Pluto
Antico dio greco, che si riteneva essere nato a Creta, figlio di Iasio e della dea Demetra (più tardi fu simbolicamente considerato figlio della Pace). Inizialmente protettore dell'abbondanza agreste, P. fu celebrato come cieco dio delle ricchezze (πλοῦτος significando appunto " ricchezza "); a lui s'intitola una famosa commedia di Aristofane.
Fu poi oscurato dalla divinità quasi omonima e ben maggiore Plutone (πλούτων), dio degl'Inferi: al quale - in considerazione che le miniere sono sotterranee - fu attribuita altresì la signoria delle ricchezze. Già presso i Romani si trovano scarsissime vestigia dell'antico πλοῦτος, ed è perciò dubbio che D. ne possa aver avuto notizia (benché qualche minima traccia di questa divinità indipendente da Plutone sia pur rimasta anche in testi medievali: cfr. Papias, sub v.; Proverbia sententiaeque latinitatis Medii Aevi, a c. di H. Walther, III, Gottinga 1965, 879. E però il Boccaccio è il primo dei commentatori trecenteschi della Commedia ad aver notizia, grazie a Leonzio Pilato, dell'esistenza delle due divinità quasi omonime).
L'altro e maggiore P. - più propriamente Plutone o Ades - fu figlio di Rea e di Cronos, il quale soleva ingoiare i propri figli finché fu costretto da Zeus a vomitarli. Ades allora divise con i fratelli Zeus (latinamente Giove) e Poseidone (Nettuno) il dominio del mondo, prendendo per sé la parte sotterranea, dove portò come regina Persefone (Proserpina), rapita alla madre. Il nome di Plutone gli fu attribuito dai misteri eleusini, in cui era venerato come produttore di fertilità e di ricchezza; i Romani l'identificarono con la loro divinità indigena Dite, il cui nome rinvia appunto alle ricchezze contenute dalla terra (cfr. Cic. Nat. deor. II XXVI 66). Ma il regno più proprio di P. rimase tuttavia quello dei morti. L'idea cristiana dell'oltretomba - per cui il regno degl'Inferi non era il mondo destinato a tutte le ombre, ma solo ai dannati: e dunque luogo di perdizione e di tormento - fece attribuire a P. carattere e prerogative diaboliche, sì da essere identificato dalla cultura medievale con Lucifero, re dell'Inferno cristiano.
D. pone il demone P. all'ingresso del cerchio quarto dell'Inferno (If VII 1-15), dove sono punite avarizia e prodigalità, cioè l'uso eccessivamente e malvagiamente sregolato delle ricchezze. Nasce tuttavia un non irrilevante problema, in quanto dai mitografi medievali Plutone era correntemente identificato in Dite e Orco (sulla scorta indiretta di Cicerone, loc. cit., e diretta di s. Agostino Civ. VII 16, e di Isidoro VIII 11, 42): e D. per Dite intende inequivocabilmente Lucifero (cfr. If XI 65, XXXIV 20). Occorre dunque ammettere delle due l'una: o che D. abbia avuto notizia dell'antico dio P., autonomo e distinto da Dite, da fonte ancora imprecisata (il Proto, in " Atene e Roma " XIII [1910] col. 158, registra tra i poeti latini probabilmente usufruiti da D. anche Fedro - cfr. Fab. II 6 e If XXXI 55-57; benché il Tommaseo e il Moore abbiano invece indicato per quel passo dantesco un riscontro aristotelico - e in Fab. IV 12 è appunto nominato P., " Fortunae filius ", odiato da Ercole " quia malis amicus est / simulque obiecto cuncta corrumpit lucro ". È arduo ammettere la conoscenza dantesca di quel testo, allora tanto raro: ma, ancorché non mi sia accaduto di trovar tracce di quella favola nelle varie raccolte ‛ esopiche ' correnti nel Medioevo, non si può escludere una mediazione); o - forse più probabilmente - che all'origine sia una qualche confusione, sorta (come opina il Rossi nel suo commento) dalla spiegazione offerta da Isidoro: " Pluton graece, latine Diespiter vel Ditis pater ", che si prestava a essere fraintesa, come dimostra l'Ottimo: " egli è padre di Dite, cioè padre delle ricchezze " (ediz. Torri, I 107).
