Polidoro Vergilio
La storiografia umanistica fu introdotta inizialmente in Inghilterra, in una forma che ricorda le Vite del Platina per il fatto di assumere la narrazione della stirpe regnante e delle origini della nazione, da un umanista italiano, Polidoro Vergilio, nato a Urbino nel 1470 (dove morirà nel 1555) e passato dagli Studi di Padova e di Bologna. La sua Anglica historia, che pur appartiene al genere delle storie ufficiali commissionate dall’autorità politica, contribuì notevolmene fra Quattro e Cinquecento alla diffusione della cultura umanistica di origine italiana, accanto all’opera, svolta nello stesso periodo, sul versante etico-politico e filologico, da Thomas More (1478-1535) ed Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536). Vergilio era stato inviato in Inghilterra nel 1502 come sottocollettore del denaro di San Pietro, e vi rimase fino a poco prima di morire. La sua formazione, che risente di un’erudizione morale e naturalistica tipica del Rinascimento filosofico (raccolse Adagia, come Erasmo, scrisse un De inventoribus rerum, messo all’Indice, e un De prodigiis), gli consentì tuttavia di affrontare il compito assegnatogli dal re Enrico VII di riscrivere la storia dell’Inghilterra in latino per assicurarle un’ampia diffusione fra il pubblico colto, ed egli lo portò a termine dopo la morte del re (1534), ma concludendola con la narrazione del suo regno.
Fu accusato di aver trascurato una quantità di memorie conservate dalla tradizione, che egli in effetti aveva inteso superare seguendo la nuova forma storiografica che mirava a selezionare, a eliminare il favoloso, a salvaguardare il decoro della narrazione e ad assicurare il consenso al potere, nel caso specifico ad assecondare l’interesse dei Tudor di ottenere la legittimazione, di fronte all’Europa, della monarchia regnante. Rimase infatti nelle grazie dei successori Enrico VIII, Edoardo VI e Maria I, conservando i numerosi benefici ecclesiastici ottenuti, anche per la prudenza osservata nel nascondere le sue simpatie filocattoliche.
La storia d’Inghilterra di Vergilio, che ispirerà anche la tematica shakespeariana, conservò a lungo la sua autorità. Cercò di oscurarla il cappellano della corte di Enrico VIII, John Leland (1506-1562) con una storia d’Inghilterra che recuperava acriticamente la tradizione, come farà anche il poeta John Milton narrando i tempi favolosi precedenti alla conquista normanna. Si trattava di una revanche nazionale che si verificava collateralmente anche in Francia, quando Bernard de Girard du Haillan (1535 ca.-1610) nella Histoire de France riscriveva per un pubblico meno colto il De rebus gestis Francorum di Paolo Emilio (1499-1529). Ma Vergilio, pur assumendo criticamente le fonti, per quel che gli era possibile, rispettava molte leggende della tradizione religiosa e non si lasciava sfuggire, come accadeva invece al Platina di fronte alla storia pontificia, qualche commento poco riguardoso del sacro. Importante riusciva soprattutto lo sguardo rivolto alla nazione e al territorio oltre che alla stirpe regale. Motivando la sua impresa con la volontà di mettere in luce una grandezza che sarebbe rimasta altrimenti sconosciuta, come lo era nelle storie ridotte di Beda e di Gilda, e negli insipidi annali poveri di stile e di lingua, egli enunciava la novità di una storia complessiva: la natura della terra, l’origine della gente, i costumi dei re, la vita della popolazione, le arti che avevano reso grande il Regno. Era il programma della storiografia umanistica italiana, che aveva prodotto la storia cittadina e regionale.
Nel proemio, di notevole consapevolezza metodologica, erano esposti gli argomenti fondamentali della nuova storiografia, a cominciare da quello, famoso e duraturo, della necessità e utilità della memoria scritta in quanto capace di rimediare all’oblio prodotto dalla rovina cui sono soggetti invece altri generi di monumenti, e di favorire attraverso la lode l’imitazione e quindi il rinnovamento della virtù da parte dei posteri. Si aggiungeva il proposito di scartare quel che di padre in figlio era stato trasmesso ingenuamente, i sogni degli anziani e le favole delle vecchiette, ma anche il frutto di un amor di patria sottratto al vaglio del tempo e della ragione, «che rendono le cose autorevoli» (Prefazione all’Anglica historia, in Haywood 1999, p. 171).