FOSCARI, Polidoro
Nacque a Venezia nel 1409 o nel 1410 da Francesco, detto Franzi, di Giovanni, e da Sterina, figlia di Sguros Bua Spatas, despota di Lepanto.
Mentre i tre fratelli maggiori, Filippo, Giovanni e Paolo, venivano avviati alla gestione degli affari familiari e alla carriera politica, il F. fu destinato in giovane età alla carriera ecclesiastica. Poco più che dodicenne ricevette la prima tonsura e gli ordini minori mentre era al seguito del padre, capitano a Verona e poi luogotenente a Udine. Proprio nelle collegiate di questa città e della vicina Cividale ottenne nel 1424 i suoi primi benefici ecclesiastici, consistenti in due canonicati sub expectatione prebende.
Qualche anno dopo la morte del padre, avvenuta tra la fine del 1424 e gli inizi del 1425, il F. si trasferì a Padova per studiare diritto canonico presso il locale Studio. Lì rimase fino al 1436, quando conseguì il dottorato inutroque iure. In questo periodo dovette entrare in contatto con molti giovani esponenti dell'ambiente umanistico veneziano, che a Padova conducevano i propri studi: sicuramente frequentò Ermolao Barbaro il Vecchio, che si addottorò pochi mesi prima di lui, ma è probabile che avesse rapporti anche con altri suoi quasi coetanei, come Pietro Del Monte, Domenico Dominici e Alvise Foscarini, presenti a Padova in quel periodo.
La carriera ecclesiastica del F. aveva ricevuto un primo impulso dalla salita al dogato nel 1423 del cugino Francesco, il quale lo promosse al primiceriato di S. Marco, massima dignità della cappella ducale; ma fu ancora più facilitata a partire dal 1431, dopo che fu eletto papa Eugenio IV, il veneziano Gabriele Condulmer. Questi lo nominò subito protonotario apostolico e gli assegnò anche una pensione di 100 ducati annui sull'abbazia benedettina di S. Giorgio Maggiore di Venezia, di cui deteneva la commenda, per permettergli di dedicarsi con tranquillità agli studi di diritto. Dal 1433 il F. poté poi contare sui redditi di sette benefici rurali non curati nella diocesi di Vicenza, che si affrettò a permutare con la commenda dell'arcipretato di Illasi nel Veronese. E sempre nel 1433 ottenne una parte delle rendite di un monastero benedettino presso Aquileia per quattro anni.
Si trattava però ancora di benefici tutto sommato poco redditizi per un chierico giovane e ambizioso. La commenda dell'abbazia benedettina dei Ss. Cosma e Damiano di Rogova nella diocesi di Zara gli fece fare un altro piccolo progresso: i cittadini zaratini, cui diede in affitto l'amministrazione del patrimonio abbaziale con contratti quinquennali, gli pagavano canoni annui di 620 ducati.
La svolta radicale avvenne nel 1437, con la promozione al vescovado di Bergamo. In questa, ancor più che nelle precedenti fasi della carriera ecclesiastica del F., l'appartenenza alla famiglia ducale si rivelò decisiva per il conseguimento del vescovado, al quale aspirava anche il Barbaro.
La cura della nuova diocesi si presentava come un incarico impegnativo. Il controllo esercitato dalla Serenissima sul Bergamasco era infatti ancora assai precario, sia perché la città e il distretto erano entrati a far parte della Terraferma veneziana da poco tempo, sia perché dopo la conquista del 1428 la guerra col Visconti era ben presto ripresa e si sarebbe poi protratta fino al 1441, coinvolgendo pesantemente Bergamo e il suo distretto.
A ciò va aggiunto che, anche dal punto di vista ecclesiastico, la situazione era piuttosto complessa: innanzitutto il vescovo di Bergamo non era suffraganeo del patriarca d'Aquileia come gli ordinari della Terraferma di qua dal Mincio, bensì dell'arcivescovo di Milano, alla stregua dell'altro vescovo della Lombardia veneta, quello di Brescia. Quindi, almeno teoricamente, era sottoposto a un superiore fedele a Milano. Un ulteriore elemento di instabilità era costituito dal fatto che nel Bergamasco i confini diocesani non corrispondevano esattamente a quelli della circoscrizione civile: sebbene essa fosse una caratteristica comune a molte altre zone della Terraferma, in questo caso la conseguenza pratica era che un certo numero di parrocchie facevano parte dell'arcidiocesi ambrosiana controllata dal Visconti. Terra di frontiera, dunque, il Bergamasco, dai confini sfuggenti e attraversata di continuo dagli eserciti in campo. Una terra che richiedeva anche alla testa del suo governo spirituale un uomo di sicura fedeltà alla Repubblica e dotato di forte personalità e non comuni capacità di reggimento.
Il F. preferì tenersi lontano da Bergamo e differì per molti anni il suo ingresso in città, fino alla conclusione della pace di Cavriana, nel 1441. Nel frattempo tentò di stringere legami più stretti con la Curia romana: nell'estate del 1438, in concomitanza con il concilio, è infatti documentata la sua presenza a Ferrara.
