Policleto e la misura del bello
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per i Greci ciò che è bello è ciò che ha ordine, proporzione, simmetria ed armonia; il primo a formulare una vera e propria teoria del bello è lo scultore Policleto attraverso uno scritto e una statua, oggi perduta, denominati il Canone in cui si espongono i principi per realizzare la figura umana perfetta e, quindi, giungere alla “costruzione” del bello.
Fin dall’inizio della loro storia i Greci hanno un’intuizione: il mondo è un kósmos, ossia un “ordine bello”. L’idea che la bellezza scaturisce dal meraviglioso accordarsi, in un progetto razionale riconoscibile, di tutto ciò che esperiamo coi sensi, trova in seguito una compiuta formulazione filosofica in Pitagora il quale, avendo individuato nel numero l’essenza del reale, dà fondamento ontologico alla bellezza: il bello è insito nell’ordine, l’ordine deriva dalla corretta proporzione tra le parti, la proporzione dalla misura e la misura dal numero. L’universo appare insomma ai Greci come un corpo “disegnato” secondo proporzioni appropriate e l’organismo più complesso e perfetto di cui hanno conoscenza – il corpo umano – ne rispecchia, come un microcosmo, la mirabile sintassi. Ci siamo sentiti ripetere tante volte che per i Greci “l’uomo è misura di tutte le cose” da rischiare di perdere di vista la verità letterale di questa affermazione. Per i Greci in effetti – come del resto per molte altre culture antiche – sono le parti del corpo umano a fornire le unità di misura: il dito, il piede, il palmo, il cubito (la distanza dalla punta delle dita al gomito), la tesa (l’apertura delle due braccia), e così via; ma è compito degli artisti stabilire quali siano i rapporti maggiormente armonici tra queste grandezze e trovare le tecniche per oggettivare il bello in una figura umana. La teoria per cui la bellezza consiste nelle proporzioni tra le parti è accettata per tutta l’antichità e mantenuta sostanzialmente fino all’Ottocento. Essa – secondo il grande studioso di estetica polacco Wladyslaw Tatarkiewicz può, ben a ragione, chiamarsi la Grande Teoria dell’estetica europea.
Il primo a formularla – almeno per quanto riguarda le arti plastiche – è Policleto, lo scultore greco nativo di Argo vissuto nel V secolo a.C. Egli è il primo scultore occidentale a scrivere un trattato sulla propria téchne, esponendovi i principi secondo cui doveva essere realizzata la figura umana perfetta. Con lui l’operare dell’artista passa dall’empiria alla riflessione, dall’oralità dell’insegnamento di bottega allo spazio letterario. Per illustrare la sua teoria Policleto realizza anche una statua che ne traduce in pratica i precetti. Tanto lo scritto che la statua hanno il nome di Canone (Regola).
Il testo del trattato policleteo non ci è purtroppo pervenuto. Da sporadici riferimenti di autori posteriori possiamo tuttavia ricostruirne alcuni concetti chiave. L’idea fondamentale è che il bello (to kallos) nasce dalla symmetria, ossia dalla possibilità di con-misurare (syn-metrein) estensioni diverse. Ma la commensurabilità nel campo dell’arte non è data, come in matematica, dall’uso di una stessa unità di misura. Non si parte da un numero per arrivare a stabilire quante volte esso è contenuto in ciò che si misura. È piuttosto un sistema che mette in relazione proporzionale due o più grandezze fra loro. La symmetria indagata e perseguita da Policleto riguarda – ci dice il medico Galeno – quella “di un dito rispetto a un altro dito, di tutte le dita rispetto al carpo e al metacarpo, di questi rispetto all’avambraccio, dell’avambraccio rispetto al braccio, e insomma di tutte le parti fra di loro”.
