Politica e letteratura
L'idea che la letteratura potesse cambiare il mondo, trasformarsi in un'azione in grado di sortire effetti storici e determinare un'assunzione di responsabilità sociale e politica, auspicata, tra gli altri, da J.-P. Sartre nel primo numero (1945) della rivista Les temps moderns, già all'inizio degli anni Sessanta del 20° sec. si rivelava un sogno. La cui fine veniva in qualche modo sancita dallo stesso Sartre con la frase "Un romanzo come La nausea, davanti a un bambino che muore di fame, non serve a nulla?", pronunciata in un'intervista rilasciata a Le monde.
Un sogno, quindi, lungo poco più di quindici anni, ma così intenso che il suo attuale oblio non può che apparire il sintomo di una forzata rimozione. Se infatti, come ha osservato lo scrittore peruviano M. Vargas Llosa (candidato alla presidenza del suo Paese nel 1990), in quegli anni "sarebbe stato impossibile concepire una letteratura che voltasse completamente le spalle alla politica", il disimpegno dell'intellettuale appare ormai dilagante e quasi protervo, a volte ideologico almeno quanto l'atteggiamento della maggior parte degli scrittori del dopoguerra, e sembra ispirarsi con rinnovata energia a La trahison des clercs (1927) con cui il letterato e polemista francese J. Benda difese il ruolo tradizionale dell'arte e della cultura come custodi di valori privi di implicazioni politiche.
In effetti, tanto l'impegno oltranzista quanto l'aureo isolamento rappresentano, per uno scrittore, posizioni schematiche e poco credibili: pensare che la letteratura possa influenzare un sistema politico, infatti, costituisce un'illusione almeno quanto ritenerla un mondo a parte. Al contrario, è lo scrittore - in quanto più o meno consapevole espressione politica del proprio tempo - a risentire profondamente del clima ideologico che lo circonda.
Ecco quindi che in una fase storica di contrapposizioni radicali, come furono gli anni centrali del 20° sec., anche l'universo letterario assorbì le istanze politiche e prese posizione. Nel corso del Novecento, per es., si distribuì lungo posizioni moderate o riformiste, come furono quelle degli scrittori cattolici F. Mauriac e G. Greene; coniugò la rivoluzione socialista con l'esistenzialismo, come tentarono di fare A. Camus, Sartre, A. Moravia, o con il cristianesimo, come vagheggiò I. Silone; si scagliò contro ogni forma di totalitarismo, come fece G. Orwell in satire brillanti e dolorose; progettò una sociologia marxista della letteratura, come, attraverso la figura dell''intellettuale organico', teorizzò A. Gramsci nei suoi Quaderni (alla cui stesura lavorò dal 1929 al 1935).
Sono i fermenti politici, quindi, a influenzare lo scrittore, molto più che viceversa. Lo inducono a prendere posizione, ma anche a cercarsene una tutta propria, dalla quale esercitare un'azione di dissenso. È il caso, per es., di A.I. Solženicyn in Russia, ma anche di tutti gli autori latino-americani che, nell'epoca peggiore delle dittature militari, trovarono nella vocazione letteraria uno strumento di resistenza all'ingiustizia, pagando in molti casi con la vita (come accadde al poeta argentino F. Urondo, 1930-1976, o a quello guatemalteco O.R. Castillo, 1936-1967) la propria protesta.
Tuttavia, nel momento in cui, dopo il crollo del muro di Berlino e dei regimi dell'Est, l'ideologia politica entrò in crisi, anche la letteratura ripiegò su sé stessa, cercando nella sfera del privato e dell'individuo gli stimoli alla propria creatività. Nell'opinione comune la politica divenne inganno, ambizione, malaffare, e come tale anche lo scrittore finì con il percepirla, ignorandola apertamente o limitandosi a una critica arguta ma individuale, priva di intenti programmatici, come avviene nei romanzi antithatcheriani degli inglesi J. Coe (n. 1961) e N. Hornby (n. 1957).
Tra gli anni Ottanta e Novanta si è assistito così a una fioritura di opere minimaliste o votate, attraverso linguaggi diversi (il cosiddetto pulp da una parte, una letteratura consolatoria e 'sapienziale' dall'altra), a una certa acquiescenza civile. Inoltre il romanzo di genere (giallo e poliziesco, soprattutto) da fenomeno di nicchia è diventato oggetto di consumo, ribadendo l'inclinazione del periodo indirizzata verso una letteratura d'evasione.
