CAVALLERESCA, POESIA.
- Le origini della poesia cavalleresca ci portano a quel tipo di poesia che, nata in Francia nel periodo della seconda rinascenza medievale, dopo il risorgimento carolino, si diffuse oltre le Alpi e i Pirenei e in Germania, creando un tipo di arte non esente da artificiosità, che dominò incontrastato nei secoli XII-XIII e fu detto, oltre che cavalleresco, aulico o curiale o cortese. Poesía, che divenne presto una professione o un mestiere, cioè non fu propriamente poesia, e, come accade in consimili casi, si foggiò una tecnica particolare e caratteristica e si vestì di un'uniforme e talora eguale apparato esteriore, a esprimere, più che i moti del sentimento, le elucubrazioni sottili dell'intelletto sull'amore e sulle cause e gli effetti dell'amore.
Questa tecnica comportava l'uso di termini feudali, onde l'amante diveniva servo e la donna cantata signora (midonz, in provenzale, cioè meus dominus) e l'atteggiamento del poeta o verseggiatore era quello dell'uomo ligio e fedele, che rende omaggio. Qualità precipue dell'amante erano quelle del vassallo per il grande feudatario; la misura, la pazienza, la timidezza, la segretezza, la cautela. L'amore era un'arte, era, anzi, una finzione. Era un vanto per una castellana essere cantata da un trovatore, come se fosse idoleggiata, nascosta sotto il velo di un soprannome (senhal). A questa finzione si prestavano i colori apparenti della verità. La grazia e l'eleganza erano il maggior merito di questa nuova poesia, tutta o quasi tutta intellettualistica, non meno futile dei costumi signorili, pieni di vani splendori, di quell'età. L'amore cortese non era un sentimento, ma una dottrina, alla quale bisognava essere iniziati, e dalla quale si volevano far discendere insegnamenti e principî di perfezionamento morale. Singolare contrasto, perché l'amore cantato dai poeti (volgendosi soltanto a donne maritate) era illegittimo; mentre la società era cristiana. Le teorie sull'amore cavalleresco erano un vano formulario e non erano praticate o erano praticate senza convinzione. Erano, insomma, una finzione, non false in sé stesse, ma false e immorali nei loro rapporti con la vita. Accanto all'oscurità, all'artificio, al doppio senso, ai giuochi esasperanti di rime, abbiamo qualche voce, che risuona dolce, gaia o accorata. Eppure questa lirica cavalleresca, quasi interamente amorosa, e raramente politica e satirica, costituisce un carattere saliente della cultura europea occidentale, nell'età di mezzo, e si propagò rapida in Italia, in Germania, in Portogallo, dove si formarono scuole poetiche, che ne ripeterono i motivi fondamentali e talvolta ne esagerarono i difetti. Ciò significa che essa rispose a esigenze profonde, e non fu un'insignificante apparizione, sebbene oggi ci sembri in gran parte futile e vana, così priva com'è di reale passione e ispirazione.
Perché, come e dove sorse questa poesia? E in quale clima storico (che è forse lo stesso) spuntò e fiorì? Problemi ardui e delicati, sui quali aperse la discussione Federico Diez (1826), che ammise una relazione di dipendenza fra la poesia dei trovatori e il cosiddetto spirito cavalleresco, in cui si assommava il nuovo raggentilimento della società "preparato verso la metà dell'undecimo secolo dall'ordine della cavalleria". E il Diez pensò che culla di questa nuova arte fosse stata la Francia meridionale. Occasione a poetare era fornita dalle feste e dai trattenimenti dei nobili, che, prima dei giullari, scrissero componimenti impregnati del nuovo spirito della società aristocratica. I due più antichi poeti d'arte (aggiungeva il Diez) il conte di Poitou, Guglielmo IX, e il suo amico Ebles di Ventadorn appartennero alla schiera dei feudatarî. Per quanto riguarda il valore della poesia cavalleresca, il Diez, dopo averne notate l'uniformità e l'esteriorità, osservava che "tutta questa letteratura si potrebbe supporre che fosse opera di un solo poeta, interprete di varî stati d'animo". Oggi però, che conosciamo davvicino i migliori trovatori, sentiamo e avvertiamo le loro differenze, e riusciamo a individuare alcune personalità caratteristiche, come quella del moraleggiante Marcabruno, del vigoroso Bertran de Born, del dolce Bernart de Ventadorn, del dottrinario Folquet de Marseilla (v. provenza: Letteratura). Il problema delle origini fu trattato, pochi anni dopo, nel 1831-32, dal Fauriel, che insistette, lui pure, sull'intima unione della lirica medievale con la cavalleria e intravide le strette relazioni che intercedono