Poeti minori dell'Ottocento. Tomo II
Le nostre pagine altro carattere non vogliono avere che quello di giustificare l'impianto di questo secondo tomo, esercitando quasi la modesta funzione di guida topografica: per un'illuminazione più da vicino di ciascun autore il lettore potrà fidarsi completamente alle introduzioni singole (e talvolta alle note premesse ad ogni singola poesia). Al contrario infatti del primo tomo, dove preferimmo risolvere nel discorso continuato dell'Introduzione generale i problemi critici concernenti molti dei poeti più notevoli ivi raccolti, qui si sono tenuti distinti il tracciato schematico dell'Introduzione da una parte e dall'altra, ciascuno a suo posto, i ritratti dei poeti. E la ragione è evidente : se il primo tomo era dedicato alla lirica e in quel segno, in quella definizione di «genere», trovava la propria unità, questo secondo tomo è dedicato ad una materia multiforme e difforme; se il primo si aggirava, secondo un moto centripeto, intorno a una sola ragione di svolgimento storico, questo riunisce una materia discorde, non semplicemente per varietà di resultati lungo lo svolgimento di un complesso arco storico (dove, del resto, non è mai discordia), ma proprio nelle contemporanee diverse accezioni in cui la funzione della poesia viene intesa, e insomma secondo la pratica dei diversi «generi».
Certo che tali «generi» non dovranno essere considerati in una loro configurazione metastorica: anzi, è proprio sul piano storico che essi possono essere recuperati come elementi attivi di discorso critico. Questo libro è destinato a documentare la poesia dell'Ottocento nei suoi aspetti d'impegno più contingente, più intimamente legati a certi pronunciamenti del costume letterario romantico: si vedrà del resto che i poeti qui accolti, tranne rare eccezioni, non varcano il primo cinquantennio del secolo; ed è già questo un rilievo istruttivo. Significa che la lirica propriamente detta prende, a un dato momento, il sopravvento sugli altri «generi» minori. L'insofferenza che, in sede di sistemazione estetica, fu concepita verso la fine del secolo per una classificazione della letteratura in «generi», era già anticipata, come sempre accade, nei resultati pratici della poesia. Man mano che i postulati scientifici del positivismo invadevano il campo, si faceva strada d'altra parte (ed è solo una contraddizione apparente) una fede esclusiva nella significazione estetica della poesia: il precedente tomo può attestare che per molti poeti del secondo Ottocento è impossibile fare distinzione tra gli accenti di una voce privata e un intervento nei problemi pubblici. A tal punto la lirica, come « genere », livella le diverse destinazioni della poesia : sicché il concetto di strumentalità è riassorbito nella categoria del bello.
La presente raccolta intende invece dar prova dell'autonomia di queste funzioni laterali della poesia, in un tempo in cui l'impegno romantico poteva ancora consentirla. È così che più tardi Olindo Guerrini potrà essere considerato un poeta politico solo in accezione privata, vogliamo dire per un suo contributo squisitamente personale; ma in ogni modo fuori del carattere di «genere» che il romanticismo conferisce, in sede storica, alla poesia politica; è così che Giulio Salvadori potrà essere considerato un poeta religioso, appunto per una sua privata professione di fede, ma non già un poeta di religione: categoria, quest'ultima, che ci richiama perentoriamente alla situazione storica indicata dal De Sanctis nel saggio sul Mondo epico-lirico di Alessandro Manzoni, ove si tratta delle conseguenze pratiche aperte dalla reazione del 1815.
I
La prima sezione della nostra raccolta è dedicata alla poesia religiosa e didascalica. È inutile avvertire che anche stavolta abbiamo scelto solo quei poeti che, pure integrando una necessità storica d'ordine generale, rispondevano personalmente a quelle esigenze di originale autonomia dalla quale un discorso intorno alla poesia non potrà prescindere. L'Arici, il Torti, il Mamiani, il Borghi testimonieranno aspetti diversi e tutti utili di questo momento storico. Il primo segna l'indice del trapasso dal neoclassicismo ornamentale al classicismo cristiano: a lui si addicono i versi del Giusti nell'ode A san Giovanni.
. . . prete Apollo in maschera, che predica,
sempre pagano, sull'arpa idumea,
. . . ponsando diarrea
enciclopedica . . .
Il Torti invece sta a documentare quel più serio «movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della storia, al quale partecipavano gl'ingegni più eminenti e liberi del nuovo secolo» (F. De Sanctis, Manzoni, Torino, Einaudi, 1955, p. 4), insomma quella «reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne vedono le orme ne' Sepolcri di Foscolo e di Pindemonte» (ivi, p. 3). Una strada tutta propria tentò il Mamiani, ma anche tutta compresa nel dominio della letteratura, conciliando l'inno sacro con la suggestione omerica, e conferendogli un andamento di poemetto narrativo. E il Borghi infine, con la sua scuola solo manzoniana, con il suo compromesso espressivo tra linguaggio classicistico e musica romantica: che è poi lo stesso degli inni sacri di Cesare Arici.
