politica di bilancio
Manovra adottata dall’operatore pubblico che prevede l’uso del bilancio quale strumento per raggiungere obiettivi di stabilità (➔ anche politica di stabilizzazione) o di sviluppo economico (➔ politiche per la crescita; politica fiscale). Nel dibattito sulle p. di b. da attuare, il problema centrale è quello di stabilire se sia valido giustificare l’esistenza di un possibile squilibrio tra spese ed entrate tributarie (disavanzo pubblico, ➔ deficit pubblico) in funzione delle condizioni congiunturali e strutturali del sistema economico.
Secondo alcune teorie basate sulla visione della finanza neutrale propria degli economisti classici, le manovre di bilancio devono assicurare l’equilibrio tra spese ed entrate (teoria del pareggio) per evitare che l’attività finanziaria dello Stato influenzi il sistema economico. Il disavanzo è tollerabile solo in circostanze eccezionali (guerre, calamità ecc.), mentre l’avanzo non è ammissibile, in quanto si sottrarrebbe ricchezza ai privati prelevando risorse senza un corrispondente impiego. Pur se non realizzabile anno per anno, l’equilibrio tra spese ed entrate può essere raggiunto annualmente per la parte corrente (ossia per la parte relativa al funzionamento degli organi pubblici e alla fornitura dei servizi istituzionali) e nel lungo periodo per la parte in conto capitale, ossia per la quota che riguarda gli investimenti (teoria del doppio bilancio). Oppure l’equilibrio tra entrate e uscite può derivare della compensazione fra avanzi e disavanzi congiunturali (teoria del bilancio ciclico). Il bilancio non deve rispettare i vincoli di pareggio ogni anno; è sufficiente che questo si consegua alla fine di un ciclo economico, ammettendo così la possibilità che il bilancio possa essere in qualche momento del ciclo in disavanzo: i deficit registrati nelle fasi di depressione sono compensati dagli avanzi delle fasi di espansione.
Altre teorie sulla finanza pubblica, invece, abbandonano del tutto il principio del pareggio, considerano il bilancio esclusivamente come uno strumento di intervento in funzione dell’equilibrio economico generale: si tratta delle teorie del bilancio funzionale e del bilancio di piena occupazione. Secondo la teoria della finanza funzionale, di ispirazione keynesiana, il bilancio pubblico (➔) ha una funzione anticiclica, cioè attenua le fluttuazioni del sistema economico e deve essere utilizzato per espandere la domanda aggregata (➔) oppure per ridurla, secondo gli obiettivi di politica economica. La teoria del bilancio di pieno impiego, formulata e applicata negli Stati Uniti a partire dagli anni 1960 durante i governi di J.F. Kennedy e L.B. Johnson, costituisce una specificazione del concetto di bilancio funzionale. Il deficit di bilancio viene considerato un mezzo per favorire la piena occupazione quando i fattori produttivi disponibili non vengano pienamente utilizzati e la produzione complessiva risulti inferiore a quella di pieno impiego. In questi casi l’operatore pubblico, per sostenere la domanda, può finanziare una maggiore spesa in deficit senza dover ricorrere al prelievo di imposte (che ridurrebbero le capacità di acquisto dei contribuenti e quindi la domanda). Con questa manovra lo Stato rimette in circolazione nel sistema economico la quota di risparmio non investito dai privati, creando una domanda aggiuntiva rispetto a quella già esistente; l’espansione della domanda dovrebbe stimolare le iniziative economiche e attraverso il meccanismo del moltiplicatore (➔), favorire un aumento della produzione, fino a giungere alla piena occupazione.
Le teorie fondate sul disavanzo come strumento di politica economica possono condurre a deficit molto elevati, che si autoalimentano a causa dell’onere degli interessi, creando problemi di sostenibilità. Esse possono costituire misure transitorie in periodi di recessione e avere effetti positivi solo se nel sistema economico esistano risorse inutilizzate, altrimenti rischiano di innescare spinte inflazionistiche. Per es., in diversi Paesi, tra cui l’Italia, l’errata applicazione delle p. di b. di ispirazione keynesiana ha prodotto negli ultimi decenni una crescita esponenziale del debito pubblico (➔ p), obbligando i governi a porsi come obiettivo il rientro, imposto anche dal Trattato di Maastricht. In linea con questa nuova esigenza, sono state rivalutate teorie che, contrarie al deficit spending, cercano di conciliare le esigenze dell’equilibrio finanziario con quelle della politica economica. Tra queste, la teoria della stabilizzazione con il bilancio in pareggio, formulata dall’economista norvegese T. Haavelmo (➔), afferma la possibilità di effettuare una politica congiunturale a sostegno della domanda mantenendo il bilancio in pareggio attraverso il meccanismo del moltiplicatore: infatti, un incremento di spesa pubblica in valore aggiunto accresce il PIL più di quanto lo deprima un identico aumento delle imposte (atto a mantenere in pareggio entrate e uscite pubbliche), sicchè la spesa pubblica addizionale finanziata in pareggio provoca un aumento del reddito pari a essa. Ciò significa che non è necessario ricorrere all’indebitamento per ottenere un aumento del PIL.