Abstract
La politica commerciale comune è una delle fondamentali politiche poste in essere dall’Unione europea nell’esercizio della sua azione esterna. Essa è espressione di una competenza esclusiva dell’Unione. La politica commerciale viene qui esaminata alla luce di una esegesi delle principali norme del Trattato sul funzionamento dell’UE che la disciplinano.
La politica commerciale comune è una delle competenze esclusive dell’UE (art. 3, par. 1, lett. e), TFUE). Essa è uno degli aspetti esterni della creazione dell’unione doganale e i sui obiettivi sono di contribuire nell'interesse comune allo sviluppo armonioso del commercio mondiale, alla graduale soppressione delle restrizioni agli scambi internazionali e agli investimenti esteri diretti, e alla riduzione delle barriere doganali e di altro tipo (art. 206 TFUE). Inoltre, si deve sottolineare come le norme relative alla politica commerciale comune vengano inserite nella parte V del TFUE, relativa all’azione esterna dell’UE. In tal senso, la politica commerciale, come ribadito dall’art. 207, par. 1, TFUE, deve essere condotta nel quadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna (sul punto, v. art. 205 TFUE, il quale rinvia all’art. 21 TUE).
Le norme fondamentali per la realizzazione e il funzionamento della politica commerciale comune sono dettate dall’art. 207 TFUE. Peraltro, si deve sottolineare che tale norma non è la sola che consente all’UE di adottare misure aventi effetti sui rapporti commerciali. Queste ultime possono essere adottate nel contesto di un accordo di associazione, ai sensi dell’art. 217 (sul punto, v. anche sub art. 208, cooperazione allo sviluppo, e art. 212, cooperazione economica, finanziaria e tecnica), o nel contesto di un’azione dell’UE tesa ad interrompere o ridurre le relazioni economiche con Stati terzi, secondo quanto stabilito dall’art. 215 sulle misure restrittive.
La nozione di politica commerciale è definita in maniera ampia nell’art. 207, par. 1, TFUE. Essa comprende le modificazioni tariffarie, la conclusione di accordi tariffari e commerciali relativi agli scambi di merci e servizi, e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, gli investimenti esteri diretti, l’uniformazione delle misure di liberalizzazione, la politica di esportazione e le misure di protezione commerciale, tra cui quelle da adottarsi nei casi di dumping e di sovvenzioni. Tuttavia, come emerge dal tenore della norma, la lista delle materie elencate in essa non è esaustiva (v. anche C. giust., 4.10.1979, parere 1/78). La giurisprudenza della Corte di giustizia ha avuto modo di ampliare, in più occasioni, i termini della nozione di politica commerciale. Nel parere 1/75 relativo alla competenza dell’UE a concludere un accordo sulle spese locali nell’ambito dell’OCSE (C. giust., 11.11.1975, parere 1/75), la Corte ha adottato una nozione di tipo funzionale, ed ha evidenziato il rilievo che la disciplina del credito all’esportazione assume nell’ambito della disciplina del commercio con Stati terzi. La Corte ha poi stabilito che provvedimenti di carattere commerciale possono essere adottati indifferentemente con misure interne o con accordi, e che tali provvedimenti possono indifferentemente avere il carattere di norme generali o di norme specifiche.
Un ulteriore contributo alla dilatazione della nozione di politica commerciale è venuto dall’adozione di un metodo interpretativo di tipo evolutivo. L’adozione di tale metodo ha portato la Corte, nel parere 1/78, ad ammettere la competenza dell’UE a concludere un accordo per la gomma naturale negoziato nell’ambito dell’UNCTAD, il quale conteneva, oltre a disposizioni relative al commercio della materia prima, anche una serie di altre disposizioni miranti ad agevolare la posizione commerciale dei Paesi in via di sviluppo attraverso una stabilizzazione del prezzo della materia prima sul mercato mondiale. Dopo aver affermato che “la politica commerciale comune non potrebbe essere condotta efficacemente se [l’UE] non disponesse pure dei mezzi d’azione più elaborati usati per lo sviluppo del commercio internazionale”, la Corte ha concluso che «[n]on si può dare all’art. [207] del Trattato un’interpretazione il cui effetto sia quello di limitare la politica commerciale comune all’impiego degli strumenti destinati ad incidere unicamente sugli aspetti tradizionali del commercio estero, ad esclusione dei congegni più complessi del genere di quelli dell’accordo in progetto. Una “politica commerciale” così intesa sarebbe destinata a diventare gradualmente inoperante». Il carattere commerciale dell’accordo non sarebbe escluso neanche dalla presenza di clausole non rientranti materialmente nell’ambito commerciale, ma strettamente connesse, in via funzionale, all’oggetto dell’accordo, dato che «la qualificazione dell’accordo […] va fatta in considerazione dello scopo essenziale di questo, non già in funzione di clausole particolari, di carattere in ultima analisi accessorio od ausiliario».