A questo punto si richiederebbe una giustificazione maggiore sui nostri criteri di scelta. Si affacciano alla nostra mente nomi di poeti che, esclusi, rimordono la coscienza del raccoglitore; accolti, ingombrerebbero il terreno della nostra economia (e la legge dell'economia è stata ferrea nella struttura di questo secondo tomo): per esempio Geremia Barsottini, devoto del Manzoni e del Prati, da rammentare altresì per le sue relazioni col Carducci; Cesare Cantù autore non volgare di inni sacri; il religiosamente carducciano, e zanelliano, Giuseppe Manni; Angelo Maria Ricci, autore anche di poesia didascalica, di cui si potrebbe rammentare la Georgica de' fiori; Giuseppe Regaldi, che è forse il più notevole dei poeti di religione e civili che non appaiono nella nostra raccolta, ma non ha in nessun modo, come del resto gli altri or ora ricordati, una vera autonomia di personalità.
È questa una tabula absentiae che abbiamo esposto a mo' di esempio, e che potrebbe essere ripetuta, sostituendo i singoli termini, per ogni raggruppamento della nostra scelta.
II
La seconda sezione di questo tomo è dedicata alla poesia narrativa, un « genere » che affonda al massimo le proprie radici nel1'«impegno» romantico e che pare verificare l'equivalenza tra romanticismo e romanzo. Come tutti i casi d'impegno, ha caratteristiche strettamente temporanee ed è totalmente esposto all'usura o al giudizio del tempo. Tuttavia, in quanto narrativa «nobilitata» dal verso, esso pare' rispondere perfettamente a quella preferenza della nostra letteratura per una Calliopè che alquanto surga, come fu così ben detto da Luigi Russo a proposito delle direzioni di scelta critica del Carducci. Inutile rilevare che questa poesia soddisfa l'esigenza romantica di ricondurre i miti alla portata del popolo: non senza l'ombra di una posizione classisticamente equivoca, secondo la quale il poeta si fa dispensiere di nuovi miti a una classe sociale alla quale egli non appartiene: il poeta commissionario da una parte, il popolo, ideale ma non reale committente, dall'altra. Inutile anche sottolineare l'eco degli esempi stranieri, e di Byron in primo luogo. Deraciné rispetto alla tradizione si potrebbe a tutta prima ritenere il genere di questa poesia narrativa e romanzesca, e appunto come tale esso fu arcignamente accolto dalla reazione classicistica: Rosmini e Gioberti, Botta, Giordani e Niccolini, nomi tutti che, ancor sei anni dopo la metà del secolo, erano riassunti dal Carducci ed armonizzati tra loro nell'intento di rinverdirne l'attualità polemica (sicché si finiva per parlare di Goethe e di Byron come se ancora tenessero il campo, quando il romanzo francese aveva toccato con Balzac uno dei suoi culmini insuperati). In Italia, infatti, ci si scandalizzava ancora per le ballate e le novelle del Carrer e per quella Edmenegarda del Prati « da ver puttanesca », come la definì il Carducci ventunenne (Opere, Edizione nazionale, v, p. 132), in uno dei suoi provinciali e accademici imparaticci che non lasciavano certo prevedere gli svolgimenti futuri della sua personalità di critico.
Ma del resto quella poesia vilipesa non riusciva a portarsi su un piano decisamente diverso da quello della critica. Déracinée apparentemente, in realtà aveva in comune con essa un'abitudine classicistica: con un occhio guardava alla Germania e al Byron, ma l'altro era fisso a Dante e all'Ariosto, per raccoglierne e incastonarne le «bellezze» nelle nuove strutture della novella romantica: con un atteggiamento che non era poi molto diverso da quello del padre Cesari. Così specialmente il Sestini, che ci si presenta tutto bilanciato fra la tradizione classicistica e l'oleografia gotica. Nel Pellico ci sarà invece una più consapevole esperienza dell'esempio byroniano: basterebbe ricordare quanto la Francesca da Rimini (che qui, per ovvie ragioni, non appare) piacque al Byron; e nel Grossi una forza lirica autentica, la possibilità di svolgere certi temi a piena orchestra, per esempio quello della sete: e in tal senso è veramente un poeta da rileggere e da riscoprire, anche se chiuso, come è più forse degli altri, nell'ambizioso disegno di riportare la poesia romanzesca a una funzione interpretativa dei grandi sentimenti popolari (l'idea cristiana, la patria), in contrasto con le migliori doti liriche della sua voce.
