GIOCOSA, POESIA
Quantunque nella tradizione retorica italiana la poesia giocosa sia spesso considerata come un genere letterario, è evidente che il "giocoso", il "burlesco", il "faceto" è un contenuto di cui non è possibile vedere un'unica linea di svolgimento, come quello che può adagiarsi nei fondamentali generi poetici: epica, lirica, drammatica (commedia dell'arte, opera buffa, farsa, pochade). Rimandando perciò agli articoli riguardanti queste ultime forme, si tratterà qui della lirica e dell'epica giocosa.
Per la lirica giocosa si può risalire al primo secolo della letteratura italiana, a quei poeti toscani realistici e borghesi (Rustico di Filippo, Forese Donati, Folgore da San Gimignano, Cene della Chitarra, Cecco Angiolieri), nei quali si riflette nella sua realtà, anche volgare, la vita del comune. Pieraccio Tedaldi congiunge questa schiera ai rimatori borghesi della seconda metà del Trecento, fra i quali eccelle, con i sonetti, Antonio Pucci. Nella prima metà del Quattrocento, fecondissimo cultore della poesia burlesca fu il fiorentino Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, che amò anche quella maniera fatta di ghiribizzi senza senso, che fu detta appunto "burchiellesca". I più noti dei suoi seguaci, della seconda metà di quel secolo, sono Antonio Cammelli, detto dalla patria il Pistoia, che lo supera per originalità e vigore comico, e il fiorentino Bernardo Bellincioni. Erede e perfezionatore elegantissimo della tradizione della poesia giocosa fu nel primo Cinquecento Francesco Berni, che con i suoi sonetti caudati, o sonettesse, e con i suoi capitoli ternarî rinnovò i cosiddetti "temi fissi" della poesia burlesca, dando assetto definitivo al genere che da allora in poi fu detto "bernesco". Molti ne seguirono le orme, senza avere l'umore del Berni, anzi cadendo in una frivolezza che rasenta la scipitaggine, quando non cade nell'oscenità. Tra questi si ricordano ancora Francesco Mauro d'Arcano e, migliore e più fecondo di tutti, Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca. La poesia bernesca continua nel Seicento coi sonetti giocosi del Tassoni, del fiorentino Francesco Ruspoli, di Gian Francesco Lazzarelli da Gubbio, con le rime di Alessandro Allegri fiorentino, di Giovanni Gelsi da Siena e di altri. Lo stesso Galileo scrisse un gustoso capitolo per berteggiare l'obbligo dei professori pisani d'indossare la toga. Ma in quel secolo la poesia giocosa si complica con gli enigmi scherzosi, gli equivoci e le freddure. Il Settecento ebbe un vero culto per il Berni. La stessa Arcadia non disdegnò di scapricciarsi in sonettesse e capitoli, raccolti nei numerosi canzonieri che si vennero pubblicando col titolo di Rime piacevoli o Piacevoli poesie. La rimeria burlesca divenne un'usanza accademica cara a dotti e a scienziati, dal Manfredi al Mascheroni, e a illustri letterati, dal Baretti al Minzoni. Infiniti furono i "bernescacci bastardi", come il Baretti li chiamava: tra i quali G. B. Fagiuoli e Giovanni Santi Saccenti in Toscana, Carlo Cantoni e altri nell'Emilia, Gaspare Gozzi e altri Granelleschi a Venezia, Vittore Vettori e altri, compreso il Parini, in Lombardia. Ma l'imitazione del Berni, in verità, fu più estrinseca che intrinseca: meno vuoti e meno indecenti dei berneschi del Cinquecento, i settecentisti spesso mescolarono al comico pretensiose erudizioni scientifiche, e talvolta secondarono, con satira più o meno efficace, il genio del secolo riformatore. La tradizione del genere continuò, ricorrendo ad altre forme metriche, sino ai primi dell'Ottocento, massime in Toscana, con Antonio Guadagnoli, che fu salutato maestro dal Giusti giovane; con Arnaldo Fusinato nella Venezia; con Norberto Rosa in Piemonte.
Venendo ora ai poemi giocosi, il più antico esempio che se ne abbia in Italia, sono i due canti in ottava rima, La battaglia delle vecchie con le giovani, scritti intorno al 1354 da Franco Sacchetti (1ª ed., Bologna 1819). Anche certi poemetti toscani in terza rima, intesi a canzonare viziosi, sfrontati, ignoranti, del Quattrocento, poemetti che mettono capo a I Beoni, del magnifico Lorenzo, possono considerarsi come poemi burleschi quando non vi si voglia vedere parodie dantesche e petrarchesche. Si ricollegano alle beghe accademiche fiorentine a mezzo il sec. XVI tre poemetti giocosi già attribuiti al Grazzini, il primo dei quali, la Gigantea (1547) spacciato come proprio da Girolamo Amelonghi, sembra doversi attribuire a Betto Arrighi; il secondo, la Nanea (1548), è opera di Michelangelo Serafini; e il terzo, La guerra de' mostri (1547), è veramente del Grazzini. Dei tre, il più vivace è il primo, che fu imitato dallo Scarron. Migliori e più noti sono la Vita di Mecenate, il Viaggio in Parnaso e altri poemetti di Cesare Caporali perugino (morto nel 1601). Il Seicento, oltre la fioritura di poemi eroicomici, oltre parodie di poemi eroici, romanzeschi e mitologici, ebbe non pochi poemi lepidi e burleschi: tra i quali basterà citare la Franceide (1629) e la Moscheide (1630) di G. B. Ialli, autore anche della scipita Eneide travestita (1633), e il Malmantile racquistato (1ª ediz. postuma, 1676) di Lorenzo Lippi. Abbondantissima fu nel Settecento la produzione di poemi giocosi: non parliamo di poemi, ricchi di satira spesso efficace, come quelli del Forteguerri, del Passeroni, di Carlo Gozzi, del Casti, del Batacchi: ma di poemi essenzialmente ridanciani, dal Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, poema collettivo (Bologna 1736), da La Celidora, ovvero il governo del Malmantile (1734) di Andrea Agostino Casotti, continuazione del Malmantile del Lippi, dal Gonnella (1739) di Giulio Cesare Pecelli alla oscena Corneide (1781) di Giovanni De Gamerra, all'osceno Fodero (1789) del padre Giulio Cesare Cordara. Finemente umoristico è Il poeta di teatro (1808) di Filippo Pananti.
Bibl.: N. Villani, Ragionamento sopra la poesia giocosa de' Greci, de' Latini, de' Toscani, Venezia 1632; E. Pèrcopo, La poesia giocosa (opera incompiuta), Milano, s. a.; T. Massarani, Storia e fisiologia dell'arte di ridere, 2ª ed., II-III, Firenze 1910-11.