Polenta
Famiglia di origini oscure che si ritiene derivasse il cognome dal castello omonimo, situato nei pressi di Bertinoro, nell'ambito territoriale e diocesano di Forlimpopoli.
Tale castrum risulta menzionato dalle fonti superstiti già nel corso del sec. XI, come punto di riferimento, assieme alla vicina pieve di San Donato, degli estesi possessi fondiari godutivi soprattutto dal monastero ravennate di San Giovanni Evangelista. Ma una connessione immediata fra i discendenti di questa famiglia e il castello omonimo si ha solo a partire dal 1182, quando i P. vi figurano come concessionari di terre di quell'abbazia ravennate, e, al pari di altre famiglie romagnole, cercano di fondare sul possesso fondiario le loro fortune politiche, rafforzandosi sul piano patrimoniale alle dipendenze, ma in realtà non di rado a spese, dei grandi enti ecclesiastici. Una significativa testimonianza di tali rapporti può essere ricavata dal Liber censuum della Chiesa romana, secondo cui i P., già almeno dagli ultimi anni del sec. XII, figurano come censuari dei papi per tre fondi situati nella diocesi di Forlì; terre che vengono poi confermate ai P. dai pontefici del sec. XIII, a iniziare da Innocenzo III.
Tali precedenti ci aiutano a spiegare come, a partire già dalla fine del sec. XII, i P. potessero figurare come dipendenti e più tardi addirittura come vicecomites degli arcivescovi ravennati; ciò che ne facilitò l'ambientamento e l'ascesa nel mondo sociale e politico ravennate.
Il primo ascendente del casato, storicamente individuato, cui venne attribuito il cognome P., fu un Geremia, ricordato da un cronista faentino coevo, il Tolosano (Chronicon Faventinum, a c. di G. Rossini, in Rer. Ital. Script.² XXVIII 1, Città di Castello 1937, 67 ss.), come un protagonista, negli anni 1167-68, della guerriglia comunale fra le città di Ravenna, Forlì e Faenza.
In tale circostanza che lo vide temporaneamente soccombente, Geremia, pur figurando come miles del castello di Bertinoro, già faceva parte integrante della solidarietà militare promossa dai Ravennati in funzione antifaentina. Tale linea di condotta che portava i P. a gravitare sempre più nell'orbita ravennate, fu perseguita dal figlio Guido e anche dai nipoti Alberico e Lamberto. A questi fanno capo due distinti rami del casato: dal primo discende Guido Riccio o Maior; dal secondo Guido Minor o Senex, l'uno rivale dell'altro soprattutto per questioni di carattere patrimoniale ed ereditario (ne è un esempio la spartizione dei diritti sul castello di Polenta, discussa nel 1238). Tali rivalità dinastiche si accentueranno nel corso del Duecento sino a sfociare, nella seconda metà del secolo, in due contrastanti orientamenti politici: tendenzialmente ghibellino quello di Guido Riccio, che da Ravenna dovrà ripiegare sul dominio di Comacchio e di altre località minori; guelfo quello di Guido Minore, che 7 con l'aiuto degli eredi riuscirà a fondare, prima su Ravenna e poi su Cervia, la signoria del ramo principale dei P.; quello, cioè, che più direttamente si collega con la vita e con la fortuna dell'Alighieri.
Ma già prima che tali rivalità si aggravassero i P. erano riusciti a prendere saldamente piede nel mondo ravennate e romagnolo: ne furono facilitati, oltreché dal progressivo trapiantarsi dei loro interessi fondiari dalle colline forlimpopolesi e forlivesi alle terre da poco bonificate nel Ravennate, anche dall'estendersi del loro parentado a nobili e potenti famiglie locali (Lazzari, Dusdei poi Caccianemici, Malatesti, Estensi, conti di Cunio, conti di Bagnacavallo) e soprattutto da un'attitudine durevolmente conciliante nei riguardi dei Traversari, la più potente famiglia ravennate. Di questa, che nel frattempo era passata dall'adesione agli Svevi al guelfismo, i P. seguirono per alcuni decenni l'alterna fortuna di dominatori e di esiliati. Se la fine del dominio svevo pose termine anche a questa lunga parentesi d'instabilità e d'incertezze, il successivo avvicendarsi dei legati papali per la ‛ recuperazione ' della Romagna alla Santa Sede offrì ai P. occasioni propizie al riacquisto delle posizioni perdute nella regione e a un ulteriore rafforzamento dinastico, com'è fra l'altro confermato dall'elezione e conferma alle più alte cariche comunali di varie città sia di Guido Minore sia dei suoi familiari.
Ma è solo col colpo di mano del 1275 su Ravenna da parte di Guido Minore che i P. assumono, sempre più incontrastati, il dominio della città. Ed è proprio a questo punto che la vicenda del casato comincia a legarsi indissolubilmente alla poesia di D., per poi influire anche sulla sua vita. A dire il vero, è solo nel momento in cui i P. già esercitano la loro tirannia su Ravenna e su Cervia che l'Alighieri ce ne fa la rievocazione: Ravenna sta come stata è molt'anni: / l'aguglia da Polenta la si cova, / sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni (If XXVII 41). Ma tali versi, riferiti idealmente dall'Alighieri al 1300, acquistano una loro più compiuta dimensione poetica e storica se collegati con l'evento decisivo del 1275, così carico di significati e di conseguenze. Infatti è in tale circostanza che, per il concorso determinante di Gianciotto Malatesti - anch'egli ormai prossimo a tiranneggiare col padre su Rimini -, si conferma la solidarietà politica fra P. e Malatesti e si fa così stretta da trovare un suggello nel matrimonio di convenienza fra Gianciotto stesso e Francesca di Guido Minore; un suggello infausto per la tragedia familiare che ne sortirà; ma, nondimeno, d'importanza vitale e particolarmente significante nell'itinerario della poesia dantesca; un momento, insomma, nodale che ha il suo scioglimento nel canto V dell'Inferno, dove i motivi di tensione fra tirannia e libertà trovano il loro superamento nella rievocazione che l'Alighieri fa del trasporto di affetti che unì i due cognati (vv. 82-142).