L'unico che ci appaia ai limiti di rottura con la tradizione è il Prati, con quella sua «puttanesca» Edmenegarda, nella quale avverti talora che il diaframma della versificazione è il solo impaccio all'evasione in una diversa forma letteraria, che poteva essere quella di certa prosa tommaseiana fra torbida e morale: si rammenti del resto che Fede e Bellezza precede di un anno l'Edmenegarda. E quindi il Padula, che tenta una poesia narrativa «popolare», con una disposizione mimetica dell'anima e della fantasia del suo popolo, ma toccando tuttavia resultati assai inferiori a quelli delle liriche; e finalmente il Betteloni, che è un po' il liquidatore del «genere», forse il parodista, che non crede ormai più a quel fittizio cliente consumatore di nuovi miti che era il popolo dei romantici, e decisamente si volge alla borghesia scettica nella quale, con un'ombra d'ingenuo cinismo, contempla se stesso. E non a caso il Croce riconosceva nei Racconti poetici il meglio della sua ispirazione.
III
La poesia satirica e giocosa ha una parte di primo piano in questa raccolta. È ben noto che il Croce imputò alla poesia del Giusti di avere carattere intrinsecamente prosastico. Nel merito di questo giudizio, quanto alla sua validità in sede di sistemazione estetica, ci parrebbe ozioso entrare. A noi esso interessa qui soprattutto per rilevare un fatto cui già abbiamo accennato. L'esclusiva accentazione del carattere lirico della poesia, che nella seconda metà dell'Ottocento preparò la stessa posizione crociana e ne condizionò la decisa insofferenza verso la destinazione pratica di ogni prodotto poetico, fu quella ancora che determinò l'estinzione del « genere » satirico. La società borghese, ormai consolidata, non chiedeva alla poesia inquietanti spunti di satira, ma solo un puro piacere estetico. Oggi crediamo tuttavia che il momento sia propizio per trarre nuove conclusioni dalla lettura di questi poeti.
Il primo che abbiamo accolto, Filippo Pananti, è, in ogni modo, il meno « prosastico »; liberissimo anzi nel quadro di una sua gioconda esperienza settecentesca. Dal giornalismo dell'Addison alla filtrata prosa di memorie dello Sterne, dal divertimento dissipato della tradizione bernesca ai «concertati» del teatro comico o dell'opera buffa (si tratta di ipotesi di studio che crediamo del resto abbastanza verificabili), il Pananti estrae un quid unicum inconfondibile: è curioso di tutto, perfino Ossian rientra nei suoi programmi, ma non si lega a niente: il Pananti, intendiamoci, del Poeta di teatro o dei poemetti II paretaio e La civetta (che per ragioni di spazio non si sono potuti accogliere), non quello degli epigrammi, più famoso finora ma decisamente inferiore.
Il Guadagnoli è già invece dentro l'Ottocento, ma in un panorama ristretto ed umiliato dalla sua cultura casalinga ed oziosa. Non è uno scrittore «popolare»: scrive per divertire il popolo basso. E per divertire scrive anche il Fusinato, sia pure rivolto, con spirito di conservazione borghese, ad una classe di lettori più selezionata (al popolo egli riserba certe novelle esemplari, per impaurirlo e tenerlo a dovere). Fino al Riccardi di Lantosca che, come già il Betteloni per la narrativa, è un po' il liquidatore del «genere»: chi voglia può documentarsi su qualche testo erudito a proposito della tradizione della poesia giocosa e satirica; ma il Riccardi è ormai completamente al di là di queste ragioni storiche: se con Pape Satan Aleppe siamo nella misura del reportage giornalistico, col Pippetto, che è la sua opera propriamente satirica, siamo di fronte a un libro di degustazione squisita, e proibita, per pochi intenditori.
Il fulcro di questa raccolta resta pur sempre Giuseppe Giusti. E proprio in queste pagine d'introduzione abbiamo voluto riserbare al Giusti un discorso più ampio, essendo egli l'unico dei poeti presenti in questo tomo, sul quale si sia accentrata un'attenzione complessa e contraddittoria. Tuttavia, se abbiamo voluto rendere più evidente la nostra opinione sul Giusti immergendola nel quadro di questo discorso generale, ci asterremo, per ragioni di economia, dal descriverla in forma pienamente articolata, rinviando il lettore a quanto abbiamo detto nel nostro saggio su Giuseppe Giusti e la società fiorentina (ora raccolto in Letteratura e verità, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, pp. 37-62).
