Politeismo e religione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli dèi e le dee non sono concetti astratti: la loro esistenza è garantita e giustificata dalla loro funzione nella comunità. Questa caratteristica specifica permette la progressiva formazione di un pantheon ampio, flessibile, aperto, capace di accogliere divinità straniere o di crearne di nuove, rispettando le regole di un sistema coerente.
La religione romana è una religione fortemente legata alla dimensione della città. Anche i culti più antichi sono ricondotti alla fondazione di essa e ogni divinità ha un ruolo chiaro e definito nella vita dell’uomo romano. Le figure divine, la loro funzione e le regole per entrare in contatto con esse, sono vincolate dalla comunità, dalle sue esigenze e dai suoi bisogni.
La religione romana è, come molte altre religioni antiche, una religione “politeista”, nella quale cioè la categoria del divino da un lato si articola secondo una molteplicità di divinità, dall’altro una stessa divinità può contenere molteplici “figure”, o meglio rappresentare più aspetti della realtà: molti sono gli dèi e le dee adorati dai Romani, alcuni invocati per il buon esito delle azioni legate alla vita quotidiana, la salute del corpo, il lavoro, la casa, i figli, l’amore; altri onorati dalla comunità nel suo insieme, per il benessere e la prosperità di tutto il gruppo sociale.
La dimensione comunitaria e politica è molto forte. L’uomo entra in rapporto con gli dèi nel quadro e per tramite della comunità ed è in funzione di questa relazione che esiste l’intero apparato religioso: un corpo di nozioni e pratiche strettamente legato alla vita sociale, capace di rifletterne le esigenze, le regole, il comportamento, il modo di concepire la realtà sia per quanto riguarda la vita pubblica che quella privata. Gli spazi di pubblica decisione sono sacralmente definiti; ogni attività di rilevanza collettiva è garantita da azioni rituali e gli officianti religiosi sono figure di importanza riconosciuta, con un ruolo attivo nella vita politica e sociale romana: condizione necessaria per agire religiosamente è appartenere alla comunità e da essa essere designati.
Marco Tullio Cicerone, rivolgendosi ai pontefici, una tra le cariche sacerdotali più alte, efficacemente sintetizza: “Tra i molti ordinamenti che i nostri antenati hanno inventato e istituito per ispirazione divina, o pontefici, nessuno è più insigne della loro decisione di affidare alle stesse persone il culto degli dèi immortali e gli interessi supremi dello stato, perché i cittadini ragguardevoli e illustri tutelassero la religione col buon governo dello stato e lo stato con una saggia interpretazione delle norme religiose” (Cicerone, De domo, 1, 1, trad. Emanuele Narducci, BUR, 1998). Sono i padri fondatori il centro della riflessione, coloro ai quali va riconosciuto il merito di aver consegnato alla civitas le norme, il culto delle divinità, le istituzioni religiose e di garantire dunque la sicurezza dello stato. In un altro testo Cicerone pone come fondamenti del vivere civile sanctitas e religio, cioè il rispetto delle cose sacre e la religione: “Una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento della vita e una grande confusione; e sono propenso a credere che, una volta eliminata la pietà verso gli dèi, vengano soppressi anche la lealtà e i rapporti sociali del genere umano e la giustizia, la virtù per eccellenza” (Cicerone, De natura deorum, 1, 4, trad. Cesare Marco Calcante, BUR, 1998).
