutto che cosa si deve fare per combattere gli altri gas». La risposta di Marconi, nel frattempo succeduto a Volterra alla guida del cnr, è perfettamente in linea con le indicazioni ricevute: «Bisogna precisare che noi non possiamo incoraggiare le artificiali ricerche scientifiche ai fini generici del progresso del sapere, perché sapere è potere». L’asse portante è dunque quello che privilegia una scienza concreta e utile, al punto che M. Picone, uno dei più importanti matematici della prima metà del Novecento, arriva a identificare la matematica applicata con la vera matematica fascista: «A ogni doloroso disastro aereo, il costruttore domanda ansiosamente al calcolatore: è forse possibile che questa o quella sollecitazione abbia potuto amplificare oltre i limiti consentiti le oscillazioni d’ala? Noi matematici abbiamo il dovere di conquistare la possibilità di rispondere con sicurezza a tale domanda. Questa è matematica fascista». Questi i contesti e i loro riflessi. Eppure permane a tutt’oggi il luogo comune che vede il pensiero matematico svilupparsi nel vuoto, completamente avulso da qualsiasi contesto politico e sociale; non solo, ma si estende in modo quasi spontaneo a chi la matematica studia e crea. Presenta così i matematici come indifferenti rispetto a ciò che vive attorno a loro, frequentatori del mondo delle idee e delle verità eterne del calcolo e della deduzione, fondamentalmente insensibili alle passioni politiche.
■ Il matematico “engagé”. Ma, al di là del luogo comune, è invece possibile dare una descrizione sociologica dell’approccio dei matematici alla politica e indicare la parte e i partiti con cui prevalentemente si schierano? La verità è che i matematici non sono “animali” particolarmente strani. Semmai, nel loro orientamento, riflettono opzioni tipiche di ogni comunità intellettuale. Come tali, prediligono forse posizioni progressiste: quelle di chi vede le criticità della situazione a lui contemporanea, crede che un cambiamento sia possibile e in taluni casi si impegna perché si realizzi.
Tuttavia, all’interno del mondo matematico, come mostra la storia della disciplina, le scelte sono diversificate. C’è chi non si fa coinvolgere dalle pulsioni sociali, e auspica una vita solitaria e tranquilla per favorire la sua concentrazione nello studio, e c’è chi partecipa all’agone politico, sostenendo posizioni e magari battendosi per un’idea. Hanno partecipato alle vicende della rivoluzione francese e della Francia bonapartista grandi matematici come L. Carnot, generale repubblicano nel 1792, che si meritò il nome di “organizzatore della vittoria” e poi ministro della guerra sotto Napoleone, o come J. Lagrange, P.-S. Laplace, ministro degli interni sotto Napoleone e poi senatore, o ancora G. Monge, che fu tra i fondatori dell’École normale supérieure e dell’École polytechnique. Hanno partecipato all’epopea del risorgimento italiano – non solo difendendo le idee liberali, ma prendendo parte a una serie di azioni militari – matematici quali A. Genocchi, che aveva aderito nel 1848 ai moti rivoluzionari di Piacenza, entrando a far parte del governo provvisorio della città, F. Brioschi, catturato dalle truppe austriache durante le cinque giornate di Milano, E. Betti, che nel maggio dello stesso 1848 prese parte alla battaglia di Curtatone e Montanara, L. Cremona, fondatore della scuola italiana di geometria algebrica, che nel corso della prima guerra di indipendenza intervenne nella difesa della Repubblica di Venezia.
Ci sono stati combattenti rivoluzionari, ma ci sono stati anche i conservatori. L’esempio forse più famoso è quello di A.-L. Cauchy: rivoluzionario in matematica – le sue idee hanno cambiato nei primi decenni dell’Ottocento il corso dell’analisi – difese in politica posizioni conservatrici, se non proprio reazionarie. Fervente cattolico, fu monarchico e aperto sostenitore dei Borbone; quando nel 1830 la rivoluzione di luglio detronizzò Carlo x e Luigi Filippo divenne re di Francia, si rifiutò di giurare fedeltà alla nuova monarchia e si autosospese dalla docenza all’École polytechinque per trasferirsi a Torino dove tenne dei corsi di latino e di italiano. Ritornò a Parigi nel 1838, ma solo per insegnare in alcuni istituti religiosi fino a quando il governo, uscito dalla rivoluzione del 1848, non decise di abolire il giuramento di fedeltà.