I P., dopo aver parteggiato con Guido Minore e i figli Bernardino e Lamberto nelle file del guelfismo di stretta osservanza papale durante gli anni cruciali del sanguinoso mucchio (If XXVII 44) e della sconfitta decisiva di Guido da Montefeltro e del ghibellinismo romagnolo (1282-83) - fu in tale occasione che Bernardino sottopose Cervia al dominio polentano -, assunsero un atteggiamento assai meno duttile verso la Santa Sede, fino al punto di ribellarsi apertamente ai papi e ai loro rappresentanti, soprattutto negli anni 1287-94, per controversie sulla politica annonaria e tributaria e sul controllo delle saline cerviesi.
A cavaliere dei secoli XIII e XIV, mentre talora tendeva a sfumare l'atteggiamento anticuriale dei P., si accentuò ulteriormente la loro presa tirannica su Ravenna: morto nel 1310 Guido Minore, venuto a mancare sei anni dopo anche il figlio Lamberto che in precedenza era stato riconfermato podestà cittadino per ben 12 anni, si affermò il nipote di questi, Guido Novello, che dal 1316 tenne, senza soluzione di continuità, la podesteria ravennate fino al 1321.
Gli ultimi mesi della sua signoria vennero pressocché a coincidere con la venuta di D. a Ravenna, in circostanze che, per quanto minutamente indagate da generazioni di studiosi, restano tuttora da chiarire sotto molti aspetti. Senza dubbio, l'atteggiamento anticuriale o quanto meno moderatamente guelfo dei P., assieme alla spiccata propensione di Guido Novello per la cultura e per la poesia, contribuì a creare alla sua corte condizioni idonee a ospitare l'Alighieri, se non già prima e, forse, saltuariamente, almeno negli ultimi mesi della sua esistenza. Certo che già antecedentemente a questa venuta, che potrebbe essere fatta risalire prudentemente agli ultimi mesi del 1319, doveva esistere un qualche rapporto fra D. e l'ambiente ravennate, se il figlio Pietro vi godeva i benefici delle chiese cittadine di Santa Maria in Zenzanigola e di San Simone de muro; nel che si potrebbe ravvisare un riflesso del mecenatismo e della liberalità dei P. che, mediante Caterina Malvicini, consorte di Guido Novello, esercitavano il patronato sulle due chiese.
All'ambiente della corte di Guido Novello e al mondo ravennate D. dovette senza dubbio essere strettamente legato, non per avervi assunto incarichi ufficiali d'insegnamento - com'è stato sostenuto da qualche studioso - ma per avervi contribuito ad animare un libero cenacolo di poetantes in volgare e in latino, assieme al signore stesso e a qualche suo curiale: come i notai Menghino Mezzani e Pietro di messer Giardino, i medici Fiduccio de' Milotti di Certaldo e Guido Vacchetta, e poi Dino Perini, Bernardo Scannabecchi e altri ancora. Una situazione, questa, riecheggiata fra l'altro dalla corrispondenza poetica di D. con Giovanni del Virgilio.
Ma oltre a questi rapporti, favoriti da comuni interessi letterari e artistici, altri ne dovevano esistere di propriamente politici, se D. fu incaricato da Guido Novello di un'ambasceria presso il doge di Venezia. A questo proposito si è giustamente osservato come l'Alighieri doveva essersi formata presso la corte veronese degli Scaligeri una valida esperienza della politica veneziana nel mondo padano e adriatico; esperienza che ora D. sarebbe stato chiamato a mettere a profitto della comune causa scaligero-ravennate contro la Serenissima.
Anche se a noi sfugge quali potessero essere i veri sentimenti dell'esule nei riguardi dei P. e in particolare di Guido Novello - ché a tal fine riferimenti e allusioni ai signori di Ravenna fatte dal poeta prima e durante la sua permanenza presso la corte polentana non possono né debbono necessariamente essere considerate come dettate da avversione preconcetta verso i P. -, ci sembra d'altra parte sufficientemente accreditato dalla testimonianza del Boccaccio un atteggiamento di immutato favore, anzi di aperta liberalità di Guido Novello e dei suoi familiari verso l'esule. Esso ebbe modo di mettersi in luce, oltreché nelle circostanze suindicate, anche quando furono tributate dal signore solenni esequie a D., che culminarono con un memorabile sermone funebre dello stesso Guido Novello; e continuò a manifestarsi col successore Ostasio che, a salvaguardia della memoria del poeta, nel 1329 ottenne dal legato papale Bertrando del Poggetto la remissione della condanna al rogo della monarchia e delle stesse ossa di Dante.
Ma, già poco dopo la morte dell'Alighieri, venne a mancare fra i P. quell'equilibrio interno e quella solidarietà dinastica che avevano caratterizzato l'ascesa del casato: col suo declino morale e politico anche la fortuna di D. nel mondo ravennate ne sarebbe stata, almeno temporaneamente, offuscata.
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