La riflessione ciceroniana non è isolata. Il contemporaneo Marco Terenzio Varrone organizza la sua monumentale opera Antiquitates rerum humanarum et divinarum ponendo prima la sezione dedicata alle “istituzioni cittadine” e poi quella delle “istituzioni religiose” e il filosofo cristiano Agostino ci spiega che lui stesso così la motiva: “Lo stesso Varrone confessa che prima ha trattato delle res humanae e poi delle res divinae perché prima furono istituite le città e poi da esse furono istituiti i culti” (Agostino, De civitate Dei, 6, 4, a cura di D. Gentili, Città Nuova, 2000). L’idea portante è che la religione è un prodotto istituito dagli uomini entro il quadro della città, prospettiva che dagli studiosi è definita polis religion model: la città come perno, tramite, origine e fine della religione, che si mostra come prodotto culturale creato dagli uomini per gli uomini. Cicerone e Varrone ricorrono al termine instituere, cioè “stabilire”, “fondare”, operazione autorevole che va riconosciuta agli antenati, le cui norme sono tramandate al fine di garantire la solidità e la sicurezza della città. Varrone, a questo proposito, spiega che esiste una teologia che i cittadini, ma soprattutto i sacerdoti devono conoscere e amministrare: quella che insegna quali dèi bisogna adorare pubblicamente, quali riti praticare e quali sacrifici compiere (Agostino, De civitate Dei, 4, 5). Questa è la teologia civile, così detta perché è accommodata ad urbem, cioè tagliata su misura per la città. Non è la riflessione astratta di un intellettuale: l’essenza più intima della religione è il suo legame con la vita politica e questo si riflette su piani diversi: dalla fondazione delle origini alla costruzione dell’immaginario relativo agli dèi. Al centro ci sono sempre il civis e la civitas, il cittadino e la città romana. Anche nel tempo delle origini della città non c’è un mondo di dèi senza uomini, un tempo e uno spazio solo divini. Uomini e dèi vivono insieme ed è dalla loro primigenia relazione che il corpus di norme ha origine.
Ai primi re di Roma, Romolo e Numa, sono ricondotti i complessi atti degli inizi: al primo la fondazione della città intesa come spazio collocato sotto la protezione divina e delle istituzioni politiche e guerriere; al secondo l’organizzazione delle istituzioni religiose e giuridiche. Per entrambi non si tratta di rivelazione o ispirazione, ma piuttosto di legittimità data dalla loro storia personale, in rapporto diretto con il mondo divino. La morte di Romolo è descritta come una scomparsa misteriosa degna di un dio: lo storico Tito Livio racconta che una tempesta scoppiò all’improvviso e un denso nembo avvolse il re sottraendolo alla vista degli astanti; da quel momento Romolo non fu più sulla terra. Quando la luce ritornò limpida il popolo, dopo un raccolto silenzio, salutò il re come un dio nato da un dio, lui che era padre della città, affinché proteggesse sempre benevolo e propizio la stirpe romana (Livio, Ab Urbe condita, 1, 1). Plutarco, nella Vita di Romolo, aggiunge che un amico intimo del re, di nome Giulio Proculo, dopo il misterioso evento si recò nel foro e giurando sulle cose più sante disse di fronte a tutti che gli era apparso Romolo grande e bello, come mai prima, adorno di armi splendenti. A lui Romolo aveva spiegato che per decisione degli dèi egli aveva vissuto fino ad allora sulla terra, per fondare Roma, futura potenza, ma che ora doveva ritornare a vivere in cielo, da dove era venuto e che il suo nome sarebbe stato cambiato in Quirino, divinità a loro benevola (Plutarco, La Vita di Romolo, 18, 1-2). Publio Ovidio Nasone nelle Metamorphoses (14, 805-828), nello spiegare la scomparsa del re come il legittimo rapimento di un padre per riportare il figlio in famiglia, ricostruisce la genealogia divina: Giove padre di Marte e Marte padre di Romolo-Quirino. Romolo divenuto dio è chiamato Quirino: secondo la formula tipica della tradizione romana un padre fondatore può e deve essere considerato alla stregua di una divinità. Romolo diviene Quirino, come l’eroe capostipite Enea è stato eletto tra gli dèi come Indiges. Enea e Romolo: figure al confine tra il mitico e lo storico, che per la loro vicenda, così importante per la storia della città, assumono natura divina ed entrano a far parte del mondo degli dèi.
