PLUTARCO di Cheronea
Storico e filosofo greco. Nacque a Cheronea in Beozia intorno al 50 d. C., figlio di Antibulo, appartenente a famiglia assai distinta del luogo. La sua vita si svolse serena e tranquilla, conciliando nel modo più completo le attitudini personali e gli abituali oneri e onori toccanti a un membro dell'alta borghesia provinciale. Educato ad Atene presso il platonico Ammonio, dopo qualche viaggio (anche in Egitto) prese residenza nella sua città natale. Di qui però lo allontanarono ripetutamente le incombenze politiche e probabilmente anche l'attività letteraria. Già inviato una volta dai suoi concittadini come loro ambasciatore al proconsole di Acaia, fu poi più volte a Roma, certo per qualche missione politica, ma forse anche, almeno nei soggiorni più lunghi, per farsi conoscere negli ambienti intellettuali della capitale con conferenze e lezioni. Una notizia di Suida ci dovrebbe far ritenere che Traiano lo insignì della dignità di consolare e lo elevò alla funzione di consigliere del proconsole di Acaia. Ciò in sé non appare inverosimile, come non appare inverosimile l'altra tarda notizia di Sincello che nei primi anni del regno di Adriano P. fu procuratore, vale a dire rappresentante del fisco, nella provincia. Ma desta meraviglia che nelle sue opere P., pur così pronto a discorrere di sé, non accenni a queste cariche, sicché sulla loro autenticità deve rimanere il dubbio. Sono invece le stesse opere, che ci fanno conoscere gli amici illustri che P. si era procurato tra i Romani, come Q. Sosio Senecione, due volte console, Minucio Fondano, console e proconsole di Asia, Aruleno Rustico, il noto filosofo stoico ucciso da Domiziano. Questi amici gli rimasero fedeli anche quando P. tornò definitivamente a Cheronea e valsero ad accrescergli l'interesse per la civiltà romana e ad aiutarlo a procurarsene la conoscenza. A Cheronea P. passava il suo tempo fra gli studî, tenacemente coltivati, la famiglia amata con intensità tutta particolare e caratteristica, un ristretto cerchio di discepoli a cui faceva lezione e infine le cure della piccola amministrazione locale. P. fu arconte della sua cittadina e fu pure nominato sacerdote del tempio di Delfi, per cui, come ricorderemo, aveva speciale devozione. Sembra che già intorno al 95 egli fosse sacerdote di Delfi, carica che tenne sino alla morte, avvenuta dopo il 120. Un monumento in suo onore, eretto dagli abitanti di Delfi e di Cheronea insieme, per deliberazione del consiglio dell'Anfizionia, testimoniava con l'iscrizione giuntaci l'apprezzamento per le sue qualità di uomo esemplarmente onesto e mite.
Scritti di P. - P. è uno degli scrittori antichi, di cui ci è giunto di più. E tuttavia sappiamo che una notevole parte della sua enorme produzione è andata perduta. Un catalogo delle sue opere, il cosiddetto catalogo di Lamprias (dal nome del figlio di P. al quale è falsamente attribuito), che risale al III-IV sec. d. C., tra i suoi 227 titoli, ne contiene 73 di opere che non ci sono pervenute (di contro a 154 pervenute). S'intende che uno scrittore così famoso, come fu P. già tra i contemporanei, doveva provocare imitazioni, che o erroneamente finivano per passare per opera sua o consapevolmente furono messe in circolazione sotto il suo nome. Perciò sia nel catalogo di Lamprias, sia tra gli scritti ancora conservati, si celano senza dubbio molti scritti non autentici. È peraltro quasi sempre difficilissimo distinguerli dagli autentici, appunto perché sono affini per stile e per contenuto: né, come è ovvio, si può ammettere che P. in una così lunga produzione scientifica abbia sempre mantenuto uguali caratteristiche di stile e di pensiero, anche a prescindere dalla sua scarsa originalità (per cui v. più oltre).