In entrambi i casi comunque D. distingue le due divinità: nel primo caso, Dite (identificato in Plutone-Lucifero, ma mai ricordato dall'Alighieri col suo nome primo Plutone) e P. (l'antico dio delle ricchezze); nel secondo, Dite (identificato in Lucifero) e P. (cioè Plutone, ‛ padre di Dite ' in quanto, secondo il senso morale, le ricchezze sono fonte di peccato: cfr. Paul. I Tim. 6, 10 " radix enim omnium malorum est cupiditas "). Al proposito si ricordi che nei poeti latini il nome ‛ Pluton ' ricorre raramente: nell'Eneide una sola volta, e genericamente, come deità infera (Aen. VII 327), mentre Dite è evocato continuamente; e il solo Dite compare nel mito ovidiano del ratto di Proserpina (Met. V 385-571; cfr. Pg XXVIII 50-51), come del resto sempre nelle Metamorfosi. Sull'estrema confusione con cui i miti erano narrati prima della sistemazione umanistica, anche con riferimento a P., vedi H.T. Silverstein, D. and Vergil the mystic, " Harvard Studies and Notes in Philology and Literature " XVI (1932).
La trasformazione dantesca del gran nemico (If VI 115: tale è P. in quanto la cupidigia è il più grave ostacolo alla salvezza degli uomini) in mostro dalle sembianze di lupo (il maladetto lupo del v. 8 non essendo - come taluni commentatori mostrano di credere - semplice metafora: cfr. v. 15 la fiera crudele) è certamente dovuta a quell'equivalenza cupidigia-lupa varie volte affermata dal poeta (cfr. If 149 ss., Pg XX 10; ecc.). Tuttavia la descrizione del demone è nel complesso assai generica, come del resto rapido e sbrigativo è l'incontro dei due poeti con Pluto. L'Alighieri lascia intuire trattarsi di un mostro di grandi dimensioni (cfr. vv. 13-14), nel quale è un'orrida mescolanza - come sempre nei demoni infernali - di tratti umani (labbia, v. 7) e di sembianze animalesche, con predominio di questo secondo elemento; mancano però dettagli particolari (com'è invece per Caronte, Minosse, Cerbero, ecc.), anche di rilievo (P. è un vero e proprio lupo?, ecc.): tanto che gl'illustratori sono costretti a lavorare di fantasia (notevole la miniatura trecentesca del codice Laurenziano Plut. 40 7, c. 14, ove P. è rappresentato con la testa di lupo, corpo umano peloso e ali di pipistrello). Più che sui particolari fisici D. attira l'attenzione del lettore sulla sostanziale vacuità del demone: il quale prima è rapidamente accennato nella sua smisurata grandezza e nel suo aspetto spaventevole (v. 5 la tua paura; v. 7 quella 'nfiata labbia) e poi è colto nella sua reale impotenza di fronte al volere celeste, nel successivo subitaneo afflosciarsi, privo di ogni forza (vv. 13-14 Quali dal vento le gonfiate vele / caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca).
Gli studiosi si sono soffermati, forse più del necessario, sulle strane parole pronunciate da P., gonfio d'ira e con la voce chioccia (cioè rauca e aspra), esprimenti incredulo stupore per l'audacia dei due pellegrini: Pape Satàn, pape Satàn, aleppe!, esclamazione iniziale (v. 2 cominciò) di un discorso minaccioso inteso a incutere paura (cfr. vv. 4-5), che Virgilio non gli lascia continuare. Non importa affrontare qui lo specifico problema del significato di quelle parole (per cui v. PAPE SATÀN); ma occorre pur rilevare il carattere linguisticamente non latino di quelle parole (probabilmente, se si accetta la spiegazione ‛ linguistica ' del verso, di origine greca ed ebraica: forse per suggestione del noto blasone che vedeva nei Greci e negli Ebrei la massima estrinsecazione del vizio dell'avarizia?) e la pertinenza della risposta di Virgilio, il quale ricorda la punizione toccata proprio a quel Satana da P. invocato (cfr. Apoc. 12, 7-9, dov'è esplicitamente nominato il " serpens antiquus qui vocatur diabolus et Satanas ").