Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Cinquecento le varie esperienze della letteratura vengono regolamentate e istituzionalizzate, trovando una loro precisa codificazione nelle poetiche. Con la nascita di una teoria della letteratura, ha inizio anche un’attività critica che si occupa di analizzare testi e generi contemporanei.
La poetica del Rinascimento, sorta in Italia nel Cinquecento e poi diffusa negli altri Paesi e specialmente in Francia, si fonda sull’imitazione dei modelli antichi e sull’obbedienza alle regole proprie dei singoli generi letterari. Muovendo dal principio aristotelico in base al quale l’arte imita la natura, e poiché gli antichi sono stati perfetti imitatori della natura, si conclude che i moderni devono modellare le loro opere su quelle degli antichi. Inoltre la letteratura dei classici sembra presentare ai teorici del Cinquecento una netta distinzione tra i generi letterari, per ognuno dei quali valgono regole particolari. Così, mentre una classificazione sistematica dei generi esulava dalle intenzioni di Aristotele che si era concentrato sulla tragedia e sull’epica, nel XVI secolo, sulle orme di Cicerone, i generi vengono considerati forme chiuse, e l’originalità dello scrittore si manifesta entro i limiti di regole spesso arbitrariamente desunte dallo Stagirita.
Di fatto la fortuna del pensiero aristotelico è anche la storia di un continuo travisamento, che prosegue anche dopo che i suoi testi di poetica vengono diffusi e commentati, scalzando il modello dell’Ars poetica di Orazio.
Persino in un’opera di notevole livello teoretico quale i Poetices libri VII (1561) di Giulio Cesare Scaligero, si legge una sistemazione delle tematiche aristoteliche ottenuta anche a costo di smentire lo stesso Aristotele: l’origine divina della poesia, fondata sull’ispirazione e sulla tecnica; la necessità dell’imitazione della natura, o piuttosto dello scrittore che meglio rappresenta l’ideale di una poesia ragionevole, regolata e decorosa, ossia Virgilio; lo scopo educativo dell’arte, la definizione della tragedia, il concetto di verosimiglianza divengono gli elementi di una teoria letteraria che appare spesso astratta e arbitraria. Una conseguenza rilevante dell’interpretazione normativa di Aristotele è l’importanza data, nel genere drammatico, all’unità di azione (intesa come svolgimento di un’unica trama) e di tempo (per cui l’azione deve compiersi nello spazio di una sola giornata), e l’aggiunta, ad opera di Ludovico Castelvetro, di un’unità di luogo, in base alla quale viene escluso ogni cambiamento di scena.
Manifestazioni sporadiche di insofferenza verso la concezione precettistica dei generi si hanno già nel Cinquecento: in qualche caso al giudizio secondo le regole si oppone quello secondo l’effetto dell’opera sul pubblico (Gian Battista Guarini), ma solo nel Seicento esso troverà ampia diffusione. Anzi, intorno agli anni Quaranta del Cinquecento, dopo la “riscoperta” della Poetica (commentata da Francesco Robortello nel 1548) e della Retorica di Aristotele, le discussioni teoriche, specialistiche e tecniche si infittiscono, promuovendo una definizione particolareggiata dei generi letterari, nel rispetto spesso anacronistico della classicità. Tipico di questa fase di massima istituzionalizzazione della letteratura è un rigido atteggiamento normativo che trova appoggio anche nella precettistica di tipo contenutistico e morale, elaborata dalla Chiesa in campo artistico dopo il concilio di Trento. Così, di fronte a testi “irregolari” come la Divina commedia di Dante, l’Orlando furioso di Ariosto, la Gerusalemme liberata di Tasso e il Pastor fido di Guarini si delineano tre atteggiamenti possibili: far rientrare l’opera in uno dei generi conosciuti; condannarla quando la prima operazione appare impossibile (ciò accade spesso nei confronti di Dante); creare una forma nuova, contrapponendo ad esempio al poema epico secondo i modelli antichi, il poema romanzesco con regole particolari. In tale contesto nasce anche il problema del rapporto tra retorica e poetica: per Francesco Patrizi, di formazione neoplatonica, la prima è solo un’ancella della dialettica e non può limitare in alcun modo il carattere creativo del pensiero; più comunemente, invece, si diffonde un’errata interpretazione di Aristotele, secondo la quale la retorica va identificata nell’ornato, nella forma piacevole che può rivestire qualsiasi discorso, prestando un valido aiuto tecnico alla trasmissione del messaggio morale.