Grossolane falsificazioni, come la Institutio Traiani, lo scritto di morale politica, che per essere composto in latino circolò nel Medioevo come l'unica opera accessibile di P., sono rare: si possono annoverare tra queste il libro Sui nomi dei fiumi e dei monti e su ciò che in essi si trova (Περὶ ποταμῶν καὶ ὀρῶν ἐπωνυμίας καὶ τῶν ἐν αὐτοῖς εὑρισκομένων; l'abituale titolo latino datogli dai filologi moderni è De fluviis) e una metrica (Περὶ μέτρων, De metris) che tratta in realtà solo dell'esametro ed è penetrata fra gli scritti di P. probabilmente per errore casuale. Sicuro è anche che non appartengono a P. le Vite dei dieci oratori (Βίοι τῶν δέκα ῥητόρων), la raccolta dossografica Intorno alle dottrine dei filosofi sulla natura (Περὶ τῶν ἀρεσκόντων ϕιλοσόϕοις ϕυσικῶν δογμάτων, De placitis philosophorum) e due scritti sulla vita e la poesia di Omero (Περὶ τοῦ βίου καὶ τῆς ποιήσεως ‛Ομήρου, De vita et poësi Homeri). Sia qui ricordata anche la falsificazione umanistica di G. Giraldi, che nel 1551 pubblicò con il nome di P. un commentario ai Praecepta mystica di Pitagora. Probabilmente non autentici sono anche i cosiddetti Paralleli minori (Συναγωγὴ ἱστοριῶν παραλλήλων ‛Ελληνικῶν καὶ ‛Ρωμαικῶν, Parallela minora), una serie d'insignificanti aneddoti paralleli tra Greci e Romani.
All'infuori di queste erronee attribuzioni o falsificazioni evidenti, occorre andare cauti nell'accettare le dimostrazioni che soprattutto negli ultimi decennî del secolo XIX pullularono sull'origine spuria di tale o tal altra opera di P. Gran parte di queste dimostrazioni ora è ripudiata, e anche nei casi migliori resta solo un dubbio: dubbio che, come dicevamo, è legittimo nel senso che è impossibile che tra le opere di P. non si siano introdotte di quelle spurie. Occorre poi appena avvertire che nella grande massa di scritti plutarchei non ha in fondo molta importanza che qualcuno sia spurio: la sostanza del suo pensiero e della sua personalità resta identica.
Gli scritti di P. notoriamente si dividono in due categorie. Da un lato stanno le Vite parallele dei Greci e dei Romani, dall'altra le cosiddette Opere morali (Moralia), un complesso di scritti varî - soprattutto di filosofia - raccolti per la prima volta in un Corpus solo da Massimo Planude nel 1296. Diamo qui l'elenco delle vite e delle opere morali principali, ad evitare un ingombro eccessivo di titoli nell'esposizione seguente. Delle opere morali alla traduzione italiana facciamo seguire, per facilitare l'identificazione, il titolo greco, quasi sempre originale, cioè derivante da Plutarco, e la traduzione latina, che risale ai primi editori moderni ed è la più abitualmente usata dai filologi.
Non tutte le biografie sono raggruppate in coppie di un greco e di un romano. Esistono quattro vite, rispettivamente di Artaserse II di Persia, di Arato di Sicione, degl'imperatori romani Galba e Otone che sono isolate: analoghe dovevano essere le vite di Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone e Vitellio testimoniate dal catalogo di Lamprias, ma ora perdute (salvo alcuni frammenti, soprattutto della vita di Nerone, utilizzata da P. nelle sue opere morali). Sappiamo inoltre che P. scrisse biografie ora perdute di Cratete il Cinico, di Pindaro, di Aristomene. Le coppie di vite parallele giunteci sono le seguenti (si noti che le vite di Agide e di Cleomene, e quelle correlative di Tiberio e Gaio Gracco costituiscono una unità): Teseo e Romolo, Licurgo e Numa, Solone e Valerio Publicola, Temistocle e Camillo, Pericle e Fabio Massimo, Alcibiade e Coriolano, Timoleone ed Emilio Paolo, Pelopida e Marcello, Aristide e Catone Maggiore, Filopemene e T. Quinzio Flaminino, Pirro e hario, Lisandro e Silla, Cimone e Lucullo, Nicia e Crasso, Eumene e Sertorio, Agesilao e Pompeo, Alessandro e Cesare, Focione e Catone Minore, Agide-Cleomene e Tiberio-Gaio Gracco, Demostene e Cicerone, Demetrio Poliorcete e Antonio, Dione e Bruto. La biografia del generale focese Daifanto e quelle, probabilmente appaiate, di Epaminonda e di Scipione Minore, sono andate perdute: della vita di Epaminonda resta un ampio riassunto nella Periegesi di Pausania. È dubbio se P. scrivesse pure una vita di Leonida e qualche altra.