Tuttavia, se da una parte è incontestabile che il clima politico influenzi quello letterario (molto più che il contrario), sarebbe riduttivo limitare la relazione tra p. e l. a una forma di retaggio. Come ha giustamente osservato il critico A. Berardinelli, "un interessante scrittore politico in realtà si occupa più di società che di politica. Il problema della politica italiana è che spesso si fa cogliere di sorpresa dai mutamenti sociali. I partiti non hanno tempo per capire il mondo: devono restare a galla e questo esaurisce tutte le loro energie". Ecco quindi che la dialettica tra lo scrittore e la politica si schiude a una nuova prospettiva, attraverso la quale la posizione dell'intellettuale può ribaltarsi, trasformandosi da più o meno ascoltato portavoce delle istanze politiche già in atto a profetico anticipatore dei fermenti sociali che sono alla base del cambiamento politico. Prospettiva nuova ma, nello stesso tempo, antica ed enormemente impegnativa, dal momento che, volgendosi indietro, sembra rimandare direttamente ad alcuni dei maggiori scrittori europei dell'Ottocento, come Ch.J.H. Dickens, H. de Balzac ed É. Zola, o allo stesso G. Flaubert (che pure considerava l'esercizio della politica inconciliabile con l'estetica letteraria). La sua Madame Bovary (pubblicata dapprima a puntate dal 1851 al 1856 sulla Revue de Paris, poi in volume nel 1857) assurge a capolavoro proprio nel farsi scomodo emblema di una collettività in movimento, per quanto ancora così in ritardo nella percezione dei suoi cambiamenti da processare come scandalosa l'immagine di una donna che la rappresenta perfettamente.
È proprio attraverso questa funzione anticipatrice che lo scrittore può riappropriarsi non soltanto della sua prerogativa di 'intellettuale scomodo', ma anche sanare tutte le contraddizioni che, nell'entrare in contatto con la politica, verrebbero a gravare sull'esercizio della propria scrittura. Le enumera Vargas Llosa nel saggio Literatura y política (2001): "La letteratura non può in nessun caso essere confinata all'interno dell'attualità. Una letteratura che dipende dal presente, dall'hic et nunc, è effimera e perisce rapidamente insieme a quella cosa veloce e transitoria che è l'attualità […]. La politica, invece, è l'hic et nunc […]. La politica si misura principalmente attraverso i suoi risultati pratici; la letteratura no, perché anche se chi legge e gode nel farlo è sicuro che ogni opera letteraria influenzi in modo concreto la sua esistenza, non ha modo di dimostrarlo […]. La letteratura è un'attività che nasce dalla solitudine, per mezzo di un individuo che per produrla si apparta dagli altri. Il genere di individualità che sottende alla creazione letteraria in politica non esiste perché questha bisogno della pluralità sociale" (trad. it. 2005)
Lo scrittore, dunque, difficilmente riuscirà a influenzare i cambiamenti politici. E tuttavia potrà rivendicare la sua natura sociale attraverso quel particolare talento che gli consente non solo di tracciare storie e personaggi esemplari del proprio tempo, ma anche di intuire i cambiamenti che le ideologie correnti e le strategie partitiche sono sul punto di produrre nel mondo contemporaneo. Esemplari in questo senso, nella cultura italiana del secondo Novecento, le figure di L. Sciascia e, soprattutto, di P.P. Pasolini, il quale seppe trasformare la propria analisi sociopolitica del Paese in una visione del futuro e, nello stesso tempo, in una originalissima poetica.
Attualmente, forse proprio perché l'intellettuale si nutre dei fermenti che lo circondano, le uniche voci in grado di esercitare questa funzione - che è insieme ricerca estetica, denuncia civile e profezia politica - sembrano provenire dai luoghi più inquieti del mondo. In Israele A. Oz (n. 1939), A. Yehoshua (n. 1936), D. Grossman (n. 1954), S. Horn (n. 1951) hanno assunto posizione rispetto al conflitto arabo-israeliano, raccontandone le paure quotidiane e nello stesso tempo immaginando sviluppi e soluzioni. In Africa, contro le dittature e le violenze di regime, si sono battuti la sudafricana N. Gordimer (n. 1923; nel 1991 è stata insignita del premio Nobel per l'impegno civile dimostrato contro la politica razzista del suo Paese), il camerunense M. Beti (pseud. di A. Bifidi, nato nel 1932 e scomparso nel 2001 dopo aver vissuto in esilio per più di trent'anni, fondatore a Yaoundé della Librairie des peuples noirs), l'ivoriano A. Kourouma (1927-2003; già presidente della Commissione di riconciliazione della Costa d'Avorio e autore di Allah n'est pas obligé, 2000, trad. it. 2002, satira tra le più feroci dell'Africa contemporanea). Un altro premio Nobel, il cinese Gao Xingjian, è esule politico in Francia dal 1988, dopo essere stato dichiarato 'persona non gradita' dalle autorità di Pechino.
Di fronte a questi casi, il dissenso della cultura occidentale appare più che altro un tiepido impaccio. Se tutto questo si debba ai benefici effetti della democrazia e della libertà di espressione, a un calo di attenzione da parte degli intellettuali, o ancora alla distrazione di chi dovrebbe raccogliere e amplificare le loro voci, è questione destinata a rimanere aperta.
bibliografia
M. Walzer, The company of critics: social criticism and political commitment in the twentieth century, New York 1988 (trad. it. L'intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Bologna 1991).
A. Berardinelli, L'eroe che pensa. Disavventure dell'impegno, Torino 1997.
B.-H. Levy, Le siècle de Sartre: enquête philosophique, Paris 2000 (trad. it. Il secolo di Sartre. L'uomo, il pensiero, l'impegno, Milano 2004).
A. Berardinelli, Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa, Roma 2001.
M. Vargas Llosa, Literatura y política, México 2001 (trad. it. Firenze 2005).