Chiusa la breve parentesi curiale, il F. si recò infine nella sua diocesi: entrò in Bergamo, accolto solennemente nella cattedrale dal capitolo e dai cittadini più in vista, il 28 ott. 1441. Dalle sue prime mosse risulta evidente l'intenzione di agire in consonanza con l'azione della Repubblica, in modo da contribuire all'integrazione di Bergamo nel dominio veneziano.
Ben presto però le cose si guastarono, al punto che ci sono rimaste pochissime testimonianze della sollecitudine pastorale del F.: sia le fonti coeve sia la tradizione erudita ci hanno piuttosto tramandato un'immagine del suo episcopato assai poco lusinghiera, non tanto e non solo per le intransigenti rivendicazioni dei diritti decimali della mensa, ma soprattutto per l'atteggiamento di sfida che egli assunse nei confronti del capitolo della cattedrale e quindi della classe dirigente cittadina di cui esso era espressione. In particolare, il F. sottrasse dal sagrato della cattedrale, per farne una fontana nell'episcopio, una grande pietra di marmo utilizzata nelle cerimonie di ingresso dei vescovi e dei rettori in città. Un atto il cui valore simbolico non sfuggì certo al capitolo, e provocò un lungo conflitto che vide dapprima la sospensione a divinis dei canonici e poi la scomunica di due di loro, Giovanni Osio e Ariguzzo Mozzi (1446).
Ma in questi frangenti il vescovo aveva goduto dell'appoggio o almeno della neutralità del governo veneziano. Non fu così invece nel 1448, quando il F. venne accusato di essersi impadronito di libri, di oggetti ornamentali e di culto, di avere venduto una parte dei pezzi d'argenteria della cappella episcopale e di essere debitore moroso nei confronti di alcuni cittadini. Il Consiglio civico prese infatti nettamente posizione contro di lui, inviando due oratori a Venezia per lamentarsi della sua condotta. E il Senato, dopo avere chiesto ai rettori una particolareggiata relazione sull'accaduto, il 20 maggio ordinò a Filippo, fratello del F., di comunicare al vescovo che, se entro venti giorni non avesse provveduto a saldare i suoi debiti e a restituire il maltolto, si sarebbe ordinato il sequestro dei redditi di tutti i benefici di cui era titolare nello Stato veneziano. Un provvedimento molto duro, che indusse il F. a lasciare Bergamo in tutta fretta e in incognito per rifugiarsi nella Dominante.
È certamente difficile stabilire in che misura la presa di posizione del Senato in favore della città derivasse dall'opportunità politica di non scontentare dei sudditi acquisiti così di recente o non piuttosto dall'atteggiamento di ostilità palese nei confronti della famiglia Foscari che andava emergendo in quegli anni in alcuni settori del patriziato. Di sicuro comunque il F. concluse il suo ufficio in modo assai inglorioso, chiaramente abbandonato dal potere civile che tanto aveva contribuito dieci anni innanzi a farlo promuovere alla cattedra bergamasca.
La migliore conferma del deterioramento dei rapporti tra il F. e il governo della Serenissima sta senza dubbio nelle sue mosse successive. Dopo un brevissimo passaggio da Venezia, dove dovette infatti capire che la sua carriera ecclesiastica non poteva ormai più trarre alcun giovamento da una permanenza in patria, si trasferì presso la Curia romana per cercare di entrare nelle grazie di Niccolò V, il papa che da un anno circa era succeduto al suo benefattore Eugenio IV.
Un primo risultato fu la nomina a referendario apostolico il 4 luglio 1448, ma soltanto dopo un anno e mezzo riusciva a ottenere il trasferimento dall'episcopato bergamasco all'arcidiocesi di Zara, vacante per la morte di Lorenzo Venier, che gli garantiva però una rendita inferiore a quella percepita a Bergamo.
Il F. sperava ancora di riuscire a migliorare la sua situazione grazie alla benevolenza del papa quando, all'inizio dell'estate del 1450, per sfuggire a un'epidemia di peste che aveva colpito Roma, lasciò in tutta fretta la città con il suo seguito in direzione di Verona. Mentre faceva tappa a Siena, morì dopo breve malattia il 22 giugno 1450.
La sua morte diede avvio a un durissimo contenzioso di carattere successorio tra Girolamo, il figlio naturale che il F. aveva avuto da Franceschina Vielmi, moglie di un calafato (con la quale aveva convissuto per lunghi periodi fin dai primi tempi del suo episcopato bergamasco), e Filippo, fratello del Foscari.
Nel corso della lunga lite giudiziaria Filippo giunse perfino a negare che Girolamo fosse veramente figlio del fratello e ad accusare Franceschina, definita dai testimoni da lui prodotti una pubblica meretrice, di averlo preso alla Pietà, l'ospizio veneziano degli esposti. La donna respinse naturalmente l'accusa, già tirata fuori dalla famiglia quando il F. era ancora vivente.
La lotta si protrasse per circa un ventennio senza esclusione di colpi, ma il fatto stesso che si rendesse necessario il ricorso ai metodi più subdoli per screditare gli avversari, indica che evidentemente la posizione di Franceschina e di Girolamo non era attaccabile sul piano del diritto. Non a caso la vicenda poté concludersi, almeno per quanto ci soccorrono le fonti, solo con un compromesso tra le parti e dopo la morte di Girolamo, avvenuta nel 1465.
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