La stessa varietà di atteggiamenti si registra nella storia della matematica del Novecento. C’è chi ha scelto la parte che la storia giudicherà sbagliata, come quei 93 uomini di cultura tedeschi – tra i matematici spicca il nome di F. Klein – che nell’ottobre 1914 firmarono il cosiddetto “Manifesto Fulda”, promosso dallo scrittore Ludwig Fulda (1862-1939), in cui difendevano con forza le ragioni del proprio paese e l’invasione del Belgio, negando qualunque atrocità e giungendo a sostenere che il militarismo fosse funzionale alla conservazione della civiltà e della cultura tedesca, valutando queste ultime talmente superiori da attribuire alla Germania il diritto-dovere di intervenire ovunque per imporre il proprio ordine. C’è chi si è schierato con il nazismo, come il già citato Bieberbach, e in Italia con il fascismo, come Picone, cui si è già accennato. Ci sono stati conservatori, moderati – Volterra fu intransigente sulle questioni etiche ma nel complesso le sue posizioni politiche possono essere definite moderate – e matematici invece orientati a sinistra. In Italia, G. Peano era vicino agli ideali socialisti; T. Levi-Civita si è sempre professato socialista e pacifista, R. Caccioppoli, pur non essendosi mai iscritto al partito, era particolarmente vicino a Napoli al Partito comunista. Ci sono stati anche matematici che hanno militato sia a sinistra che a destra, anche se in momenti diversi, che insomma hanno “cambiato bandiera”. Sempre con riferimento alla matematica italiana, l’esempio più clamoroso è dato da F. Severi, uno dei “grandi” della geometria algebrica, che era un convinto socialista all’inizio del secolo, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, e ancora nella prima metà degli anni Venti, e poi si convertì abbastanza rapidamente al potere del fascismo e al fascino … dell’Accademia d’Italia.
■ Il Novecento. Il maggiore o minore impegno politico dei matematici, come di ogni altra comunità intellettuale, dipende naturalmente anche dal tempo: latitante in certi periodi, esplode in altri. Il Novecento è stato in generale un secolo che, con le sue tragedie, ha spesso chiamato anche i matematici a un forte e dichiarato impegno. Si sono già ricordati alcuni episodi legati alla prima guerra mondiale e al nazi-fascismo; ma l’impegno di taluni matematici è continuato, forte, anche nei primi decenni seguiti alla conclusione della seconda guerra mondiale. È forse la Francia, nel quadro della teorizzazione della figura dell’intellettuale impegnato, il paese che offre gli esempi più numerosi, anche se non si possono del tutto dimenticare la reazione suscitata dalla guerra del Vietnam e la lotta per il ripristino dei diritti civili repressi nell’Unione Sovietica.
In Francia emerge il nome di L. Schwartz, Medaglia Fields nel 1950, militante trozkista già negli anni Trenta. Quando nel 1954 l’Algeria, colonia francese, inizia la sua lotta per l’indipendenza al pari di molti altri paesi del cosiddetto Terzo mondo, Schwartz non ha dubbi: con una scelta che nella sinistra francese non era del tutto scontata, si schiera a favore dell’autodeterminazione del popolo algerino. Il suo impegno diventa particolarmente visibile quando scoppia «l’affaire Audin», così detto dal nome di Maurice Audin, giovane francese, comunista, studente di matematica, arrestato ad Algeri nel giugno 1957 dai paracadutisti francesi, torturato e picchiato a morte senza che le autorità abbiano mai chiarito cosa fosse realmente successo. È allora che Schwartz decide di fare sostenere al giovane la tesi in absentia presso la Facoltà di scienze di Parigi con una decisione che suscita un vero e proprio choc nell’opinione pubblica. Non solo, ma firma con altri un appello ai giovani francesi per un atto di insubordinazione, affinché disertino e si rifiutino di partecipare alla guerra di Algeria. Le conseguenze non si fanno attendere. Viene sospeso dall’insegnamento presso l’École polytechnique. Inoltre, nel febbraio 1962 suo figlio Marc André, di nemmeno vent’anni, viene prelevato da un commando di “patrioti” francesi e liberato solo dopo due giorni di prigionia; per il ragazzo è un colpo terribile da cui non si riprenderà più e nel 1971, dopo vari tentativi falliti, riuscirà nel suo intento suicida, sparandosi alla tempia. Schwartz sarà poi impegnato anche nel Tribunale Russell, iniziativa internazionale in cui l’impegno del grande logico-matematico per la persecuzione dei crimini di guerra e la tutela dei diritti umani rimane, anche nella stessa denominazione, come paradigma di un rapporto tra rigore scientifico e ricerca del fondamento dell’agire democratico. Ma, l’impegno politico serpeggia in tutto quell’ambiente: per esempio R. Godement, uno dei più brillanti esponenti del movimento bourbakista, chiude nel 1966 l’introduzione del suo Cours d’algèbre – un classico manuale di matematica – ricordando la difficoltà dei rapporti con i paesi del Terzo mondo ai giovani «certo non responsabili delle centinaia di migliaia di cadaveri che invece gravano sulla coscienza dei loro padri» ma che comunque «rischiano di cadere nelle grinfie del nazionalismo, del razzismo e della xenofobia».