Tuttavia, se il carattere funzionale della nozione consente l’estensione della competenza dell’UE a clausole strettamente connesse all’oggetto commerciale di una misura, ancorché fuori dal campo della politica commerciale in senso proprio, esso non potrebbe giustificare una interferenza rispetto ad altre competenze dell’UE ovvero rispetto a competenze degli Stati membri. La differenza fra le due ipotesi, invero di carattere quantitativo, ha assunto rilievo centrale nel parere 1/94, concernente il problema della competenza dell’UE a concludere l’accordo istitutivo dell’OMC (C. giust. 15.11.1994, parere 1/94). Dopo aver indicato che il carattere evolutivo della nozione di politica commerciale «impedisce di escludere a priori il commercio dei servizi dalla sfera di applicazione dell’art. [207]», tuttavia, la Corte ha distinto le forniture transfrontaliere da altre modalità di fornitura, in particolare da quelle che implicano trasferimento o stabilimento di persone fisiche. Dato che il trasferimento di persone da e verso paesi terzi è oggetto di una competenza che assume nel Trattato rilievo autonomo, la disciplina relativa fuoriesce dalla nozione di politica commerciale, indipendentemente dal fatto che tale competenza sia assegnata all’UE ovvero agli Stati. Una argomentazione analoga ha quindi consentito di escludere che le disposizioni relative alla tutela della proprietà intellettuale contenute nell’accordo TRIPS, allegato all’accordo istitutivo dell’OMC, ricadessero per attrazione nell’ambito della politica commerciale. La Corte ha invero riconosciuto che solo una parte di tale disciplina, concernente le misure intese ad evitare l’immissione in libera pratica di merci contraffatte sia riconnessa funzionalmente alla disciplina delle merci e attratta quindi nella sfera di applicazione dell’art. 113 TCE (versione di Maastricht).
L’esigenza diffusamente avvertita di una estensione della disciplina relativa alla politica commerciale anche ai nuovi settori del commercio dei servizi e della proprietà intellettuale è stata prima consacrata nell’art. 133, par. 5, TCE (versione di Amsterdam) e successivamente nell’art. 133, paragrafi 5 e 6, TCE (versione di Nizza), il quale creava una competenza concorrente in queste materie. Il Trattato di Lisbona, innovando, ha ricondotto i due settori nell’alveo della competenza esclusiva dell’UE (v. art. 207, par. 4, TFUE), comportando effetti sulla titolarità delle posizioni soggettive concernenti il complesso di accordi dell’OMC e, in particolare, il GATS e il TRIPS. La formulazione del nuovo dispositivo tuttavia si presta ad alcuni interrogativi in relazione all’esercizio della competenza nel settore degli scambi di servizi di cui all’art. 207, par. 4, lett. a)-b). L’attribuzione della competenza in capo all’UE sembra, infatti, una operazione che si deve determinare, di volta in volta, in seno al Consiglio, nella fase in cui esso debba decidere in merito all’autorizzazione dell’avvio di negoziati riguardanti un accordo commerciale nei settori citati nella norma. In altre parole, in tali settori, la portata della competenza esterna dell’UE non è fissata a monte, ma si determina in ragione delle decisioni assunte dal Consiglio, caso per caso. In particolare, il Consiglio deve esprimersi, nel settore degli scambi di servizi culturali e audiovisivi, sulla compatibilità dell’accordo prospettato con la tutela della diversità culturale e linguistica dell’UE, o, nel settore degli scambi di servizi nell’ambito sociale, dell’istruzione e della sanità, sul fatto