Numa Pompilio è figura centrale nella tradizione della religione romana, che lo descrive come uomo di grande giustizia e religiosità, circondato da un’aura divina. D’origine sabina, è espertissimo d’ogni legge divina e umana e la sua proclamazione come re avviene con il consenso umano e celeste (Livio, Ab Urbe condita, 1, 18). La sua vita è rivolta al culto degli dèi, alla contemplazione; è un uomo beato e saggio, addirittura considerato degno di nozze speciali dal momento che è sposato e convive con la ninfa Egeria (Plutarco, La vita di Numa, 4, 1-2). Egeria è divinità legata all’acqua e protettrice delle nascite; la leggenda racconta che molte delle importanti riforme religiose del re furono dovute ai divini consigli dell’amata. La sua familiarità con il mondo degli dèi non si limita però al suo rapporto con la ninfa: Numa, dopo aver catturato Pico e Fauno, antichi re del Lazio divenuti divinità, si intrattiene in una lunga conversazione con Giove che gli insegna riti propiziatori per i fulmini. Le sue azioni in ambito religioso sono molte: per prima cosa edifica un tempio a Giano, dio protettore degli inizi, al fine di porre sotto la custodia divina il suo operato fin dal primo momento. La strategia che il re adotta per governare il suo popolo è quella di instillare il metus deorum, cioè il timore degli dèi, mezzo di grande efficacia: siamo ai primordi della teologia civile e attraverso l’operato di Numa ce ne vengono rivelate le cause prime. Istituisce diversi sacerdozi: un flamen per Giove, uno per Marte e uno per Quirino; i dodici Salii in onore di Marte Gradivo, con funzione specificatamente rituale; i feziali, custodi della pace, con il compito di rappresentare religiosamente le decisioni politiche; i pontefici, figure chiave del sistema religioso romano, con a capo il pontefice massimo affinché curi le cerimonie pubbliche, sorvegli i sacrifici privati, impedisca di trasgredire le norme rituali ed insegni che cosa occorre per onorare o propiziare gli dèi (Plutarco, La Vita di Numa, 9, 8). Numa aggiunge al pantheon alcune divinità, capaci di rafforzare la fede dei concittadini ed instillare il rispetto di alcune norme: Tacita, dea silenziosa e muta, conformemente alla nozione per cui il silenzio delle donne rappresenta un grande valore. Nell’imporre ai Romani il rispetto per i defunti, li educa a venerare con riti prescritti gli dèi inferi e tra essi la dea Libitina, che presiede al culto dei morti. Istituisce la festa per Fede, dea che rappresenta il gesto solenne del giuramento, e onora Terminus, dio dei confini, custode di pace e giustizia.
Come abbiamo già anticipato, nelle Antiquitates rerum divinarum Varrone affronta i principali temi del culto romano ed il loro significato. Questo testo, in forma frammentaria, è conservato grazie ai Padri della Chiesa, che nella loro feroce campagna lo assumono come testo di riferimento della biasimata religione politeistica. Agostino nel De civitate Dei ne è importante testimone: descrive la suddivisione interna dell’opera e conserva alcuni passaggi significativi.
L’introduzione dell’opera, in particolare, è estremamente interessante perché offre una riflessione su quella che per l’autore è l’essenza della religione romana. Varrone spiega che esistono tre generi di teologia: il genere mitico o fabuloso, il genere fisico o naturale e il genere civile, di cui abbiamo già parlato. Il primo è quello di cui trattano i poeti in teatro, il secondo interessa i filosofi, il terzo è proprio della città.