La symmetria policletea ha quindi un fondamento organico, cosa che rende il Canone del maestro argivo sostanzialmente diverso da tutti i canoni precedenti a noi noti. L’idea di costruire la figura umana secondo procedimenti geometrico-matematici non nasce infatti con Policleto, e neppure con i Greci. Già gli Egiziani usavano un canone. Lo scultore egiziano costruiva per prima cosa un reticolo di quadrati e successivamente vi iscriveva la figura. Il reticolo precedeva il disegno e predeterminava il risultato finale, in quanto le linee più significative della figura passavano obbligatoriamente per determinati punti. È accertato che in età arcaica kouroi e korai sono scolpiti con una tecnica simile, secondo un canone derivato dal cosiddetto “secondo canone” egiziano, il quale era basato su un reticolo che comportava la suddivisione del corpo umano in 21 parti e 1/4. In seguito, mentre gli scultori egiziani hanno continuato a partire dal reticolo per adattare ad esso la figura, gli scultori greci lo hanno abbandonato e sono partiti dalle membra, costruendo da queste lo schema della figura, secondo determinati rapporti proporzionali. Sulla symmetria lavora Pitagora di Reggio, che precede Policleto di almeno una generazione. Questo scultore – che alcune fonti indicano come nativo di Samo – potrebbe avere avuto rapporti di parentela con il filosofo suo omonimo ed essere stato influenzato dalla dottrina di questi. Anche Mirone, di poco più anziano di Policleto, si impegna sulla symmetria, con esiti addirittura migliori, stando a un giudizio riportato da Plinio il Vecchio. Costoro, però, non lasciano niente di scritto. L’originalità di Policleto sta invece proprio nell’aver dato fondamento teorico e carattere normativo al suo modus operandi.
Circa quest’ultimo, possiamo dire che l’approccio organicistico e non meramente metrologico non esclude affatto il calcolo matematico. Anzi, per Policleto la perfezione (to eu) si ottiene, come ci dice Filone (uno scrittore di meccanica del III sec. a.C.), “attraverso molti numeri”. L’avverbio sostantivato to eu significa letteralmente “il buono”, “il bene” ed è ben noto che per i Greci il bello e il buono sono intimamente correlati: l’aggettivo kalokagathos esprime appunto ciò che è apprezzabile sia sotto il profilo estetico che sotto quello etico e sociale.
La meticolosità di Policleto si esercita nello stabilire quei rapporti tra le parti della figura che portano a un risultato ottimale perché maggiormente armonici. Il termine harmonia è in effetti complementare a symmetria, come si ricava da un passo di Plutarco, che si ritiene ispirato proprio al Canone di Policleto, dove è detto che “in ogni opera il bello si realizza per mezzo della symmetria e dell’harmonia attraverso molti numeri che convergono eis hena kairon (verso quello appropriato)”. È l’harmonia a rendere esteticamente valida la symmetria: come dire che non basta un bravo matematico a fare un buon artista. È essenziale che questi sappia cogliere quel rapporto numerico particolarmente felice che coincide con il kairós. Accostando l’idea di bellezza a quella di kairós (il “momento propizio”, l’“occasione giusta”) i Greci esprimono la consapevolezza che la bellezza scaturisce dalla compresenza di molte condizioni, e che essa va colta nel suo transeunte manifestarsi, nel suo equilibrio precario (come quello della celebre personificazione che del kairós fece Lisippo). In Omero l’aggettivo kaírios designa il punto in cui meglio un’arma può penetrare per raggiungere un organo vitale: quindi qualcosa a cui mirare, un bersaglio. Esiste d’altra parte in greco la parola, kaîros – diversa solo per l’accento – che definisce l’apertura che per mezzo del liccio si produce sul telaio nell’ordito per farvi passare la navetta della trama. Entrambe le parole – che hanno una parentela etimologica – indicano dunque un’apertura che bisogna centrare con abilità e, nel caso del telaio, anche in un momento critico (prima che il passaggio si richiuda). Come il Canone e il kairós sono accomunati nella teoria dell’arte, così kaîros è associato a kanón nel lessico della tessitura. Kanón è infatti anche l’asta del telaio che guida orizzontalmente la corsa della navetta e che scorre longitudinalmente a mano a mano che si procede nella tessitura.
Sapremmo certamente di più sul Canone di Policleto se avessimo la famosa statua che accompagnava il trattato. Purtroppo non siamo in questa condizione.
Fino a poco tempo fa si riteneva che questa fosse il Doriforo (il portatore di lancia), l’opera policletea più celebrata dalle fonti antiche. Era stato un archeologo tedesco, Karl Friederichs, a identificare nel 1863 una statua trovata a Pompei, e ora al Museo Nazionale di Napoli, con una copia del Doriforo e a ipotizzare contestualmente che quell’opera coincidesse col Canone. Quell’ipotesi, che col tempo si era trasformata in verità acquisita, è stata contestata nel 2003 da Vincenzo Franciosi, per il quale la statua da Pompei non può essere il Doriforo, in quanto la posizione delle dita della mano sinistra e le tracce di ossidazione osservabili sull’avambraccio fanno piuttosto pensare che la figura imbracciasse uno scudo metallico. Il pugno destro, poi, doveva stringersi attorno ad un oggetto dalla sezione rettangolare, probabilmente l’elsa di una spada.