Per le opere morali possiamo, per comodità, conservare in questa rapida classificazione l'abituale distinzione in dialoghi e diatribe. La forma dialogica è stata infatti usata da Plutarco tanto quanto quella del saggio d'intonazione filosofica o sofistica (diatriba). Sotto l'aspetto formale, i dialoghi sono per la maggior parte di tipo platonico e vi partecipano come interlocutori congiunti dell'autore. Talvolta l'autore racconta il dialogo. Stanno formalmente a parte il Convito dei sette saggi (Τῶν ἑπτὰ σοϕῶν συμπόσιον, Convivium septem sapientium); Sul demone di Socrate (Περὶ Σωκράτους δαιμονίου, De genio Socratis) per la sustruttura storica o pseudo-storica (nell'uno un colloquio tra i sette saggi dell'antica Grecia e nell'altro un colloquio tra i congiurati per la liberazione della Cadmea di Tebe nel 379) e ancora più Intorno all'uso della ragione negli esseri irrazionali (Περὶ τοῦ τὰ ἄλογα λόγῳ χρῆσϑαι, Bruta ratione uti), che mette in scena, al modo d'una satira menippea, Circe e Ulisse. Riguardano problemi di filosofia, tra gli altri, oltre agli ora citati, i seguenti scritti contro gli epicurei e gli stoici: Che non si può vivere bene secondo Epicuro ("Οτι οὐδ' ἡδέως ζῆν ἐστὶν κατ' 'Επίκουρον, Non posse suaviter vivi secundum Epicuri praecepta); Contro Colote (Πρὸς Κωλώτην; Adversus Coloten); Se sia giusto il detto "vivi nascosto" (Εἰ καλῶς εἴρηται τὸ λάϑε βιώσας, De latenter vivendo); Sulle nozioni comuni contro gli stoici (Περὶ τῶν κοινῶν ἐννοιῶν πρὸς τοὺς Στωικούς, De communibus notitiis); Sulle contraddizioni degli stoici (Περὶ Στωικῶν ἐναντιωμάτων, De stoicorum repugnantiis); Prospetto che gli stoici dicono cose più assurde dei poeti (Σύνοψις τοῦ ὅτι παραδοξότερα οἱ Στωικοὶ τῶν ποιητῶν λέγουσιν, Stoicos absurdiora poëtis dicere). Trattano dei problemi dell'anima e dell'immortalità: Sulla faccia che appare nel cerchio della luna (Περὶ τοῦ ἐμϕαινομένου προσώπου τῷ κύκλῳ τῆς σελήνης, De facie in orbe lunae) e Sui puniti tardi dalla divinità (Περὶ τῶν ὑπὸ τοῦ ϑείου βραδέως τιμωρουμένων, De sera numinis vindicta). Problemi religiosi, specialmente in rapporto con l'oracolo delfico, costituiscono il contenuto di Sull'abbandono degli oracoli (Περὶ τῶν ἐκλελοιπότων χρηστηρίων, De defectu oraculorum); Sulla lettera E in Delfo (Περὶ τοῦ Ε τοῦ ἐν Δελϕοῖς, De E apud Delphos); Sul fatto che la Pizia non dà ora risposte in versi (Περὶ τοῦ υὴ χρᾶν ἔμμετρα νῦν τὴν Πυϑίαν, De Pythiae oraculis). Il problema dell'amore è trattato nell'Erotico ('Ερωτικός, Amatorius); quello dell'ira nel Sulla repressione dell'ira (Περὶ ἀοργησίας, De ira cohibenda); quello del mantenersi in salute nei Consigli igienici (‛Υγιεινὰ παραγγέλματα, De tuenda sanitate praecepta). Si ricordino infine un dialogo sulla musica (Περὶ μουσικῆς, De musica) e uno di carattere miscellaneo in nove libri, Questioni conviviali (Συμποσιακὰ προβλήματα, Quaestiones conviviales).