Ci piace tuttavia confessare, per debito di coscienza, che quando scrivemmo quel saggio ci erano sfuggite alcune pagine di Arrigo Cajumi, È ancor vivo Giusti? (raccolte in Colori e veleni, Napoli, E.S.I., 1956, pp. 169-78), che ci sembrano le più acute che mai siano state scritte su questo poeta, insieme col giovanile saggio carducciano del 1859. E siamo ora lieti di rendere giustizia al critico scomparso anche perché le sue osservazioni coincidono perfettamente con le nostre conclusioni: «La società italiana della prima metà dell'Ottocento, » scriveva il Cajumi «aristocrazia, borghesia e plebe, da Giuseppe Giusti colta e disegnata nel periodo di fermentazione che precedeva e accompagnava il Risorgimento, ritraendo al vivo la natura umana durante le convulsioni politiche, restò intatta fra le chiuse pagine del suo libro, e si preferì, leggendolo, batter la via patriottica, ricordare le strofe antitedesche, raccogliere le frequenti punzecchiature anticlericali...» (p. 174): che è un rilievo incontrovertibile sulla fortuna critica del Giusti, quando si pensi che del Ballo, della Vestizione, della Scritta, per citare solo alcuni titoli tra i più sintomatici, non fa parola il Croce nel suo saggio: a tal punto il Giusti politico e prequarantottesco era emerso dal complesso vivo del suo libro, sull'onda degli eventi, e, quasi per forza di tradizione orale, più che per controllo diretto, si era accampato nella memoria dei suoi non-lettori: del resto la prima operazione critica che un caso di poesia impone sarebbe proprio quella di riuscire a superare l'antologia speciosa che la tradizione ci consegna, verificarla nella completezza organica dell'opera e finalmente sostituirla alla luce di esperienze nuove.
Per il Giusti invece ha avuto valore soprattutto quella superstizione secondo la quale il lettore si riduce a fare il punto su un discorso precedente progressivamente continuo, intervenendo sì nella sistemazione dei dati acquisiti, ma astenendosi da ogni brusca inversione di marcia. E tale superstizione è documentabile appunto lungo l'arco che va dal saggio correttivo del Carducci, del 1874, Dopo quindici anni, alla sintesi crociana del 1923, che, avvalendosi di giudizi precedenti, ha riproposto il discorso, ma non ha contribuito ad impostarlo in termini nuovi. Sicché ci pare sintomatico un recentissimo giudizio di Ferdinando Giannessi, nella sua edizione delle Poesie giustiane, a proposito delle ricordate pagine del Cajumi: «... spregiudicatezza che nulla aggiunge al problema critico ma gradevolmente stimola e incuriosisce il lettore» (Bologna, «Capitol», 1960, p. 421).
E tornando al Cajumi, egli più concretamente aggiungeva: « Siamo troppo avvezzi a cercar nel Giusti il Sant Ambrogio, lo Stivale, la Ghigliottina, l'Incoronazione, i palpiti e i fremiti del Risorgimento, e magari il Papato di Prete Pero, o il Re Travicello, per studiare e ricostruire seriamente la complessità del suo ingegno. Le calunnie di cui l'abbeverò il Tommaseo, la incomprensione del Croce, la riserva del conterraneo Ferdinando Martini, le superficiali amabilità del Manzoni a cui più della ispirazione poetica premevano la lingua e il toscaneggiar dei proverbi, hanno contribuito ad allontanar molti da lui. . . mentre la sua commedia umana rimane attualissima» (p. 177).
Del resto il Carducci del 1859, che pure aveva tutti i diritti di avere la mente frastornata dall'urgenza politica, seppe vedere a fondo nella sostanza della poesia giustiana, non politica ma satirica, non tirtaica ma critica. Si ricordi questo squarcio descrittivo: «Tra la nobiltà smunta e il popolo corrotto, s'accampa la borghesia mercatante; la quale, potente dei sùbiti guadagni, salta dalla banca al casino, e, repudiando e calcando il popolo da cui pure ella esce, minaccia formare una nuova aristocrazia, dannosa non meno dell'antica all'incremento delle libertà popolane. Questa negli stati liberi invade le tribune e i ministeri, e dirige la politica secondo il corso de' valori, e l'onore della patria e la libertà sottopone al sacchetto; questa tenne alto in Francia Luigi Filippo e il sistema di corruzione; questa minacciava l'Italia: e il Giusti avventa anche a lei gli strali dell'arco satirico, e le origini gl'incrementi le arti abiette ne svela al popolo nella Vestizione e nella Scritta ; come l'inchinare del secolo agl'interessi e a' godimenti materiali maledice nell'ode A san Giovanni» (cfr. Opere, cit., XVIII, p. 292).