fra questa poesia e le consuetudini feudali. Circa, poi, i rapporti fra poesia popolare e cavalleresca, il Fauriel non giungeva a conclusioni molto diverse da quelle del suo predecessore. Molti anni dopo, invece, A. Jeanroy (1889) negava ogni relazione di dipendenza fra poesia di popolo e poesia di corte nel Medioevo, fra poesia latina e poesia volgare, e considerava il sorgere della lirica cavalleresca come "une question de moment", un fenomeno improvviso, determinato da condizioni culturali favorevoli, verificatesi in centri letterarî, quali le corti dei conti di Tolosa, di Provenza, dei duchi d'Aquitania. Gaston Paris riprese in esame tutto il complesso problema (1892). Per lui, la poesia cavalleresca doveva essere ricondotta ai canti che accompagnavano la danza nelle feste di maggio (alle quali aveva già pensato il Fauriel): la trasformazione di questi canti in una poesia d'arte, propria d'una società aristocratica, doveva aver avuto luogo in una regione formata a un dipresso dal Poitou e dal Limosino. Di recente la questione delle origini è stata risollevata da E. Wechssler (1909), il quale ha sostenuto che, per comprendere la poesia cavalleresca nella sua storia e nella sua natura, occorra tener conto sopra ogni cosa dell'urto fra Occidente e Oriente al tempo delle crociate. Nella Francia meridionale due concezioni o due intuizioni del mondo e della vita si trovarono in conflitto, dopo le crociate: l'una, mondana o cortese o aulica, fondata sopra una ritrovata autonomia dell'uomo, ispirata a una forte aspirazione a liberarsi da una tirannia tradizionale; l'altra ascetica e mistica, ispirata a una pratica di "vita apostolica" derivata dai Vangeli. Per effetto della prima di queste concezioni, nacque un nuovo stile poetico, una nuova estetica, perché si formarono nuove condizioni spirituali. Principio interamente originale, secondo il Wechssler, è quello che allora sorse sull'amore di donna proclamato quale "fons et origo omnium bonorum". Questa è, per lui, la nuova creazione dell'età trobadorica.
Senza addentrarci in una critica minuta di queste teorie, si osserverà che bisogna tener bene distinto ciò che si dice "spirito cavalleresco" (il quale ha permeato di sé tutta la lirica aulica medievale) dall'istituto della "cavalleria". Quando, col Diez, ci riferiamo allo spirito cavalleresco, intendiamo alludere ai gusti, alle tendenze, alle aspirazioni, alle esigenze, o, insomma, alla civiltà di tutto un periodo storico, di cui l'istituto della cavalleria (v.) non fu che una delle infinite espressioni, non la causa e neppure l'effetto. La questione, infatti, dell'origine, e dello sviluppo di questo istituto non è la questione dell'origine, né della storia della poesia cavalleresca. Più ci si addentra nella comprensione della vita medievale, e più ci si convince che il cosiddetto codice della cavalleria è in contrasto con ciò che sappiamo della cavalleria stessa, che non ne praticò né sempre né spesso gl'insegnamenti, tanto che non è ardito affermare che i principî propugnati dal codice cavalleresco (difesa dei deboli, protezione della donna, rivendicazione del diritto offeso, assistenza alla chiesa, ecc.) rappresentino le idealità di tutto quel periodo storico e non siano le prerogative di una classe. Il presunto codice in questione, che non ebbe mai un assetto definitivo e legalmente riconosciuto, è, a ben guardare, il codice della poesia cavalleresca, non della cavalleria. Questa ha una sua storia, un suo processo, un suo svolgimento.
V'è stato chi, indulgendo all'identificazione fra cavalleria e spirito cavalleresco, ha finito col sopprimere quasi la "cavalleria" nella storia del Medioevo, scambiando un fenomeno sociale (l'istituto) con un fenomeno ideale (lo spirito cavalleresco e poetico), a detrimento del primo (teoria del Flach).
Anche dobbiamo osservare che, dal Diez in poi, sino a questi ultimi anni, troppo è stata trascurata la poesia dotta latina medievale, i cui legami con quella volgare si fanno sempre più palesi, man mano che le nostre ricerche si allargano e si approfondiscono, per tacere della poesia classica latina, dalla quale lo studioso della lirica cavalleresca non può e non deve più prescindere. Perciò le idee del Diez, del Fauriel e di altri sulle scaturigini popolari della poesia cavalleresca paiono perdere ogni giorno terreno. Una cultura elegante e raffinata, un gusto aristocratico, una moda letteraria signorile stanno alla base della lirica cavalleresca e ne spiegano gli atteggiamenti più caratteristici.