La più appassionata polemica del Cinquecento italiano, quella intorno all’Orlando furioso e alla Gerusalemme liberata, riguarda il modo in cui Ludovico Ariosto e Torquato Tasso hanno osservato le regole di Aristotele circa la forma epica: possono esse valere per la struttura anomala e irregolare del romanzo cavalleresco, genere di origine francese, provenzale e spagnola, di cui il Furioso pare un modello esemplare? Accanto agli aristotelici di stretta osservanza, tra cui Antonio Minturno e Sperone Speroni, che contestano il tono ironico e quotidiano delle forme moderne e le troppe concessioni al meraviglioso e alla molteplicità d’azione, vi sono coloro che tentano una conciliazione tra antico e nuovo: tra essi va ricordato Giambattista Giraldi, detto Cinzio, che nei Discorsi intorno al comporre dei romanzi (1554) affronta lo spinoso problema dell’unità d’azione, messo in crisi dal poema cavalleresco.
Per soddisfare le istanze di ordine e di razionalità portate avanti sulla scorta della Poetica aristotelica, egli propone un modello epico con un eroe unico cui può rifarsi una molteplicità di azioni. Ma il pubblico che apprezza la tradizione cavalleresca accoglie piuttosto male sia l’opera classico-mitologica di Giraldi Cinzio (Ercole, 1557), sia quella sulla spedizione di Belisario contro gli ostrogoti, narrata in modo conforme ai canoni classici da Gian Giorgio Trissino (L’Italia liberata dai goti, 1547-48).
Dopo una prima fase in cui vengono messi a confronto il Furioso e la Gerusalemme, la discussione si concentra in particolare sulla seconda opera, anche grazie agli interventi illuminanti di Torquato Tasso sul rapporto tra verità e storia. Intanto, i critici devono prendere atto dell’affermarsi di una nuova forma drammatica mista – il dramma pastorale e la tragicommedia – che fonde al proprio interno la nobiltà dei personaggi propri della tragedia e la trama a lieto fine della commedia.
Torquato Tasso
Discorsi del poema eroico, Libro I
Debbiamo ne la definizione de la poesia preporci un ottimo fine; ma l’ottimo fine è quello di giovare a gli uomini con l’esempio de l’azioni umane, perché l’esempio de le bestie non può giovare egualmente, e quel de le divine non è nostro proprio: dunque a questo deve esser dirizzata. La poesia è dunque imitazione de l’azioni umane, fatta per ammaestramento de la vita. E perché ogni azione si fa con qualche consiglio e qualch’elezione, si tratterà del costume e de la sentenzia per conseguente, la quale da’ Greci è detta dianoia; è benché, facendosi questa imitazione, si dia grandissimo diletto, non si può dire che duo sian i fini, l’uno del diletto, l’altro del giovamento, come pare che accennasse Orazio in quel verso:
Aut prodesse volunt aut delectare poetae:
perché un’arte sola non può aver due fini, l’uno de’ quali a l’altro non sia subordinato; ma o si dee lasciare da parte il giovamento de l’ammonire e del consigliare (come dice Isocrate), e co l’esempio di Omero e de’ tragici rivolger tutto lo sforzo de l’orazione al dilettare; o volendo ritener il giovamento, si dee dirizzar il piacere a questo fine; e peraventura il diletto è fine de la poesia, e fine ordinato al giovamento. Però si legge ne la seconda orazione del medesimo Isocrate che gli antichi poeti lasciarono ammaestramenti de la vita, per li quali gli uomini divennero migliori; e nel Panatenaico, che la poesia ci divertisce da molti delitti. Però null’altro esercizio piò conviene a la giovenezza. Ma il giovamento è considerato principalmente da quell’arte che è quasi architetto di tutte l’altre. Però al politico s’appartiene di considerare quale poesia debba esser proibita e qual diletto, acciò che il piacere, il quale dee esser in vece di quel mele di cui s’unge il vaso quando si dà la medicina a’ fanciulli, non facesse effetto di pestifero veleno, o non tenesse occupati gli animi in vana lezione. Non dee dunque il poeta preporsi per fine il piacere, come peraventura credeva Eratostene, ripreso da Strabone che difende Omero da l’imputazioni, ma ’l giovamento: perché la poesia, come estima il medesimo autore, seguendo l’opinione de gli antichi, è una prima filosofia, la qual sin da la tenera età ci ammaestra ne’ costumi e ne le ragioni de la vita. Ma quei che seguirono poi portarono opinione che solo il poeta fosse sapiente. Almeno si dee credere che non ogni piacere sia il fine de la poesia, ma quel solamente il quale è congiunto con l’onestà: perché sì come il diletto, il quale nasce dal leggere l’azioni brutte e disoneste, è indignissimo del buon poeta, così il piacere d’imparar molte cose congiunto con l’onestà è suo proprio. Laonde peraventura questo fine non è così da sprezzare come parve al Fracastoro nel suo Dialogo de la poesia; anzi paragonandolo a l’utile, è più nobil fine quel del piacere, perciò ch’egli è desiderato per se stesso, e l’altre cose per lui sono desiderate. Laonde in ciò è tanto simile a la felicità, la quale è il fine de l’uomo civile, che niuna cosa si può trovar più somigliante; oltre acciò è amico de la virtù, perché egli fa magnifica la natura de gli uomini, come si legge in Ateneo; onde coloro che amano il piacere e magnanimi e splendidi sogliono divenire. Ma l’utile non si ricerca per se stesso, ma per altro: per questa cagione è men nobil fine del piacere, ed ha minor somiglianza con quello che è l’ultimo fine. Se ’l poeta dunque in quanto poeta ha questo fine, non errerà lontano da quel segno al quale egli dee dirizzare tutti i suoi pensieri, come arciero le saette; ma in quanto è uomo civile e parte de la città, o almeno in quanto la sua arte è sottordinata a quella ch’è regina de l’altre, si propone il giovamento, il quale è onesto più tosto che utile. De’ due fini dunque i quali si prepone il poeta, l’uno è proprio de l’arte sua, l’altro de l’arte superiore, ma riguardando in quel che è suo proprio, dee guardarsi di non traboccare nel contrario, perché gli onesti piaceri sono contrari a’ disonesti.