Dei saggi di carattere diatribico alcuni hanno formalmente l'aspetto di contrapposizioni sofistiche: Se l'acqua o il fuoco sia più utile (Περὶ τοῦ πότερον πῦρ ἢ ὕδωρ χρησιμώτερον, Aqua an ignis utilior); Sulla virtù o sulla fortuna di Alessandro (Περὶ τῆς 'Αλεξάνδρου τύχης ἢ ἀρετῆς, De fortuna Alexandri); Sulla fortuna dei Romani (Περὶ τῆς ‛Ρωμαίων τύχης De fortuna Romanorum); Se gli Ateniesi siano più insigni per guerra o per sapienza (Πότερον 'Αϑηναῖοι κατὰ πόλεμον ἢ σοϕίαν ἐνδοξότεροι, De gloria Atheniensium). Altri concernono problemi di etica: Se la virtù possa insegnarsi (Εἰ διδακτὸν ἡ ἀρετή, An virtus doceri possit); Intorno alla virtù morale (Περὶ τῆς ἠϑικῆς ἀρετῆς, De virtute morali); Sulla tranquillità dell'anima (Περὶ εὐϑυμίας, De tranquillitate animi); Sulla virtù e il vizio (Περὶ ἀρετῆς καὶ κακίας, De virtute et vitio); Come si possa scorgere di fare progressi nella virtù (Πῶς ἄν τις αἴσϑοιτο ἑαυτοῦ προκόπτοντος ἐπ' ἀρετῇ, Quomodo quis suos in virtute sentiat profectus); Sulla fortuna (Περὶ τύχης, De fortuna); Sull'amore del denaro (Περὶ ϕιλοπλουτίας, De cupiditate divitiarum); Come distinguere un adulatore da un amico (Πῶς ἄν τις διακρίνειε τὸν κόλακα τοῦ ϕίλου, Quomodo adulator ab amico internoscatur); Se la malvagità sia sufficiente a fare infelice (Εἰ αὐτάρκης ἡ κακία πρὸς κακοδαιμονίαν, An vitiositas ad infelicitatem sufficiat), ecc. Alcuni riguardano più propriamente problemi di vita domestica: Sull'amore fraterno (Περὶ ϕιλαδελϕίας, De fraterno amore); Sull'amore della prole (Περὶ εἰς τὰ ἔκγονα ϕιλοστοργίας, De amore prolis); Consigli coniugali (Γαμικὰ παραγγέλμματα, Praecepta coniugalia). Altri riguardano l'educazione: Sull'educazione dei figli (Περὶ παίδων ἀγωγῆς, De liberis educandis); Come bisogna che l'adolescente ascolti le opere di poesia (Πῶς δεῖ τὸν νέον ποιημάτων ἀκούειν, Quomodo adolescens poetas audire debeat); Intorno all'ascoltare (Περὶ τοῦ ἀκούειν, De recta ratione audiendi). Ci sono poi ricerche letterarie. Se sono perduti i commenti a Esiodo, Arato, Nicandro, uno scritto su Euripide, ecc., ci sono conservati due scritti famosi: Sulla malvagità di Erodoto (Περὶ τῆς ‛Ηροδότου κακοηϑείας, De Herodoti malignitate) e Paragone tra Aristofane e Menandro (Σύγκρισις 'Αριστοϕάνους καὶ Μενάνδρου, Comparatio Aristophanis et Menandri). Tre scritti sono di carattere consolatorio: Sull'esilio (Περὶ ϕυγῆς, De exilio); Consolazione alla propria moglie (Παραμυϑικὸς εἰς τῆν γυναῖκα τὴν αὑτοῦ, Consolatio ad uxorem) e