Che un centro di più alta cultura e di più squisita civiltà, come la corte del Poitou, abbia influito su altri centri, imponendo le proprie tendenze e i proprî gusti, è certamente cosa ammissibile, tanto più che un vocabolo significativo e quasi fatidico della lirica provenzale (il vocabolo joi, in cui si compendiano tutte le qualità e le virtù che fanno bella e lieta la vita e le accrescono dignità e valore), si presenta, come osservava il Paris, in veste fonetica pittavina; ma che in questa corte appunto la poesia popolare abbia subìto un'elaborazione tale da trasformarla in poesia aulica e cortese, è una supposizione, che dopo le osservazioni fatte, ci lascia scettici, o, almeno molto dubbiosi. La poesia cavalleresca nasce aristocratica e tale rimane. Si diffonde, per ragione di questo suo carattere, in Italia e altrove, e si propaga non per motivi meccanici come sarebbe l'esodo dei giullari dalle terre provenzali al tempo delle sanguinose lotte degli Albigesi, ma per un'intima virtù espansiva e per le esigenze e le preferenze dei tempi. Venendo ora alla tesi del Wechssler, diremo che nessuno si dissimula l'importanza dei fattori da lui invocati (v. sopra), ma essi non bastano da soli a darci ragione dello spirito della poesia cavalleresca. Si sente in essa l'eco di un ben altro fermento religioso: vogliam dire l'eco di alcune correnti ereticali, per le quali erano vivi e pulsanti i dibattiti sull'amore libero o coniugale e acquistavano una profonda significazione le questioni sottili amorose trattate nel celebre libro di Andrea Cappellano e in adunanze aristocratiche, che furono scambiate per veri e proprî tribunali, mentre erano corti letterarie d'amore.
Detti brevemente quali siano stati i motivi peculiari di questa poesia, trattato rapidamente il problema delle sue origini, resta che si esamini meglio la sua essenza.
Si è già detto che nella poesia cavalleresca tutto è finzione; finzione, aggiungiamo, anche il sentimento su cui fiorisce. Illusione è la speranza del poeta, consapevole che il suo servire non avrà mai premio. Egli sa che non può aspirare a nessuna corrispondenza di sensi amorosi. Egli sa di mentire cortesemente. Egli non solo sa di non essere sincero, ma che la sua finta loda di fenhedor era considerata come raffinata adulazione: adulazione, che era un obbligo, un dovere. Sa, infine, che i suoi versi non devono avere altro scopo che quello di servire di svago alla corte. E allora egli si tormenta nell'escogitare i più squisiti congegni tecnici, le rime difficili, i giuochi di parole, tanto che si direbbe che in alcuni verseggiatori la tecnica stessa divenga l'elemento ispiratore della poesia. Se l'amore è una disciplina, se i componimenti sono rivolti ai soli iniziati alle dottrine amorose, è naturale che la lingua abbia ad assumere atteggiamenti quasi di gergo e che questo gergo letterario sia quasi incomprensibile ai profani. Onde le difficoltà, che i testi trobadorici presentano a chi non abbia lunga consuetudine col linguaggio cavalleresco cortese.
Nel suo complesso, questa poesia può essere ripartita in due periodi: nel primo (il più oscuro) la poesia delle corti meridionali influì nel Nord della Francia; nel secondo la poesia provenzale dominò e si diffuse in Portogallo, in Germania e soprattutto in Italia dove risonò nelle corti dei marchesi di Monferrato, dei Malaspina, dei signori d'Este e dei Da Romano, ecc., e dove sorsero verseggiatori capaci di gareggiare, per eleganza e bravura coi trovatori (Rambertino Buvalelli, Sordello, Lanfranco Cicala, Bonifacio Calvo, Bartolomeo Zorzi, e altri). Non che la Francia settentrionale fosse priva d'una sua poesia lirica, prima dell'influsso meridionale, o prima dell'efficacia esercitata dalla civiltà di Eleonora di Poitou. Può darsi che sia esistita una poesia francese, forse normanna, di tecnica meno raffinata di quella occitanica, a giudicare da certi frammenti, che ce ne sono rimasti nei cosiddetti refrains, inseriti in componimenti poetici posteriori, e da certi motivi, che si trovano nella lirica portoghese e italiana, e che paiono, nella forma in cui si presentano, di origine francese, motivi molto antichi propagatisi sulle ali della lirica francese in un periodo anteriore a quello della vera e propria fioritura provenzale. Sono i temi fondamentali del contrasto amoroso, della donna innamorata, del commiato, della donna