In ogni caso, quale che sia stato il vero Doriforo, è indimostrabile che esso fosse la scultura che accompagnava il trattato di Policleto. In effetti, nessuna fonte antica ci attesta in modo esplicito che il Canone era il Doriforo o viceversa. Plinio il Vecchio, che ci ha lasciato una lista di opere di Policleto, dopo aver menzionato il Doriforo, aggiunge: Fecit et quem canona artifices vocant (“fece anche quella statua che gli artisti chiamano canone”). Proprio quel fecit et – in tutti i codici che ci hanno tramandato il testo pliniano – ci obbliga a intendere che il Canone è altra cosa rispetto alla statua citata subito prima. In verità nessuna fonte antica ci dice cosa rappresentasse esattamente il Canone. L’unica cosa che Plinio aggiunge è che “da esso gli artisti ricavavano, come da una legge, i liniamenta artis”. È possibile allora che il Canone non fosse né un dio né un eroe, né un atleta, né un guerriero, ma solo una figura maschile ideale: una “illustrazione” del trattato, sulla quale si poteva riscontrare il sistema di proporzioni preconizzato dall’artista.
Va però anche tenuto presente che il significato originario del greco kánon è quello di bastoncino o bacchetta e che questo termine (etimologicamente imparentato con kánna, la “canna”) designa un’asta rigida che può servire a tirare delle linee diritte, come il righello dello scrivano. Ciò potrebbe far pensare che i liniamenta cui si riferisce Plinio fossero delle vere e proprie linee guida che, “sezionando” variamente la figura in altezza e/o in larghezza, delimitavano delle porzioni di estensione rispondenti a precisi rapporti delle parti tra loro e rispetto al tutto, proprio come avviene in tutti i Canoni posteriori a noi noti: per esempio in quelli di Leon Battista Alberti, Francesco di Giorgio Martini, Dürer e altri, nessuno dei quali rappresenta un personaggio determinato. La statua avrebbe dunque rappresentato qualcosa di simile all’homo bene figuratus di Vitruvio e al celeberrimo disegno leonardesco dell’Accademia di Venezia. Non un individuo, insomma, ma un meccanismo accuratamente congegnato per costruire il bello.
Ci piacerebbe conoscere nei dettagli il funzionamento di questo meccanismo, ma gli sforzi degli studiosi per penetrarne il segreto non hanno approdato a nulla di definitivo (anche perché non possediamo nessuna opera originale di Policleto, ma solamente delle copie). Il fatto che gli autori antichi parlino di “molti numeri” sembrerebbe escludere dei procedimenti geometrici, come una progressione di quadrati ciascuno costruito sulla diagonale del precedente o l’impiego della sezione aurea (che produce dei numeri irrazionali non gestibili con le conoscenze matematiche del V secolo a.C.). Non c’è unanimità neppure sull’unità di base (ma è favorita la falange distale del mignolo, il modulo minimo del corpo umano). Plinio dice anche che le statue di Policleto erano quadrate. Il termine è stato interpretato in vario modo, ma è possibile che la fonte utilizzata da Plinio alludesse al ruolo del numero 4 nella costruzione delle statue policletee. Si sa che il 4 era importantissimo per i pitagorici, perché rappresentava la fusione tra aritmetica e geometria, cioè tra numeri e figure. Nella cosiddetta tetrade il numero 1 è associato col punto, il 2 con la linea, il 3 col piano, il 4 col solido. La loro somma, 10, è il numero perfetto, che simboleggia l’ordine divino dell’universo. Anche nel corpo umano il 4 è rilevante: l’uomo ha quattro arti che, distesi, si iscrivono in un quadrato, ed è abbastanza certo che nelle statue di Policleto la testa è 1/8 dell’altezza totale, e che a sua volta 1/8 della testa è pari a 1/64 dell’altezza totale, che quindi risulta essere 4 al cubo.