Consolazione ad Apollonio (Παραμυϑικὸς πρὸς 'Απολλώνιον, consolatio ad Apollonium). Alcuni altri di carattere politico: Consigli politici (Πολιτικὰ παραγγέλματα, Praecepta gerendae reipublicae); Se un vecchio debba governare lo stato (Εἰ πρεσβυτέρῳ πολιτευτέον, An seni respublica gerenda sit); il frammentario Sulla monarchia, la democrazia e l'oligarchia (Περὶ μοναρχίας καὶ δημοκρατίας καὶ ὀλιγαρχίας, De unius in republica dominatione) e alcuni minori. Delle molte opere dedicate a Platone, di cui resta il ricordo nel catalogo di Lamprias, due solo sono conservate: Sulla generazione dell'anima nel Timeo (Περὶ τῆς ἐν Τιμαίῳ ψυχογονίας, De animae procreatione in Timaeo) e le Questioni platoniche (Πλατωνικὰ ζητήματα, Quaestiones platonicae). Questioni naturali sono discusse in un opuscolo di questo titolo (Αἴτια ϕυσικά, Quaestiones naturales), mentre di problemi religiosi si occupano Sulla superstizione (Περὶ δεισιδαιμονίας, De superstitione) e Su Iside e Osiride (Περὶ "Ισιδος καὶ 'Οσίριδος, De Iside et Osiride). Alcuni usi greci e romani sono studiati nelle Questioni greche (Αἴτια ἑλληνικά, Quaestiones graecae), e nelle Questioni romane (Αἴτια ῥωμαικά, Quaestiones romanae).
Sono conservate infine tra le opere morali di P. alcune raccolte di detti e fatti memorabili, probabilmente autentiche: Detti di re e generali ('Αποϕϑέγματα βασιλέων καὶ στρατηγῶν, Regum et imperatorum apophtegmata); Detti laconici ('Αποϕϑέγματα λακωνικά, Apophtegmata laconica) con appendici sui detti di donne spartane e sugli istituti laconici (Τὰ παλαιὰ τῶν Λακεδαιμονίων ἐπιτηδεύματα, Instituta laconica); Virtù delle donne (Γυναικῶν ἀρεταί, De mulierum virtutibus).
Gli scritti morali e la filosofia di P. - La vastissima opera di P. è assai facile a giudicare quando se ne guardino semplicemente i caratteri più generali. P. è tipico rappresentante della cultura, e in specie della cultura greca, dell'età sua. Ha lo spirito di umanità, la serenità, la larga tolleranza, il civismo proprio degli uomini migliori del tempo e assurto a programma di governo. La sua stessa fede che la civiltà greca e la civiltà romana si possano comprendere reciprocamente e collaborare è elemento essenziale della politica da Nerva in poi. P. è quindi, assai più di Elio Aristide o di Dione Crisostomo, l'intellettuale greco tipico dell'età aurea dell'impero romano. Nella sua humanitas borghese c'è l'incarnazione d'un ideale politico che si fondava pressoché unicamente sulla borghesia cittadina dell'impero.