abbandonata, della fanciulla che vuol marito, della malmaritata e dell'alba. Sette temi, che, esaminati nel loro contenuto, si direbbero a buon diritto comuni alla poesia di tutti i popoli, ma che, esaminati nella loro forma in Italia e in Portogallo, ci fanno intravedere un antico influsso francese. Poiché questi contenuti, presi in astratto, sono motivi che sono esistiti ed esisteranno sempre laddove sono uomini, cioè dove è poesia; ma presi in concreto, cioè nella loro forma, svelano la loro reale natura e si palesano imitati da una poesia culta, dotta, se non ancora perfettamente cavalleresca, almeno semicavalleresca, quale doveva essere la lirica francese settentrionale prima dell'influsso occitanico. Sui motivi, astratti dalla forma, non si può esercitare nessuna critica conclusiva. Per stringere in pugno qualche cosa, bisogna confrontare e studiare non i temi astratti, ma le poesie e investigarle nella loro concretezza, tenendo nel debito conto le variazioni e le trasformazioni dovute a singoli verseggiatori. Ma questa antica lirica francese settentrionale precede, in ogni caso, la poesia, che diciamo propriamente cavalleresca. Questa assume la sua forma decisa nella Francia meridionale alla corte di Eleonora che, divenuta moglie di Enrico III d'Inghilterra, ne diffonde il gusto e la moda al Nord e la introduce nella corte della figlia Maria di Champagne e della regina Aelis di Francia.
I trovatori più celebri, come Bernart de Ventadorn e Bertran de Born, visitavano la corte di Eleonora, mentre sotto gli auspici di Maria di Champagne, Chrétien de Troyes si faceva interprete delle nuove teorie dell'amore cavalleresco. Così si ebbero nella Francia meridionale trovatori quali Jaufré Rudel, Arnaut Daniel, Gaucelm Faidit, Aimeric de Peguilhan, ecc., e nella Francia settentrionale troveri, tra i quali Tibaut de Champagne, Conon de Béthune, Huon d'Oisi, ecc., i quali tutti, con tecnica consumata e con squisita delicatezza, variavano in modi infiniti, ma spesso monotoni, il tema dell'amore cortese. Il quale tema si ritrova nei romanzi d'avventure o brettoni, particolarmente in quelli del maggior dei poeti della Francia medievale, Chrétien de Troyes (autore del Cligès, dell'Yvain, dell'Erec, del Lancelot, del Perceval, per non citare che i suoi romanzi principali), in cui al cavalleresco si disposa il meraviglioso, cioè un elemento nuovo che si congiunge al mondo incantato della poesia celtica. E il tema dell'amore cortese non manca neppure in alcuni episodî galanti dei romanzi francesi di materia classica, come il Roman de Thèbes e il Roman d'Enéas.
Gli schemi ritmici principali di questa poesia, lasciando da parte i romanzi generalmente in ottonarî, a rime baciate, furono la canzone e la tenzone (detta partimen quando chi apriva il dibattito lasciava libera la scelta di uno dei termini), il saluto d'amore, la sestina, la pastorella (un contrasto fra un cavaliere e una pastora, che generalmente oppone un rifiuto alle pretese dell'improvvisato amatore). Modellato sulla canzone era il serventese, componimento di carattere politico o satirico (in quest'ultimo caso, detto serventese giullaresco). Per la poesia cavalleresca in Germania v. minnesang.
Bibl.: F. Diez, Die Poesie der Trobadours, Zwickau 1826 (2ª ed., Lipsia 1883); Cl. Fauriel, Histoire de la poésie provençale, voll. 3, Parigi 1846 (opera postuma che, pubblicata da J. Mohl, riproduce un corso di lezioni tenuto alla Sorbona nel 1831-32); A. Jeanroy, Les origines de la poésie lyrique en France au moyen âge, Parigi 1889 (2ª ed., Parigi 1904); G. Paris, in Journal des Savants, 1892; E. Wechssler, Das Culturproblem des Minnesangs, I: Minnesang und Christentum, Halle a. d. S. 1909; E. Gorra, Poesia amorosa di Provenza, in Rendic. del R. Ist. Lomb. di sc. e lett., s. 2ª, XLII, XLIV, XLV (1911-1912); V. Crescini, in Atti del R. Ist. veneto di sc. lett. e arti, 1912; G. A. Cesareo, Le origini della poesia lirica e la poesia siciliana sotto gli Svevi, Palermo 1924. Sull'istituto della cavalleria, oltre il noto libro del Gautier, v. J. Flach, Les origines de l'ancienne France, II, Parigi 1893; G. Salvemini, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, Firenze 1896. Uno sguardo d'insieme sulla poesia cavalleresca si ha nella trattazione di A. Jeanroy, La littérature des origines à Ronsard, in Histoire de la nation française, XII, Parigi 1921.