che l’accordo prospettato non perturbi seriamente l’organizzazione nazionale di tali servizi e arrechi pregiudizio alla competenza degli Stati membri riguardo alla loro prestazione. Qualora una tale incompatibilità emerga, il Consiglio si esprimerà negativamente in relazione all’avvio di negoziati. In conseguenza di ciò, è ragionevole ritenere che, in quelle specifiche circostanze, gli Stati membri siano ancora competenti a concludere accordi internazionali. Tuttavia, è ragionevole ritenere che ciò possa accadere solo se il Consiglio, nel non autorizzare l’avvio dei negoziati, esprima in modo chiaro che il suo voto negativo è legato al riscontro di ragioni ostative indicate nell’art. 207, par. 4, lett. a)-b), TFUE. In tutti gli altri casi, la mancanza di unanimità in seno al Consiglio si deve presupporre sia la conseguenza di valutazioni meramente politiche relative all’opportunità per l’UE di contrarre un determinato accordo. Ne consegue che, in merito a modifiche future dell’accordo GATS, la competenza a negoziare e concludere un nuovo accordo sarà degli Stati membri ogniqualvolta quest’ultimi, in seno al Consiglio, impediscano espressamente l’esercizio della competenza da parte dell’UE per una delle ragioni consentite al par. 4, lett. a)-b). Nulla toglie che l’attività interpretativa della Corte di giustizia contribuisca a limitare, in futuro, quello che, a prima vista, sembra essere un ampio potere lasciato agli Stati nella definizione dell’ampiezza della competenza dell’UE nel settore degli scambi di servizi culturali e audiovisivi e nel settore degli scambi di servizi nell’ambito sociale, dell’istruzione e della sanità, attraverso una definizione della portata delle cause ostative alla negoziazione e conclusione di un accordo in tali settori.
Un’altra peculiarità che emerge in merito alla conclusione di accordi relativi a questi settori di scambi di servizi attiene la fase della loro esecuzione. In particolare, se l’art. 207 TFUE conferisce all’UE la competenza esclusiva in relazione alla conclusione di accordi commerciali in materia di servizi nell’ambito sociale e di servizi culturali, dell’istruzione e della sanità, la stessa non sembra essere competente ad attuare tali accordi sul piano interno. Infatti, si deve sottolineare come nei settori citati, l’UE sul piano interno possa o assicurare un mero coordinamento delle politiche sociali degli Stati (art. 5, par. 3, TUE) o svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati nei settori della cultura, dell’istruzione e della sanità (art. 6 TFUE). Pertanto, in questi settori l’UE esercita una competenza esterna (treaty-making) a cui non corrisponde una competenza di esecuzione sul piano interno (treaty-implementing), come accade, ad esempio, nell’ambito dei sistemi federali, dove lo Stato centrale ha la competenza ad agire sul piano internazionale ma non ha competenze interne relative ad ogni settore e, pertanto, in merito all’esecuzione di trattati conclusi in settori di competenza delle unità sub-statali dipende da essi. Una tale asimmetria tra competenze interne e competenze esterne era stata avallata già dalla Corte di giustizia, nel parere 1/75, nel quale si affermava che il treaty-making power dell’UE non è messo in discussione dal fatto che l’esecuzione dell’accordo internazionale gravi direttamente sugli Stati membri. Rimane inteso che una tale situazione impone all’UE e agli Stati membri di agire in ossequio al principio di leale cooperazione nell’adempimento dei rispettivi compiti (v. art. 4, par. 3, TUE).