E a rincalzo, più tardi, il De Sanctis, nella Storia della letteratura italiana, lasciava un giudizio che, a parte qualche genericità e sfocatura, non mancava di sottolineare nella poesia giustiana, prima di tutto, la sua portata critica, il suo significato saggistico, ben al di là di qualsiasi motivo contingentemente quarantottesco: «Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de' Medici che gittasse una occhiata ironica sulla società quale l'aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale ammiccavano le idee liberali, gli Arlecchini, i Girella, gli eroi da poltrona, furono materia di un riso non privo di tristezza ... Ciascun sistema d'idee medie nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell'equilibrio dottrinale così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell'assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d'acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti» (cfr. l'edizione a cura di N. Gallo, in Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, p. 842). Né meno significativo è l'accenno contenuto nell'Introduzione, del 1883, alle lezioni leopardiane, dove, riprendendo spunti precedenti, il De Sanctis rimpiange di non aver potuto dedicare al poeta toscano «uno studio apposito e maturo» (cfr. La letteratura italiana nel secolo XIX, III, Giacomo Leopardi, a cura di W. Binni, Bari, Laterza, 1953, p. 1).
Ora, in un quadro siffatto (che è quello proprio nel quale va considerata la reale statura del Giusti) non c'è posto per Lo stivale, né per II Re Travicello, né per La rassegnazione, né per Sant'Ambrogio, né infine per quella «pedanteria in manica di camicia» di cui il Carducci, nel 1874, parlava a proposito dell'epistolario, ma con estensione esplicita alle «pose» e alle «movenze» dei versi, né per le «chicche» che piacevano al Manzoni (Opere, cit., XVIII, pp. 344-5). Del resto il saggio carducciano Dopo quindici anni non dovrà essere considerato - come è stato detto - quale ridimensionamento di una figura a cui il Carducci aveva prestato molto di se stesso; ché proprio la preoccupazione di riportare in una prospettiva letteraria europea l'opera del Giusti finì per deformare la prospettiva medesima, astraendo lo scrittore dal suo preciso quadro storico-geografico, misurandolo sì in un rapporto di letteratura comparata, ma prescindendo dal rapporto primo che il Giusti aveva stabilito tra la propria poesia e la società toscana. Il Giusti poeta paesano, si è detto e ripetuto a tale proposito. No; il Giusti fu il poeta di una società che era appunto quella e non poteva essere altrimenti: provinciale, arretrata, miniaturistica, rispetto alla società francese contemporanea, ma simile nelle leggi che la sostenevano. « Ora a un critico futuro del Giusti » scriveva il Carducci nelle sue pagine correttive « rimane a studiare fino a qual segno avesse parte e potesse nella poesia di lui l'imitazione o l'esempio del Béranger: e perché di soffio, di essenza alata, d'anima lirica il toscano n'abbia assai meno del parigino, e perché nell'elemento tra lirico e comico aristofaneo e nel fantastico epico non che nella discordia elegiaca ceda di tanto al Heine» (Opere, cit., XVIII, p. 342). Qui appunto quella sfasatura storico- geografica di cui si parlava.
Sui rapporti tra Giusti e Béranger si è scritto molto: uno dei più nutriti capitoli della bibliografia giustiana (e pur così laterale, da poter essere omesso in una descrizione sommaria); ma chi pose la questione in termini obiettivi e ne rilevò altresì l'inconsistenza, fu anche colui che per primo l'aveva affrontata: Enrico Montazio, un nemico personale del Giusti, un di quei democratici arrabbiati che promossero contro di lui, nel 1848-49, una campagna di stampa a intento diffamatorio che ha ingombrato poi tanto lo svolgimento della critica. In ogni modo il Montazio è, fra tutti i detrattori del Giusti, il più acuto: e il suo giudizio ebbe peso anche sulla revisione del Carducci. Sulla «Frusta repubblicana» del 4 febbraio 1849 egli scriveva: «. . . i primi saggi della musa del Giusti apparvero maravigliose creazioni: l'ardimento suo, nobile patriottismo: ed una voce generale lo salutò il Béranger dell'Italia. E tale denominazione fu un errore, se non peggio. Béranger è il poeta del popolo. Nelle sue facili melodie più spesso commoventi che iraconde, più spesso morali che satiriche, e nella satira stessa sempre ricche di democratici insegnamenti, il popolo francese trovò per lunghi anni, e troverà per molti anni ancora, un conforto alle sue miserie, un compagno nei solinghi dolori, un consolatore nell'ardua fatica della giornata. - Il Giusti nelle sue poesie è immaginoso, è libero, è facile, è pieno di mordace ironia e di sarcasmi che, convien dirlo, qualche volta più che dello spirito senton del triviale, ma la musa del Giusti è scettica, ed il popolo non è scettico: perciò le poesie sue giammai corsero popolari, né mai fu udito il popolo applicarvi uno dei suoi ritornelli e sommessamente cantarle, come pure faceva di talune fralle poesie di Berchet, della Clarina in specie, la quale forse fece più nemici a Cari'Alberto, che non tutte le congiure della Giovine Italia. A chi bene addentra il concetto di ogni poesia del Giusti, più che lo spirito di ardente italianità, vi ravvisa lo spirito della satira, la voglia del mordere, lo istinto del frizzo, pungente sempre, e quasi sempre spontaneo...» (in G. Giusti, Epistolario, IV, Firenze, Le Monnier, 1932, p. 282).