I romanzi cavallereschi.
Accanto alla lirica aulica e alle canzoni di gesta, fiorì nel sec. XII in Francia il cosiddetto romanzo cavalleresco. Ne sono caratteri distintivi: 1. la grande varietà delle vicende e la loro assoluta irrealtà; 2. l'elaborazione raffinata e squisita dei molteplici motivi non più in versi decasillabi o dodecasillabi (come quelli delle canzoni di gesta), ma in ottonarî baciati o rimati due a due (sola eccezione i] Roman d'Alexandre di Lambert le Tort, Alessandro di Bernay e Pietro di Saint Cloud), cioè in versi agili e leggieri che si prestano facilmente alla lettura, senza bisogno dell'accompagnamento della viola e del canto; 3. il fine, a cui sono destinati, di rallegrare piccole ed eleganti riunioni di cavalieri e di dame; 4. l'aspirazione evidente a esaltare gl'ideali cavallereschi in un mondo di eroi e d'imprese immaginarie, a cui gli aspetti esteriori della società del tempo servono di cornice. Nel loro complesso, questi romanzi, che si dicono cavallereschi o cortesi, si possono suddividere in tre gruppi, senza escludere le molte e grandi affinità che un gruppo presenta con l'altro, grazie alle idee, allo spirito, alla concezione, insomma, o intuizione generale, alla quale sono informati: romanzi di argomento classico; romanzi brettoni e romanzi d'avventura. I primi s'ispirano a temi classici rimessi in onore dagli studî latini della rinascenza romanica e non mai dimenticati del tutto durante l'alto Medioevo.
Tali sono: il Roman de Thèbes (c. 1150), che si riattacca alla Tebaide di Stazio e ad altre opere latine, quali l'Iliade latina abbreviata; il Roman d'Enéas (c. 1160) derivato dall'Eneide; il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure (c. 1165), che utilizzò il De excidio Troiae del Pseudo-Darete e l'Ephemeris del Pseudo-Dictis. Proprio nei primi anni del sec. XII, un certo Alberico di Besançon o di Briançon aveva composto un poema su Alessandro (tradotto in tedesco da Lamprecht all'inizio del secondo trentennio del secolo), di cui ci è pervenuto un solo breve frammento, che costituisce il più antico testo, che noi si abbia, in franco-provenzale. Alberico aveva attinto a un'epitome dei fatti di Alessandro messa insieme nel sec. IX e derivata dalla versione di Giulio Valerio (sec. IV) del Pseudo-Callistene, autore di un romanzo greco fantasioso del secondo secolo dell'era volgare. Il poema di Alberico fu poi rimaneggiato e rinnovato nel Roman d'Alexandre, a cui abbiamo già accennato. A Ovidio si collega un grazioso poemetto intitolato Pyramus et Tysbé. In tutti questi romanzi penetra lo spirito cortese o cavalleresco, ne investe i protagonisti e i personaggi e li trasforma in cavalieri liberali e munifici. Le antiche città divengono città feudali, i costumi si fanno galanti, l'amore è quello cantato dai trovatori e dai troveri.
I romanzi brettoni, o di "matière de Bretagne", sono i più fantasiosi e durante il Medioevo hanno avuto una più larga diffusione.
Si discute molto sulla loro origine, che si ritiene a buon diritto essere celtica, e ci si domanda ancora se codeste leggende arturiane siano state portate di Bretagna in Francia da giullari bilingui (teoria di Gaston Paris) ovvero si siano propagate dall'Armorica, ultima depositaria della più antica epopea celtica (teoria di Zimmer e di W. Foerster). Inoltre, sta il fatto, ad accrescere dubbî e incertezze, che non ci è stato conservato un solo modello celtico, che possa valere quale documento sicuro, e che le opere del maggior poeta di materia brettone, Chrétien de Troyes, ci fanno piuttosto pensare ad una dipendenza contraria a ciò che sembrerebbe lecito supporre, perché, a ragion d'esempio, il suo poema Yvain pare essere la fonte del mabinogion (vocabolo che significa: "racconto per i giovani iniziati alla poesia") intitolato Owen e dal suo poema Perceval pare dipendere il Peredur. Ciò non toglie, però, che non si possano ammettere poemi celtici (gallesi, irlandesi, armoricani) perduti, o anche poemi francesi, imitati dai celtici e anch'essi perduti, che siano serviti di fonte comune alle narrazioni a noi pervenute nell'una e nell'altra lingua. Per i lais narrativi di materia brettone, è naturale che si sian fatti ragionamenti analoghi. Tutte ipotesi sagaci e ingegnose, con le quali, però, non si scrive la storia. A un ramo dei Celti (i Pitti) si collega anche la leggenda di Tristano e di Isotta, narrata nella seconda metà del sec. XII in due poemi frammentarî: il Tristan di Thomas (tradotto in tedesca da Gottfried von Strassburg) e il Tristan di Béroul (di cui si è giovato Eilhart von Oberge per il suo omonimo poema).