Infine, una difficoltà nel delimitare la nozione di politica commerciale rispetto alle altre materie assegnate alla competenza dell’UE o degli Stati membri si è avvertita in relazione all’adozione di misure tese a disciplinare gli scambi internazionali per motivi non commerciali. È noto come la Commissione ha sostenuto la tesi secondo la quale la qualifica di una misura come commerciale vada compiuta esclusivamente in relazione alla sua natura di strumento di regolazione degli scambi, mentre sarebbe irrilevante il motivo che ne ha sorretto l’adozione. Il Consiglio ha lungamente difeso la tesi opposta, secondo la quale sarebbe la finalità dell’azione, tesa alla regolamentazione degli scambi commerciali, l’elemento decisivo al fine della sua qualificazione giuridica. La questione ha trovato una soluzione pratica con l’inserimento nel TFUE dell’art. 215 (vecchio art. 301 TCE), il quale è stato utilizzato nella prassi come autonoma base di competenza per l’azione dell’UE, pur in materie rientranti nell’ambito della politica commerciale. Non è chiaro peraltro se la disposizione, la quale tende all’allargamento dei fini dell’azione commerciale dell’UE sulla base di una delibera adottata nell’ambito della PESC, possa essere utilizzata anche, in senso inverso; nel senso cioè di restringere il novero delle ipotesi nelle quali sarebbe altrimenti giustificata un’azione dell’UE ai sensi dell’art. 207 TFUE. Di converso, la Corte di giustizia ha chiaramente delimitato i poteri degli Stati di adottare misure commerciali per finalità di tipo politico. Nelle due sentenze Werner (C. giust., 17.10.1995, C-70/94, Fritz Werner industrie – Ausruestungen Gmbh c. Repubblica federale di Germania), e Centro-Com (C. giust., 14.1.1997, C-124/95, The Queen, ex parte Centro-Com Srl c. HM Treasury e Bank of England), infatti, la Corte ha affermato che il perseguimento di uno scopo politico non è sufficiente a distogliere dalle misure il loro carattere intrinsecamente commerciale, sottratto quindi alla competenza degli Stati. Se da un lato, quindi, il carattere commerciale della misura è un elemento decisivo per escludere la competenza degli Stati, d’altro lato, esso potrebbe non bastare a radicare una competenza dell’UE.
L’art. 3, par. 1, lett. e), TFUE stabilisce che la politica commerciale comune è di competenza esclusiva dell’UE. Tuttavia, la natura esclusiva di tale competenza era già stata affermata dalla Corte di giustizia sin dai tempi del Trattato di Roma. Il superamento del dato testuale è stato compiuto in riferimento ad un’interpretazione di carattere funzionale. Nel parere 1/75, il carattere esclusivo della competenza è stato affermato in relazione all’esigenza di evitare che l’esistenza di diversità di comportamenti degli Stati membri nelle proprie relazioni con Stati terzi possa compromettere “il perseguimento delle finalità collettive”. Nelle sentenze Donckerwolcke (C. giust. 15.12.1976, C- 41/76, Suzanne Donkerwolcke, in Criel e Henry Schou c. Procuratore della Repubblica presso il Tribunal de Grande Instance di Lille e Direttore generale delle dogane e imposte dirette) e Bulk Oil (C. giust., 15.2.1986, C-174/84, Bulk Oil (Zug) Ag c. Sun International Limited e Sun Oil Trading Company) la Corte ha peraltro attenuato la portata proibitiva di tale concetto, ammettendo provvedimenti nazionali “specificamente autorizzati” dall’UE, al fine di evitare perturbazioni nei flussi di traffico, o inconvenienti conseguenti all’esistenza di lacune nella normativa dell’UE (in merito alle autorizzazioni agli Stati in relazione a materie di competenza esclusiva v. l’art. 2, par. 1, TFUE). Peraltro, la presenza di lacune non giustifica senz’altro la concessione di provvedimenti di autorizzazione. Anche per evitare che la mancata adozione di provvedimenti dell’UE, e la conseguente concessione di autorizzazione a favore degli Stati membri, sia motivato dalla volontà di questi di mantenere proprie politiche nazionali, la Corte di giustizia ha inaugurato un atteggiamento tendente a sindacare la legittimità dei provvedimenti di autorizzazione sulla base delle circostanze eccezionali che ne possano giustificare l’adozione (C. giust., 27.9.1988, C-51/87, Commissione delle Comunità europee c. Consiglio delle Comunità europee). Infine, la Corte, nella citata sentenza Centro-Com, ha affermato che«provvedimenti nazionali che risultano contrastare con la politica commerciale comune prevista dall’art. [207 TFUE] e con i regolamenti [dell’UE] che attuano tale politica sono giustificati con riguardo all’art. [351] soltanto se sono necessari per consentire allo Stato membro interessato di adempiere nei confronti di paesi terzi obblighi derivanti da una convenzione stipulata prima dell’entrata in vigore del Trattato o dell’adesione di tale Stato membro».