La conclusione è ineccepibile: il Giusti non fu un poeta popolare: il discorso del Montazio, che si era avviato con intenzione fortemente limitativa, approda a un accertamento critico fondamentale, che tuttavia non contiene in sé alcunché di negativo. Se il Montazio cercava un poeta capace d'intonare un Ça ira toscano, sfogo alle sue smanie repubblicane, certo il Giusti non poteva essere quel poeta. Ma la poesia popolare s'identifica prima di tutto, anzi essenzialmente, in un «registro» letterario, e di tenuta assai rischiosa. Un «registro» che di per sé non sottintende nessuna qualifica sociale in senso positivo e progressistico. Il Montazio non s'immaginava che il Berchet, poeta del popolo, sarebbe finito codino e rigido partigiano della destra monarchica alla Camera di Torino. E del resto non è detto che la poesia del popolo non possa nuocere al popolo stesso ed essere anzi il miglior veicolo di un soporifero oppio. Basterebbe rammentare l'opera popolarissima di Pietro Paolo Parzanese che si proponeva di controbattere la forza di quell'altra poesia popolare che nel Béranger appunto aveva il suo esponente: «In Alemagna, in Francia ed altrove» aveva scritto il poeta di Ariano di Puglia «... è invalso da qualche tempo il costume di spargere fra gli artigiani certe canzoni che rinnegando Dio ed il Paradiso, la patria, la famiglia e la giustizia, vengono toccando in quelle anime rozze e risentite alcune piaghe assai profonde e dolorose » (cfr. il tomo I di questa raccolta, p. 217). Quale contravveleno il Parzanese aveva scritto Gli operai:
Fatichiam, fratelli. Quando
noi nascemmo, Iddio ci disse:
- Voi vivrete lavorando -
e dal ciel ci benedisse.
Pan bagnato di sudor
pure è dono del Signor.
Quel ch'ei vuole, noi vogliamo;
fatichiamo, fatichiamo . . .
Insomma il senso critico e direi saggistico (antipopolare) della migliore poesia del Giusti non implica affatto una minore sensibilità nei confronti della destinazione sociale del fatto poetico.
In tempi anche molto recenti, quando si rileggeva De Sanctis attraverso il diaframma di Gramsci, si concluse, implicitamente, che era assai più semplice richiedere a un poeta la tessera del partito, per trarre le proprie conclusioni critiche, anziché controllarne il testo. Il Giusti, ahimè, era « iscritto » al partito moderato-liberale di Gino Capponi (in quali termini e con quale limite d'indipendenza abbiamo cercato di dire nel nostro saggio ricordato). All'intemerato costume politico dei nuovi italiani quell'«iscrizione» equivalse a una condanna. Ma in realtà era un rilievo di poco conto: ché la vera poesia del Giusti non ebbe mai accento politico, bensì critico e saggistico, descrittivo e diagnostico, e non già clinico. Egli si muoveva piuttosto sul piano di una sua meta-politica, sull'orizzonte di una sua «patria celeste», come avrebbe detto Luigi Russo. Non è bastato del resto il caso di Balzac a chi, in veste di poliziotto della critica, abbia voglia di chiedere ancora ai poeti la «tessera» del partito in cui militarono? Si provi un po' a chiederla a Giuseppe Verdi, che in tutta la sua attività politica e parlamentare non fu che un modestissimo pedissequo di Cavour: se ne dovrebbe concludere che la sua musica ebbe carattere borghese-moderato!
Certo i rapporti tra il Giusti e il Capponi, e cosi più tardi col Manzoni, il Grossi, il Torti, meritano di essere considerati: e si vedano a questo proposito i brevi cenni che abbiamo dato nella biografia del poeta premessa alla nostra scelta: essi segnano il declino della poesia del Giusti, la sua fase di politicità legata a un piano pratico, ben lontana da quella destinazione «celeste» di cui si diceva. Uniche forti eccezioni, eredità postuma di un'ispirazione trascorsa, resteranno Gingillino o La guerra-, casi normali, in quanto accordati col nuovo clima, La rassegnazione o Sant'Ambrogio. L'amicizia col Capponi o con gli altri rappresentanti ufficiali della cultura italiana non giovò al Giusti, non abbiamo alcuna difficoltà ad ammetterlo. In questo poeta anticonformista c'era una vena di conformismo privato, di mimetismo spicciolo, che i tempi provvidero a coltivare. Ma ciò non esime da una lettura del Giusti in direzione opposta, nell'intento di precisare la sua meta-politica al di là di ogni politica contingente.