I romanzi d'avventura si riattaccano a narrazioni orientali (greche e bizantine), come il Cligès di Chrétien, il Parthenopen de Blois, l'Athis et Dophilias, il Cleomadès di Adenet le Roi, il Meliacin o Cheval de fust, l'Eracle, per tacere della deliziosa cantafavola (in prosa e brani lirici) Aucassin et Nicolette (sec. XII).
Tutta questa poesia romanzesca, che conta alcuni capolavori, come l'Ivain, l'Erec et Enide, il Cligès di Chrétien, il Tristan di Thomas, il lai di Eliduc e quello del Rossignol di Maria di Francia, si propagò rapidamente in Francia e fuori.
Italia. - Sin dai primi anni del sec. XII, l'onomastica italiana ci attesta la diffusione dei romanzi brettoni, per la frequenza con cui si ripetono i nomi degli eroi principali. In un archivolto sulla porta detta della Pescheria del Duomo di Modena sono scolpiti in altorilievo alcuni cavalieri del ciclo di Artù e il re medesimo, che muovono all'assalto di un castello, entro cui è chiusa una giovane donna (sec. XII). La leggenda di Tristano, rimaneggiata e diluita in Francia nel prosastico Roman de Tristan, fu tradotta, riassunta, rimanipolata in italiano sullo scorcio del sec. XIII neI cosiddetto Tristano riccardiano e venne a costituire una non piccola parte del celebre romanzo della Tavola rotonda. Non solo: ma abbiamo un interessante "cantare" in ottave del sec. XIV che narra la Morte di Tristano. Tutti sanno, poi, che nei poeti delle nostre origini ricorrono frequenti allusioni a eroi ed eroine di leggende brettoni o di romanzi d'avventura o di materia classica (Isotta, Biancofiore, Elena, ecc.). Ricordiamo anche che la vedova del Corbaccio del Boccaccio amava leggere i fatti di Lancillotto, di Ginevra, di Tristano, di Florio e Biancofiore. Nelle biblioteche private degli Estensi, dei Gonzaga, dei Visconti e degli Sforza abbondavano i manoscritti di materia brettone. Si diffusero anche in Italia alcune compilazioni prosastiche francesi di materia arturiana, come il Meliadus e il Guiron le Courtois, che, malgrado la loro prolissità e inorganicità, deliziarono nei secoli XIV e XV, in particolare, le corti signorili settentrionali e contribuirono a creare quel clima letterario, gravido di leggende brettoni e carolingiche, entro cui fiorirono i poemi del Boiardo e dell'Ariosto. Le leggende di Lancillotto, di Florio e Biancofiore, ecc. e persino gli argomenti di alcuni lais, quali Graelent e il Lanval di Maria di Francia, furono narrati in cantari italiani, come il Cantare di Lancillotto, quello di Fiorio, la Pulzella gaia, il Liombruno, il Bel Gherardino, ecc.; tutti composti per il popolo, come avveniva dei cantari e poemetti e poemi carolingici: l'Uggeri il Danese, il Rinaldo da Montalbano, la Spagna, ecc., e l'Orlando, che servì di guida al Pulci per il Morgante.
Spagna e Portogallo. - Più arduo riesce seguire la poesia romanzesca francese oltre i Pirenei. Incerte, veramente, sono le nostre informazioni sugli antecedenti dei romanzi a noi pervenuti, non anteriori allo scorcio del sec. XV. L'Amadis de Gaula, che sta per il suo valore in testa alla serie dei romanzi cavallereschi spagnoli, deriva sicuramente da narrazioni brettoni. Il testo, quale noi conosciamo, è dovuto a García Rodriguez de Montalvo (princ. del sec. XVI), ma è presumibile che la storia si sia dapprima propagata in Portogallo. Certo è che il portoghese Joham de Lobeira (1261-1325) usa in un suo componimento un ritornello, che troviamo appunto nell'Amadis in bocca ad Oriana. Ma, in genere, i romanzi spagnoli si staccano decisamente dall'imitazione di modelli francesi e riposano su altre invenzioni. Ciò si deve dire del Palmarín de Inglaterra, del Tirant lo blanch, della Carcel de Amor e di altri ancora. Alcuni, come il Baladro del Sabio Merlín, provengono da testi italiani; altri, come il Tristano de Leonís, sono tradotti dal francese. Quale conto facesse Cervantes di questi romanzi, e quali condannasse senza misericordia e quali salvasse, sanno tutti i lettori del Don Quijote.