L’art. 207, par. 6, TFUE indica i limiti cui è soggetta la competenza attribuita all’UE, stabilendo che l’esercizio delle competenze nel settore della politica commerciale comune non pregiudica la ripartizione delle competenze tra l’UE e gli Stati membri e non comporta un’armonizzazione delle disposizioni legislative o regolamentari degli Stati membri, se i trattati escludono tale armonizzazione. Il primo elemento del dispositivo non è altro che un richiamo al rispetto del principio di attribuzione delle competenze che deve valere anche nell’ambito della politica commerciale comune (v. artt. 4, par. 1, e 5, par. 1-2, TUE). In tal senso, un esempio può facilitare la comprensione dell’importanza che i redattori del Trattato hanno attribuito all’inserimento di questo dispositivo nell’ambito dell’art. 207. Si immagini, infatti, un accordo sulla protezione degli investimenti per il quale si prospetta l’inserimento di clausole di esproprio. Il rispetto della ripartizione di competenze tra UE e Stati membri esclude, in principio, che l’UE possa negoziare e concludere un tale accordo, in quanto la previsione di tali clausole andrebbe ad incidere sulla delimitazione delle competenze ai sensi dell’art. 345 TFUE, il quale afferma che l’UE non pregiudica i sistemi di proprietà esistente negli Stati membri. Il secondo elemento del dispositivo in esame, invece, impone all’UE un limite all’esercizio ratione materiae della sua competenza esclusiva, in quanto essa non può concludere accordi internazionali in settori che, sul piano interno, non possono essere armonizzati (v. artt. 149; 153, par. 2, lett. a); 165, par. 4; 166, par. 4; 167, par. 5; 168, par. 5, 173, par. 3, TFUE). Si tenga presente, tuttavia, che in relazione a molti di questi settori, il Trattato attribuisce una competenza espressa all’UE quando si tratti di negoziare e concludere accordi che vertano sullo scambio di servizi (v. art. 207, par. 4, lett. a)-b), TFUE).
L’art. 207, par. 2, TFUE descrive la procedura per l’adozione di atti legislativi per la definizione del quadro di attuazione della politica commerciale comune. La norma è innovativa rispetto al passato, in quanto da una esclusione completa del Parlamento europeo dal procedimento decisionale si stabilisce per questa istituzione un ruolo di co-legislatore accanto al Consiglio attraverso la procedura legislativa ordinaria. Il solo atto legislativo che può essere adottato in quest’ambito è il regolamento.
La norma non esclude che l’atto legislativo possa delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali nell’atto legislativo, ai sensi dell’art. 290 TFUE. Inoltre, i regolamenti di cui alla norma in esame, qualora siano necessarie condizioni uniformi per la loro esecuzione, in base all’art. 291, par. 2, TFUE, possono conferire alla Commissione competenze di esecuzione [in base al reg. UE n. 182/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16.2.2011, che stabilisce le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione (GU L 55, p. 13), in relazione agli atti giuridicamente vincolanti in materia di politica commerciale comune, il controllo da parte degli Stati membri deve avvenire secondo la «procedura d’esame» (art. 2, par. 2, lett. iv); si noti, tuttavia, che in via del tutto eccezionale in relazione all’approvazione della proposta di regolamento che stabilisce disposizioni transitorie per gli accordi bilaterali conclusi da Stati membri e paesi terzi in materia di investimenti, si è stabilito che il controllo da parte degli Stati membri sulle competenze esecutive della Commissione debba avvenire secondo la «procedura consultiva» (v. regolamento UE n. 1219/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce disposizioni transitorie per gli accordi bilaterali conclusi tra Stati membri e paesi terzi in materia di investimenti, GU L 351, p. 40)].
Per la negoziazione e la conclusione di accordi con uno o più Stati terzi o organizzazioni internazionali in materia di politica commerciale comune si applica l’art. 218 TFUE, fatte salve le disposizioni particolari dettate dall’art. 207, par. 3-4, TFUE. Le disposizioni particolari prescrivono che la Commissione presenti raccomandazioni al Consiglio, che l’autorizza ad avviare i negoziati necessari; i negoziati saranno condotti dalla Commissione, in consultazione con un comitato speciale (cd. Comitato per la politica commerciale) designato dal Consiglio per assisterla in questo compito e nel quadro delle direttive che il Consiglio può impartirle. Inoltre, la Commissione deve riferire periodicamente al comitato speciale e al Parlamento europeo sui progressi dei negoziati.