Nella teologia mitica troviamo le fabulae, cioè i racconti sugli dèi; in quella fisica i filosofi indagano su quali siano gli dèi, dove si trovino, di che genere siano e quali proprietà abbiano, se siano eterni o abbiano incominciato ad esistere a un certo momento; il genere civile è quello di cui i cittadini e soprattutto i sacerdoti devono conoscere la funzione. Esso indica infatti quali dèi si devono adorare pubblicamente e quali riti e quali sacrifici si devono compiere secondo le rispettive competenze (Agostino, De civitate Dei, 6, 5). Sembra che di questa tripartizione avesse già parlato il pontefice Quinto Muzio Scevola e Varrone la pone a premessa della sua opera, affinché i suoi lettori possano identificare nella complessità e diversità dei loro fenomeni religiosi una ratio, una considerazione del divino da una prospettiva specificatamente romana. Varrone dichiara di far parte di una comunità antica, ne rispetta le tradizioni e gli scritti; la sua opera ha lo scopo di aiutare il popolo a rimanere fedele alla sua religione perché il vero pericolo non è rappresentato dal nemico, ma dalla negligenza (Agostino, De civitate Dei, 4, 31).
Alla teologia civile appartengono le strutture sacre che sono il perno dell’identità e della solidità di una comunità, ed è per questo che nelle Antiquitates rerum divinarum Varrone vi dedica ampio spazio: tre libri sono dedicati agli uomini come attori del culto; seguono tre libri che trattano dei luoghi sacri e tre sui tempi; tre sulle azioni rituali. Gli ultimi tre libri hanno come oggetto gli dèi e in essi è proposta una classificazione piuttosto originale e genuinamente romana. Tertulliano nell’Ad nationes ricorda che Varrone aveva ordinato gli dèi in tre parti: certi, incerti, selecti (2, 9, 3). Gli dèi certi sono quelle potenze divine capaci di rivelare la verità, i pontefici li chiamano anche dèi propri e presiedono ai singoli atti (Servio, Ad Aeneidem, 2, 141). In uno degli strumenti più autorevoli in materia religiosa, i libri pontificali, nelle liste dette indigitamenta, sono elencati i nomi degli dèi e le loro rationes, cioè le motivazioni di questi nomi: le quali altro non sono che i loro officia, cioè i compiti che svolgono (Ad Georgica, 1, 21). L’aggettivo certus deriva dal verbo cernere, che propriamente indica l’azione del “setacciare”; il participio passato certus è “ciò che rimane”, la parte genuina del prodotto che si deposita sulla rete dell’utensile e può essere utilizzata. Sono certi perché l’orante può individuare, soprattutto grazie alla trasparenza del teonimo strettamente legato alla sfera di competenza, il dio che fa al caso suo: dopo aver “passato al setaccio” i molti dèi può scegliere senza incertezza il dio utile alla sua richiesta.
Seguono gli dèi incerti, divinità che presiedono a un’area di assistenza più ampia. In queste collettività divine sono annoverate divinità come i Penati, i Lari, i Mani, le Ninfe e le Muse. Sono divinità plurali presenti a pieno titolo nel pantheon romano, il cui campo di azione è più vasto rispetto a quello degli dèi certi. Il loro appellativo non è o non è più trasparentemente legato alla sfera di competenza (Agostino, De civitate Dei, 7, 17).
