Polibio di Megalopoli
Storico greco (n. 200 ca.-m. 120 a.C. ca.). Figlio di Licorta, influente uomo politico della Lega achea, in questa ebbe nel 169 l’importante carica d’ipparco, ma dopo la sconfitta di Perseo a Pidna (168) fu incluso tra i mille ostaggi che la lega dovette consegnare ai romani. Ottenne di poter risiedere in Roma e qui, introdotto nel circolo degli Scipioni, poté conoscere meglio quei romani che come acheo aveva avversato. Di qui il suo sforzo di comprendere le cause per cui Roma in nemmeno due generazioni (220-168) aveva esteso il suo dominio su tutto il mondo allora conosciuto; di qui pertanto la protezione e i favori dei suoi nuovi eminenti amici cui dovette la possibilità di compiere viaggi (Spagna, Gallia, Africa), spesso accompagnandoli nelle loro imprese (fu con Scipione Emiliano all’assedio di Cartagine nel 146). La fiducia che ormai i romani avevano in lui fece sì che nel 146, dopo la distruzione di Corinto che concluse l’ultima lotta degli achei per la libertà, P. fosse designato a provvedere al migliore assetto da dare alle città della Grecia, compito che cercò di disimpegnare senza avvilire i suoi antichi compatrioti. Oltre ad alcune operette minori, perdute (la biografia del generale acheo Filopemene, in 3 libri, un’opera giovanile; uno scritto di tattica e un altro sull’abitabilità della zona equatoriale), P. scrisse le Storie in 40 libri, nelle quali sono narrati gli avvenimenti dal 220-219 al 145-144 a.C.; i primi due libri sono una «preparazione» o «prefazione» alla trattazione vera e propria perché vi sono trattati in breve gli avvenimenti dal 264-263 (col 265-264 termina l’opera di Timeo) al 220-219; col libro 5° si giunge al 216 a.C., col 15° al 202, col 29° al 168. Dell’opera sono rimasti integri solo i primi 5 libri; abbiamo però gli estratti dai libri 1°-18° (gli Excerpta antiqua) e quelli raccolti da Costantino Porfirogenito. L’opera di P. era fondata su un rigoroso accertamento dei fatti mediante l’utilizzazione di fonti svariate: per le vicende più antiche delle quali non era stato spettatore, si avvalse di storici di vario valore e tendenza, quali il romano Fabio Pittore, l’agrigentino e filocartaginese Filino per la prima guerra punica, forse Postumio Albino e il filocartaginese Sileno per la seconda guerra punica. Per le vicende della Grecia segue in genere la tradizione achea (per es. le memorie di Arato), respingendo violentemente la tradizione filospartana (per es. Filarco); per gli eventi della sua età si fonda soprattutto sulla tradizione senatoria, sui suoi particolari ricordi e sulle testimonianze orali dei protagonisti degli avvenimenti. Non gli è ignoto l’uso di fonti documentarie dirette sulle quali esercita una approfondita ricerca critica; una notevole cura mostra anche nella disposizione cronologica degli avvenimenti, secondo gli anni olimpici (almeno per quanto riguarda i libri dal 3° in poi), sebbene talvolta venga meno alla rigida osservanza di questi canoni per motivi di opportunità. P. è uno storico pragmatico, nel senso che la sua indagine è unicamente volta a un rigoroso e scientifico accertamento dei fatti politico-militari, arricchiti dei chiarimenti cronologici, topografici e istituzionali indispensabili all’intelligenza dei fatti medesimi. Mancano nella sua opera quelle ampie e colorite digressioni che rendevano certo più variate le opere – nel complesso retoriche – di alcuni storici ellenistici, con i quali P. apertamente polemizza. La sua storia invece è espressa in una lingua austera, con uno stile «ufficiale» e tecnico, non sempre però molto chiaro. Viene spesso paragonato a Tucidide per l’impegno nell’indagine dei fatti e per aver bandito dalla storia, che è storia degli uomini, ogni intervento divino, ma ne resta assai lontano per l’assenza di calore umano nella narrazione, per la scarsa indagine psicologica e per la minore concretezza nell’analisi degli avvenimenti. Da Eforo P. mutua il disegno di una storia universale. Egli sembra aver posto mano alla sua storia a più riprese: ai libri 1°-29°, compiuti in un primo tempo, si aggiunsero più tardi i libri 30°-40°. Ciò risulta non tanto dal fatto che in alcuni dei primi libri Cartagine e la Lega achea sono considerate come esistenti, ma soprattutto dal diverso giudizio che, della Costituzione romana, si dà nell’ambito del libro 6°: ora considerata perfetta, e perciò non soggetta a decadenza, nella sua struttura «mista» di monarchia (consoli), di aristocrazia (senato) e di democrazia (tribunato della plebe), secondo l’ideale peripatetico, ora invece considerata soggetta a degenerare, secondo la dottrina stoica, dal reggimento degli ottimati a quello dei plebei. Queste incongruenze e questo mutamento di opinioni sono da giustificare secondo alcuni con una revisione cui P. attendeva negli ultimi anni della sua vita, dopo il tribunato di Tiberio Gracco (133) che aveva fatto intravedere la possibilità di un sovvertimento dell’antico ordine politico fondato sulla classe senatoria; secondo altri (e con maggiore probabilità) con la consapevolezza insorta nello storico degli elementi di crisi introdotti nella vita politica interna di Roma dalla politica di conquista e di imperialismo da questa praticata con particolare durezza negli anni 149-146.