In merito al ruolo del Parlamento, si deve segnalare che l’Accordo quadro sulle relazioni tra il Parlamento europeo e la Commissione europea del 20 ottobre 2010 (GU L 304, p. 47) stabilisce in modo dettagliato le relazioni che intercorrono tra Commissione e Parlamento in merito alla negoziazione e conclusione degli accordi internazionali. L’Allegato III dell’accordo stabilisce, in particolare, che la Commissione «tiene in debito conto le osservazioni del Parlamento durante le negoziazioni» e «tiene informata la commissione parlamentare responsabile circa l’evoluzione dei negoziati e, in particolare, illustra in che modo le osservazioni del Parlamento siano state tenute in considerazione». La portata di queste disposizioni, così come l’impegno della Commissione a fornire al Parlamento, durante la procedura negoziale, tutte le informazioni importanti che trasmette anche al Consiglio (o al comitato speciale), sono state criticate nella Dichiarazione del Consiglio relativa all’accordo quadro (GU C 287, p. 1), in quanto «tendono a modificare l’equilibrio istituzionale risultante dai trattati in vigore, a riconoscere al Parlamento europeo prerogative non previste dai trattati e a limitare l’autonomia della Commissione e del suo presidente». Pertanto, il Consiglio ha dichiarato di riservarsi di adire la Corte di giustizia, impugnando qualsiasi atto o azione del Parlamento o della Commissione che, adottati in applicazione delle disposizioni dell’accordo interistituzionale, pregiudichino gli interessi del Consiglio o le prerogative ad esso conferite dai trattati.
Il Consiglio e la Commissione devono «adoperarsi affinché gli accordi negoziati siano compatibili con le politiche e norme interne dell'Unione». Questo dispositivo non fa altro che ribadire il principio di coerenza tra l’azione esterna e le altre politiche dell’UE enunciato nell’art. 21, par. 3, co. 2, TUE.
In merito alle modalità di voto in seno al Consiglio per la negoziazione e la conclusione degli accordi internazionali, generalmente la delibera dell’istituzione verrà adottata a maggioranza qualificata. Tuttavia, per la negoziazione e la conclusione di accordi nei settori degli scambi di servizi, degli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e degli investimenti esteri diretti, il Consiglio deve deliberare all’unanimità qualora tali accordi contengano disposizioni per le quali è richiesta l’unanimità per l’adozione di norme interne. La delibera all’unanimità è richiesta anche per la negoziazione e la conclusione di accordi nel settore degli scambi di servizi culturali e audiovisivi, qualora tali accordi rischino di arrecare pregiudizio alla diversità culturale e linguistica dell’UE, e nel settore degli scambi di servizi nell’ambito sociale, dell’istruzione e della sanità, qualora tali accordi rischino di perturbare seriamente l’organizzazione nazionale di tali servizi e di arrecare pregiudizio alla competenza degli Stati membri riguardo alla loro prestazione. È noto che la previsione del voto all’unanimità in seno al Consiglio è stata la contropartita politica che gli Stati hanno preteso per riconoscere la competenza esclusiva dell’UE in relazione ai nuovi settori.
Si noti, infine, che l’art. 207, par. 5, TFUE stabilisce che per la negoziazione e la conclusione degli accordi internazionali nel settore dei trasporti si debbono applicare le procedure indicate nel titolo VI della parte III del TFUE e nell’art. 218 TFUE.
Il carattere esclusivo della competenza dell’UE non esclude che accordi internazionali relativi alla politica commerciale siano conclusi in forma mista (cd. accordi misti). Tale possibilità è stata riconosciuta in termini particolarmente ampi nel citato parere 1/78, nel quale la Corte di giustizia ha sottolineato che qualora gli oneri finanziari di un accordo internazionale sono imputati direttamente ai bilanci degli Stati membri è necessaria la loro partecipazione congiuntamente a quella dell’UE nella conclusione dell’accordo. Un accordo va stipulato in forma mista anche qualora esso contenga, accanto a disposizioni di carattere commerciale, disposizioni che rilevano della competenza degli Stati secondo i principi affermati, fra l’altro, nel citato parere 1/94. La partecipazione degli Stati membri alla conclusione di un accordo accanto all’UE può produrre interferenze anche nella fase della sua attuazione. A tal proposito, la Corte ha sottolineato che qualora risulti che la materia disciplinata da un accordo rientra in parte nella competenza dell’UE e in parte in quella degli Stati membri occorre garantire una stretta cooperazione fra questi ultimi e le istituzioni dell’UE anche nell’adempimento degli impegni assunti; un tale obbligo di cooperazione discende dalla necessità di un’unità di rappresentanza internazionale dell’UE.
Artt. 206-207 TFUE.
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