Quel che insomma resta da fare è uscire dall'impasse che riassume il Giusti nel simbolo di Sant'Ambrogio (era questo un altro registro perpetuo della sua ispirazione - basti pensare allo Stivale - che tuttavia si precisò col tempo in accezione storica e dal sottofondo rimontò in primo piano). Sicché i simpatizzanti del Giusti, dopo aver pagato l'obolo ai suoi detrattori, sogliono concludere che, tuttavia, il Sant'Ambrogio è una buona cosa; e i detrattori, dal canto loro, e con miglior gioco, che neppure il Sant'Ambrogio finisce di contentarli.
Finalmente a chi esercitasse la critica stilistica con sentimento storico non dovrebb'esser difficile dimostrare che le «lascivie della lingua fiorentinesca», la «pedanteria in manica di camicia», le «chicche» (G. Carducci, Opere, cit., XVIII, pp. 344-5). sono profuse minibus plenis nella Rassegnazione e nel Sant'Ambrogio; ma non ve ne sono nel Ballo, nella Vestizione, nella Scritta, in Gingillino. In una lettera a Gino Capponi del 2 dicembre 1846 il poeta scriveva: «Ti rammenti quanto abbiamo almanaccato colla testa per trovare il filo di temperare il piglio troppo confidenziale della Rassegnazione ? » (Epistolario, cit., II, p. 461). Anche a lui, evidentemente, e al Capponi perfino, quel lezio manzoniano sembrava troppo. D'altra parte, in una lettera al Tommaseo di pochi giorni prima, il Giusti difendeva la difficoltà del suo «trobar clus», così lontano, anzi all'opposto, dal «piglio troppo confidenziale» della Rassegnazione: «Vedo che Ella non mi passa le frasi torturate e che sanno troppo di rabesco, solito scoglio di tutti i nemici delle tiritere e del brodo lungo. Correggerò: ma ho gran paura di dare nel dilavato, segnatamente in certi metri che, non tenuti su, slabbrano da tutte le parti» (Epistolario, cit., II, p. 460); e nella stessa lettera al Capponi diceva, a proposito delle correzioni proposte dal Tommaseo: «... una sintassi più liscia mi scemerebbe forza e vivezza ».
Come volevamo, il nostro discorso non è stato altro che una proposta di revisione. Le conclusioni le trarrà il lettore sulla base della nostra scelta, nella quale si riporta e il Giusti convenzionale, per debito d'illustrazione della sua fortuna storica, e il Giusti nuovo: non tutto, naturalmente, sempre per ragioni di spazio; ma sembra che la lettura di tutto il Giusti sia riserbata solo ai tipografi che, di tempo in tempo, van componendo per le stampe la raccolta delle sue poesie. Un Giusti comunque tale da resultare un poeta assai più grande del riconoscimento che, di solito, gli è concesso.
IV
La quarta sezione di questa raccolta è dedicata prevalentemente a una «mostra» di cimeli storici del Risorgimento. Come tutte le mostre, non ha ambizione di completezza, ma solo d'indicazione documentaria. L'abbiamo aperta nel segno eroico del Mameli di Fratelli d'Italia, tanto diverso nel registro da quello che abbiamo conosciuto nel primo tomo, da giustificare in pieno, ci sembra, il nostro criterio di distribuzione per «generi». Seguono il Gazzoletti, il Bosi, il Mercantini, e tutti prendono avvio dal '48, vale a dire da un alto momento storico che essi portarono al livello della coscienza popolare. A parte stanno gli stornelli del Dall'Ongaro per quel loro principio di mimesi linguistica che non si limita a interpretare l'anima del popolo, ma si propone d'investirsi della sua stessa struttura espressiva, del suo interiore movimento psicologico.
Canti del popolo potrebb'essere intitolata questa sezione: tenendo fissa la distinzione cui abbiamo ora accennato e dando per scontato che la nostra raccolta esclude, per i limiti stessi che essa s'impone, la vera e propria poesia popolare, o folkloristica. E, più precisamente, canti «per il popolo» quelli del Mameli e degli altri poeti che si sono ricordati insieme con lui; canti «del popolo» solo quelli del Dall'Ongaro. A parte, il caso di Domenico Carbone, che potrebbe anche essere considerato, per certe cose, un epigono del Giusti, ma che per altri aspetti riuscì, come non mai il Giusti, a trovare una vera e propria eco di massa.