Inghilterra. - In Inghilterra, sebbene il primo libro che si stampò in lingua inglese sia stato The Recuyell of the Historyes of Troyes (del Caxton, 1475), il ciclo classico ebbe svolgimenti relativamente poco significanti. Ben vi furono già nel sec. XI traduzioni dell'Apollonio di Tiro e della Lettera d'Alessandro ad Aristotele, e la leggenda d'Alessandro era diffusissima ai tempi del Chaucer; ma bisogna discendere fino alla metà del sec. XIV per trovarne elaborazioni degne di rilievo (The wars of Alexander, e, particolarmente, Life of Alisounder); e anche solo in quell'epoca il ciclo di Troia si trova largamente rappresentato, per influenza, soprattutto, della Historia Troiana di Guido delle Colonne; l'opera maggiore che ne nacque è un prolisso e interminabile poema: il Troy Book del Lydgate: la maggior predilezione andò a singole storie episodiche, come quella di Troilo e Cressida che conserverà ancora per secoli la sua vitalità, fino allo Shakespeare. Già alla fine del sec. VIII la Historia Brittonum di Nennio testimonia invece l'esistenza di una leggenda intorno a re Artù, e le citazioni susseguentisi nelle cronache, e le tracce innegabili di elementi originali celtici rimaste nei più antichi racconti arturiani del mabinogion, mostrano come la leggenda stessa abbia continuato, col tempo, a vivere e a svilupparsi. La parafrasi del Roman de Brut del Wace, fatta dal Layamon nel Brut, non fu se non un ritorno in terra inglese di leggende, che già Goffredo di Montmouth nella Historia regum Britanniae aveva esposto; e la figura di Gavain ebbe in Inghilterra certamente una lunga storia. Tuttavia la vera fioritura di romanzi cavallereschi s'ebbe sotto l'influenza francese; e a testi francesi risalgono poemi come Floris and Blanchefleur o Amis and Amiloun, ed essenzialmente versioni sono Willam of Palerne, Yvaine and Gawin, Arthur and Merlin, Sir Perceval, Sir Tristrem, ecc. Non solo; ma anche di talune leggende inglesi d'origine, come quelle del Bevis of Hampton, del King Horn, del Guy of Warwick, del Havelot, si posseggono testi francesi: però il poeta inglese attinge anche a sostrati di poesia primitiva e insinua elementi mistici, talvolta ascetici. Da tutto questo mondo cavalleresco, come da tutto il mondo culturale del suo tempo, trasse poi materia e ispirazione il Chaucer, nei Canterbury Tales e altrove. E nella stessa seconda metà del sec. XIV, mentre il Barbour romanzava nel Bruce la storia di re Roberto e mentre lo Huchoun elaborava la Great Gest of Arthure, componeva la sua opera il poeta di Sir Gawaine and the Green Knight; gli altri poemetti che son riuniti nel ms. Cotton (fra cui Pearl, con evidenti riflessi del Roman de la Rose) mostrano nel poeta uno spirito colto e austero; e un sentimento profondo della natura e della bellezza morale ravvivano il suo romanzo. Prima che questo mondo fosse definitivamente tramontato, nella seconda metà del sec. XV, Thomas Malory raccoglieva ancora una volta nella commossa prosa della sua Morte d'Arthur tutta la vasta materia; e alla sua opera l'amore dell'anima inglese per la fiaba e per l'avventura ritornò poi sempre dallo Spencer fino al Dryden, fino al Tennyson.