Per ultimi vengono gli dèi selecti cioè gli “eletti” che Varrone presenta nel libro quindicesimo. Sono Giano, Giove, Saturno, Genio, Mercurio, Apollo, Marte, Vulcano, Nettuno, Sole, Orco, Libero padre, Terra, Cerere, Giunone, Luna, Diana, Minerva, Venere, Vesta, dodici maschi e otto femmine (Agostino, De civitate Dei, 7, 2). Questi selecti o praecipui, cioè gli dèi “scelti” o “distinti”, non sono chiamati in questo modo perché hanno mansioni più importanti. Considerati dal punto di vista della teologia civile infatti si occupano anche di incombenze banali, ognuno impegnato a contribuire alla regolarità e al buon funzionamento della vita degli uomini (Agostino, De civitate Dei, 7, 2). La qualifica di selecti ovvero “scelti” deriva dal fatto che sono i protagonisti della teologia fisica. L’operazione varroniana di sistematizzazione ha il fine di offrire una logica interna alla religione romana sotto ogni suo aspetto. Gli dèi “certi” della teologia civile si occupano del microcosmo, gli dèi “scelti” della teologia fisica rappresentano il macrocosmo: Giano è il mondo e più in generale l’inizio; Giove il cielo, signore delle cause del divenire e della pienezza; Giunone la terra o l’aria; Saturno ha potere su tutte le sementi; Genio sovrintende alla generazione di tutto, spirito razionale di ogni individuo; a Mercurio il discorso e a Marte la guerra; Diana e Apollo sono la Luna e il Sole; Vulcano il fuoco cosmico e Vesta la parte più leggera del medesimo elemento; Nettuno l’acqua cosmica; Orco la parte sotterranea della terra; Libero i semi maschili e la parte liquida mentre Libera i semi femminili e la parte secca; Cerere è la terra madre; Minerva la luna come Venere o il punto più alto dell’etere (Agostino, De civitate Dei, 7, 5-16 e Macrobio, Saturnalia, 3, 4, 7).
Varrone propone nelle Antiquitates un’operazione intellettuale articolata e complessa: per la sua tripartizione teologica adotta la lente filosofica al fine di mostrare ai suoi concittadini la logica interna che sottende al vasto sistema delle loro credenze. La filosofia stoica, di matrice greca, è strumento utile e raffinato che gli permette di “salvaguardare” il patrimonio religioso delle divinità trovando una ratio per ognuna. L’indagine certamente di tipo interpretativo, però, non è una semplice operazione intellettuale, svincolata dalla realtà e dal sentimento religioso comune. Essa rivela piuttosto la volontà di conservare e spiegare il vasto pantheon romano dandogli dignità filosofica e conciliandolo con una visione più ampia della realtà.
Cicerone nel De natura deorum (1, 40 e 2, 63 sgg.) ci testimonia in modo trasparente questo metodo interpretativo, attraverso uno dei suoi personaggi, Balbo, che partecipa alla discussione sulla natura degli dèi quale esponente della teologia stoica. La visione stoica, che propone un modello di divinità forte, aggiunge agli dèi tratti semantici fino a farli coincidere con il mondo e con tutto ciò che in esso è compreso; questa operazione intellettuale parte da associazioni religiose e culturali riconoscibili e attraverso l’indagine linguistica e l’etimologia tenta di fornire una prova fondante tra il dio e la realtà che esso rappresenta. Così infatti Balbo spiega che Saturno deve la sua denominazione al fatto che saturaretur, cioè che “si sazia” degli anni; Giove da iuvare, cioè “aiutare”; Giunone è l’aria poiché si trova tra mare e cielo, il cui nome deriva anch’esso da iuvare; Nettuno, da nare, cioè “nuotare” e possiede il regno del mare e Cerere perché gerens, colei “che porta” le messi. In questa visione Gli dèi sono res physicae, cioè gli aspetti naturali della realtà, e possiamo scoprirne la profonda verità attraverso il nome. Cicerone nel proporre attraverso Balbo l’interpretazione stoica, come Varrone, mostra una via d’accesso alla verità dei fenomeni religiosi attraverso l’etimologia, strumento per integrare mediante interpretazione i culti tradizionali nei sistemi filosofici. Questo genere di riflessione dotta permette di leggere in chiave allegorica tutte le divinità del culto: ogni dio e ogni dea rappresentano un aspetto della natura: aria, cielo, fuoco, terra.
L’indagine naturalistica sulla divinità è esplicitamente interpretativa, ma a un’analisi generale anche le altre due teologie hanno il fine di rintracciare le rationes, cioè le “spiegazioni”: la religione romana è una religione di interpretazione, e ogni interpretazione è valida nel suo contesto.