Una documentazione più ampia sarebbe forse stata oziosa, tenendo conto del carattere fondamentalmente indifferenziato di questo linguaggio; ma chi voglia potrà ricorrere ad antologie apposite : per esempio i Canti della patria, a cura di A. Bini e G. Fatini, ricordati nella Nota bibliografica del primo tomo; mentre non rientra nei nostri interessi un'antologia come quella della Poesia popolare nel Risorgimento italiano, a cura di R. Calisi e F. Rocchi, Roma-Milano-Napoli, Vito Bianco, 1961.
V
Finalmente l'ultima sezione accoglie esempi di traduzioni poetiche. Quale possa essere l'azione determinata dall'opera dei traduttori sulla poesia originale dei contemporanei, sarà inutile rilevare: basti pensare al nuovo corso delle lettere italiane sullo scorcio del Settecento in seguito alla conoscenza, attraverso traduzione, dello Young, del Gray, del Macpherson, del Gessner, del Goethe. Del resto nell'Introduzione al primo tomo si è accennato alla grande mediazione culturale esercitata dal Maffei traduttore nel quadro del secondo romanticismo italiano.
Le traduzioni che qui si presentano vogliono essere come un'appendice - in quanto specchio vivo di storia della cultura - alla raccolta di questi due tomi. In principio esse s'inscrivono nel proposito di ampliamento culturale, in senso antinazionalistico e anticlassico, iniziato dal romanticismo nella sua fase più programmatica e attiva: il lettore vi ritroverà alcune pietre dello scandalo, come le versioni berchettiane dal Bürger, che si citano in tutte le storie letterarie. Sarà poi la volta, dopo il Berchet e lo Scalvini, di un aggiornamento più critico col Maffei e, soprattutto, con lo Zendrini ; di una divagazione parnassiana alla ricerca di gemme straniere da restituire in perfetta equivalenza di stile, con lo Zanella; di una più raffinata e decadentistica degustazione col Nigra e col De Bosis.
Ma sarà facile capire che il significato di pienezza storica toccato da un Berchet, da uno Scalvini, in un momento in cui il poeta traduttore s'investe di una responsabilità che difficilmente il suo stesso lavoro originale avrebbe potuto consentirgli, non sarà più raggiunto dai poeti che seguono. Per uno Zanella o un De Bosis l'atto della traduzione significa prima di tutto, o quasi essenzialmente, un arricchimento personale, un esercizio privato; in Berchet, in Scalvini, nello stesso Maffei, esso riteneva ancora un pieno valore di socialità culturale. Per questo, a misura che, con la divulgazione delle letterature straniere, le traduzioni vanno facendosi più frequenti e più intimamente sorrette da una precisa coscienza critica, tanto meno interessano al nostro quadro che, nella sua struttura sommaria, è stato sorretto ora dal criterio della portata storica della traduzione medesima, ora da quello del suo preciso riflesso sull'esperienza originale di un poeta. Ma è inutile dire che la prima direzione ci è parsa la più interessante, ed ha finito col prevalere.
Altre cose forse il lettore cercherà espressamente in questa sezione: per esempio alcuni saggi di traduzioni scespiriane del Carcano o di Carlo Rusconi. Ma testi siffatti assumeranno tutto il loro valore solo quando appariranno a fiancheggiare la raccolta del teatro italiano dell'Ottocento, accanto ad opere del Pellico, del Niccolini, del Cossa. Ché in realtà la divulgazione pure utilissima di Shakespeare, di Schiller e d'altri, ebbe un'importanza minima ai fini di un discorso poetico italiano, e notevolissima invece nell'ambito del nostro teatro. Unica eccezione è costituita da alcuni saggi di traduzione del De Bosis dai Cenci di Shelley: in quanto appunto si tratta di cose che ben s'inscrivono nell'aura poematica del «Convito» e prescindono da qualsiasi interesse preciso ai fatti del teatro.
Altre sezioni potevano essere aggiunte: per esempio una dedicata alla poesia latina, nella quale trovasse il suo spicco anche Leone XIII. Ma i limiti fisici di un libro sono un alibi già troppo evidente perché si debbano cercare nuove giustificazioni.
Luigi Baldacci
Nel presente tomo sono affidati alla cura di Giuliano Innamorati i seguenti poeti: nella sezione I: Giovanni Torti, Giuseppe Borghi. II : Silvio Pellico, Tommaso Grossi, Vincenzo Padula. III : Filippo Pananti, Vincenzo Riccardi di Lantosca. V: tutti i poeti ivi compresi.
Alla nostra cura sono affidati invece nella sezione I : Cesare Arici, Terenzio Mamiani. II: Bartolomeo Sestini, Giovanni Prati, Vittorio Betteloni. III: Antonio Guadagnoli, Giuseppe Giusti, Arnaldo Fusinato. III : tutti i poeti ivi compresi.
Richiamiamo infine alla nostra responsabilità la struttura generale di questo tomo.
L. B.