T. Tasso, Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1959
Chi la esclude vede nella mescolanza dei generi una minaccia alla funzione pedagogico-morale dell’arte, più che un’infrazione alle ferree norme dell’unità di stile. E infatti la corrente guariniana non solo insiste sulla continua mobilità del sistema letterario, ma si pronunzia schiettamente per l’interpretazione edonistica della letteratura. Così, mentre l’Italia si avvia verso la poetica della meraviglia del secolo successivo, le altre nazioni apprendono e rielaborano le teorie del classicismo nostrano.
L’influsso della poetica italiana risulta estesissimo. In Spagna, ad esempio, con la sua Philosophía antigua poética (1596), Alonso López Pinciano tenta di inserire i generi spagnoli medievali e umanistici in seno a una documentazione classica, relegando la narrativa in una sottosezione del capitolo dedicato alla poesia epica. Nella Francia rinascimentale la grande fortuna della lirica produce numerose teorie italianizzanti sul valore affettivo della retorica, tra cui quelle di Thomas Sébillet, Pierre de Ronsard, Vauquelin de la Fresnaye. Nella sua Déffence et illustration de la langue françoyse (1549) Joachim Du Bellay sottolinea più volte la necessità per il poeta di conquistare il potere sull’animo e i cuori dei destinatari per raggiungere la persuasione, mutuando da Cicerone e Quintiliano e dai manuali di retorica tardomedievale gli elenchi delle passioni e dei particolari espedienti che sanno suscitarle. In Germania, Filippo Melantone rielabora invece la distinzione secondo cui lo scopo della dialettica è quello di insegnare, mentre la funzione della retorica è quella di commuovere. Così, negli Elementorum rhetorices libri duo (1531), tra i tre scopi della retorica, movere, docere e delectare, il movere diviene il più ricercato, mentre il delectare sembra accantonato; e fra le cinque parti del discorso – inventio, dispositio, elocutio, actio, memoria – l’elocutio riceve maggiore attenzione perché pare la più atta a porsi al servizio degli scopi persuasivi. Alla fine, la descrizione che Quintiliano offriva dell’elocutio come la risorsa più difficile da maneggiare, eppure la più importante, viene concordemente ripresa da Melantone, Du Bellay, Jacques Peletier Du Mans, Marco Gerolamo Vida, Sperone Speroni, Torquato Tasso e George Puttenham.
Ma per comprendere la supremazia conquistata dall’elocutio durante il Cinquecento si deve considerare che essa non è un semplice ornamento. Le figure retoriche sono infatti un tentativo di classificare le condizioni psicofisiche e le corrispondenti forme di discorso, entrambe viste come deviazioni dal comportamento abituale, rispetto al quale segnalano una perdita di equilibrio. Una delle più chiare riflessioni a questo proposito è quella di George Puttenham che nelle ultime pagine della sua Art of English Poesie (1589) sostiene appunto che le figure retoriche sono la cristallizzazione degli stati emotivi offerti dalla vita reale. Per lo stesso motivo poi, nella sua italianizzante Apology for Poetry (1595), Philip Sidney raccomanda prudenza nell’imitazione, che deve essere condotta in stretta relazione con il contesto psicologico e non in maniera meccanica. Alla fine, anche grazie a riflessioni di tipo tecnico, la poetica cinquecentesca esprime la necessità di concepire ogni opera d’arte come una creazione organica e coerente, entro un sistema omogeneo di valori letterari che si prolunga sino al tempo di Schiller, Goethe e Alfieri.