Germania. - Al suo più radicale approfondimento etico giunse tuttavia la materia leggendaria cavalleresca in Germania. Su modello francese, dopo l'Alexander di Lamprecht (circa 1130), con una certa sua rozza e popolaresca durezza di linguaggio e di concezione, elaborò, negli ultimi decennî del sec. XII, una sua versione del romanzo su Tristrant und Isolde Eilhart von Oberge; e su modello francese, con più duttile stile e con più esperta arte del verso, condusse la narrazione della sua romanzesca Eneit Heinrich von Veldeke. Ma soprattutto la presenza di un alto ideale morale si avverte nella concezione della cavalleria di Hartmann von Aue che tradusse l'Ereck e l'Iwein, e nelle pie leggende del suo Gregorius e del suo Armer Heinrich conciliò la lotta che si combatteva nel suo animo fra l'amore del mondo e l'amore di Dio. Sulle sue orme, ma con più raffinato gusto formale e con manifesta compiacenza nelle visioni ricche e fastose, riprese la leggenda di Tristano Gottfried von Strassburg nel suo poema Tristan und Isolde. Nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach infine, la romanzesca vicenda del cavaliere Perceval si trasformò in una storia interna di purificazione ed elevazione spirituale. Del resto nello stesso Nibelungenlied talune figure, come quella di Rüdiger, inseritesi evidentemente più tardi nella trama della così diversa leggenda antica, mostrano quanto universalmente gl'ideali della cavalleria fossero allora in fiore. La redazione del testo a noi giunto del Nibelungenlied risale ai primissimi inizî del '200; verso il 1210 fu terminato di scrivere il Parsifal, e al decennio che segue appartengono i Lieder del Titurel, in cui Wolfram svolse di sua invenzione, quasi a complemento del Parsifal, la storia degli amori della sua Sigune con Schionatulander, e il frammento del Willehalm, in cui riprese in uno spirito di carità e di tolleranza la leggenda di Guillaume d'Orange; e in quel medesimo tempo coincidono, per la data di composizione, molti altri romanzi, di poeti minori: come il Lanzelet di Ulrik von Zatzikofen, il Vigalois di Wirnt von Grafenberg, il Floire und Blantscheflur di Konrad Fleck, la Crône der Abentiure di Heinrich von Türlin, ecc. Nella maggior parte essi tradiscono qual più qual meno l'influsso formale di Hartmann; e ancora un problema formale è quello che distingue e divide anche i poeti dell'età seguente, seguaci ora di uno "stile fiorito", denso di simboli e folto di significati reconditi e di pensieri ascosi, nella maniera dello "stile oscuro" di Wolfram (Der Jüngere Titurel del bavarese Albrecht, l'anonimo Lohengrin, ecc.), ora di uno stile levigato e chiaro, ricercatamente elegante, nella maniera di Gottfried (parte dei poemi di Konrad von Würzburg, Tristan di Ulrich von Türheim e di Heinrich von Freiberg, Barlaam und Josaphat, Wilhelm von Orlens, Der gute Gerhard di Rudolf von Ems, ecc.); ma non soltanto i due maggiori Rudolf von Ems e Konrad von Würzburg sono personalità notevoli; per tutti la cavalleria è una forza morale, la sola che dà un segno alla vita e la giustifica. Le stesse esagerazioni del lirico Ulrich von Lichtenstein nel Frauendienst ne forniscono documento. Quando perciò alla fine del Settecento, e più ancora nell'età romantica, queste opere furono disseppellite, si capisce come la nuova poesia germanica vi abbia potuto trovare una ricca sorgente di ispirazione: i drammi musicali di Wagner, il Tristano, il Parsifal ne furono, naturalmente in un nuovo spirito, la suprema espressione.
Bibl.: E. Faral, Recherches sur les sources latines des contes et romans courtois, Parigi 1913; L. Constans, Roman de Thèbes, Parigi 1890; J.-J. Salverda de Grave, Roman d'Enéas, Halle a. S. 1891; L. Constans, Roman de Troie, Parigi 1904-12; P. Meyer, Alexandre le Grand dans la littérature française du moyen âge, voll. 2, Parigi 1886; C. De Boer, Piramus et Tysbé, Parigi 1922; J. Loth, Les "Mabinogion", Parigi 1913; E. Levi, I "lais" brettoni e la leggenda di Tristano, in Studi romanzi, XIV (1917); Thomas, Le Roman de Tristan par J. Bédier, Parigi 1903-1905; E. Muret, Le Roman de Tristan par Béroul, 2ª ed., Parigi 1928; G. Malavasi, La materia poetica del ciclo brettone in Italia, Bologna 1903; G. Barini, Cantari cavallereschi dei secoli XV-XVI, Bologna 1905; E. Levi, Fiore di leggende, Bari 1914, e I cantari leggendarî del popolo italiano, Torino 1914; Th. Braga, Historia das novelas portuguezas de cavalleria, Porto 1873. L'Amadis è stampato nella Bibl. de Aut. Esp., XL; C. Michaëlis de Vasconcellos, Versuch über den Ritterroman Palmeirim de Inglaterra, Halle a. S. 1883; J. D. Bruce, The evolution of arturian legends, Gottinga 1923; L. Spence, Dictionary of romance and epos, New York 1913; H. Schneider, Heldendichtung, geistliche Dichtung, Ritterdichtung, Heidelberg 1925.