Ma se si vuole scendere, come è necessario, da questa constatazione generica a una più minuta analisi degli elementi costitutivi del pensiero di P., l'oscurità diventa profonda. La ragione è che, sia come storico, sia come filosofo, P. è per noi quasi l'unico rappresentante di tutto un indirizzo di pensiero, di una cultura, che è oggi sommersa. Quale biografo ha un solo termine di paragone, Cornelio Nepote, che certo aveva adottato il medesimo schema biografico che poi P. seguirà; ma è troppo chiaro che ben poco si può ricavare dal confronto con un narratore, che riduce tutto nella forma più scheletrica, quale è Cornelio Nepote. Manca poi ogni notizia sulle fonti biografiche comuni a Nepote e a P. E peggio ancora stiamo per gli scritti morali. Se talune frasi, talune asserzioni possono essere confrontate con filosofi di varia scuola, dagli accademici ai peripatetici, agli epicurei e agli stoici, scritti che possano essere messi a confronto, nel loro complesso, non esistono più; e perciò si è costretti a un'affannosa ricerca delle presumibili fonti di ciascuna operetta. L'isolamento nella tradizione culturale è il più grave ostacolo alla comprensione di P. Ma si aggiunge, a rendere ancora più difficile il compito, la sua stessa natura di studioso, che è troppo pronto ad accogliere idee altrui, per avere coerenza e sistematicità nell'enunciazione del proprio pensiero, sicché non riesce facile e talvolta non è affatto possibile ricostruire un'opinione sicura di P. su determinati argomenti. E questa assenza di sistematicità impedisce poi che si scorga un chiaro sviluppo nel suo pensiero e quindi si collochino in ordine cronologico per ragioni intrinseche le sue opere. L'impossibilità, ormai constatata dopo decennî di tentativi, di costruire una cronologia delle opere di P., salvo in quei rarissimi casi in cui si offrono indizî esteriori evidenti, è appunto la riprova che non esiste uno sviluppo visibile nella maggior parte delle sue idee. Si deve solo ammettere che le opere concernenti la religione delfica siano posteriori al suo sacerdozio e mostrino una più accentuata inclinazione mistica che non altre opere come quella intorno alla superstizione (Περὶ δεισιδαιμονίας, De superstitione) di tono più razionalistico. Ma sarebbe del tutto arbitrario dedurre, come pure si è fatto, da questa generica constatazione che P. è passato da una fase piuttosto scettica con interessi prevalentemente retorici e sofistici a una fase religiosa. Non c'è quindi nessuna ragione per riportare all'età giovanile piuttosto che all'età matura gli scritti in cui prevale il tono sofistico e si amano le contrapposizioni di tesi: per es., gli scritti Sulla virtù o sulla fortuna di Alessandro, Sulla fortuna dei Romani. C'è anzi proprio per gli scritti citati un indizio che dovrebbe fare inclinare a riportarli all'età avanzata di P.: infatti lo scritto sulla fortuna dei Romani è certo incompleto, in quanto manca della seconda parte, che doveva contrapporre agli argomenti in favore della fortuna quelli in favore della virtù dei Romani, e anche lo scritto sulla fortuna di Alessandro è probabilmente monco alla fine. È perciò verosimile che questi scritti, come altri incompiuti, non siano stati pubblicati da P., ma siano stati trovati fra le sue carte e pubblicati postumi: e poiché P. non indugiava nel compiere e nel pubblicare ogni cosa che gli venisse fatto di pensare, è da supporsi che tali carte non si riferissero già a tempi giovanili, ma invece rappresentassero lavori troncati dalla morte.
Nel complesso insomma l'opera di P. rappresenta un'immensa produzione che per un lato ci appare disorganica, per un altro dimostra alcuni interessi costanti, che permettono di parlare, se non di una filosofia, almeno di un indirizzo mentale, di P. Egli si definiva un platonico, e tale era certo, ma nella forma pitagorizzante assunta dalla media Accademia, che, con Senocrate, ha infatti la maggiore autorità su lui. Inoltre egli eredita quella tendenza a contaminare il pensiero platonico con l'aristotelico, soprattutto nelle questioni scientifiche, etiche e politiche, la quale aveva una lunga tradizione in seno all'Accademia, ed era anche la più consona alla sua mentalità di erudito e di casista, che trovava nel Peripato la risoluzione d'infinite questioni particolari sia di scienza naturale, sia di psicologia, donde la sua simpatia per il più illustre indagatore di problemi singoli alla luce del pensiero aristotelico, Teofrasto. Infine P. combatte sì, per coerenza alla sua scuola, stoici ed epicurei, ma è pure noto che, se i dissensi tra queste tendenze permanevano recisi in teorie metafisiche e gnoseologiche, tendevano sempre più ad attenuarsi in questioni morali, e perciò non può fare meraviglia che P., il quale ha pure molti scritti di specifica polemica contro stoici ed epicurei, accetti poi le idee degli uni e degli altri. Il cosmopolitismo, la fratellanza umana, il concetto del sovrano come imitazione divina che egli professa sono d'origine stoica, mentre ha atteggiamenti epicurei grande parte dei consigli sulla tranquillità dell'anima che egli dà nello scritto omonimo. Incerto è solo fino a quale punto tale contaminazione di motivi di scuole diverse sia già nei predecessori o sia ancora di Plutarco, appunto perché, come dicevamo, le fonti di P. sono perdute. Perciò appaiono inutili allo stato attuale delle nostre conoscenze le vive discussioni che si sono fatte per riportare a scrittori epicurei o stoici o peripatetici i nuclei di alcune tra le opere più significative di P. Si è per esempio potuto sostenere con identica verosimiglianza che il citato scritto sulla tranquillità dell'anima ha per fonte un epicureo o uno stoico o l'eclettico Panezio.
Platonica è la distinzione - fondamentale in P. - d'una doppia anima del mondo, però combinata, oltre che con la tavola pitagorica dei contrasti, con il dualismo delle religioni orientali, che P. studiò specialmente nello scritto su Iside e Osiride. L'esistenza di questa doppia anima - buona e cattiva - significa l'impossibilità della derivazione di ogni cosa da un principio unico, e quindi la necessità di contrapporre alla divinità, che come ragione (λόγος), provvidenza (πρόνοια) è la stessa anima buona del mondo, un principio opposto, assai meno precisamente definito e che talvolta è rappresentato aristotelicamente come materia che tende alla forma e quindi alla divinità, mentre altre volte è distinto dalla materia. Ma tra la divinità e la natura sono ammesse essenze intermedie attraverso le quali il logos giunge a penetrare nella realtà: sono le essenze, che, seguendo un'idea di Posidonio, P. identifica con gli dei della religione popolare, permettendosi così, pur nell'affermazione di un monoteismo ultimo, di mantenere intatta la sua devozione, quasi nostalgica, verso gli dei della tradizione ellenica, che egli cerca tanto più di difendere, in quanto sente minacciati dalle religioni orientali e perciò cerca di dimostrare (come nel citato scritto su Iside) affini agli dei orientali. Ed è poi notevole a questo riguardo che se P. combatte il metodo allegorico degli stoici nell'interpretare le divinità, lo combatte non in quanto sistema d'interpretazione, ma in quanto risultati, che non concordano con i suoi, perché egli è poi il primo ad adottare il metodo allegorico nello sforzo di far combinare l'essenza delle varie divinità. Nemmeno precisa è in P. la posizione della mente umana di fronte alla ragione divina. Asserita genericamente la partecipazione dello spirito umano alla ragione divina, si dànno poi varie soluzioni nei varî scritti, tra le quali la più caratteristica è quella contenuta nel dialogo Intorno alla faccia che appare sul cerchio della luna, che è un vasto mito di tipo platonico con influenze di Eraclide Pontico e di Posidonio. Uno straniero che viene da una terra al di là del mare Atlantico asserisce che l'uomo consiste di corpo (σῶμα), anima (ψυχή) e intelletto (νοῦς), di cui il primo deriva dalla Terra, il secondo dalla Luna, il terzo dal Sole, e poiché alla loro volta Luna e Sole sono rispettivamente le sedi dei demoni e della divinità, così l'anima e l'intelletto avrebbero relazione diretta l'una con le sottodivinità e l'altra con la divinità. Dopo la morte, ciascuno di questi due elementi ritornerebbe alla sua sede. È così affermata qui la immortalità dell'anima che ritorna infatti in altre opere di P. come una delle sue più ferme convinzioni (si veda soprattutto lo scritto Sui puniti tardi dalla divinità), ed è congiunta con la fede nella trasmigrazione delle anime. A sua volta la dottrina della metempsicosi ha radice nella convinzione che anche gli animali siano esseri razionali sostenuta nei due dialoghi Se siano più ragionevoli gli animali terrestri o gli acquatici (Πότερα τῶν ζώων ϕρονιμώτερα τὰ χερσαῖα ἢ τὰ ἔνυδρα, De sollertia animalium) e Intorno all'uso della ragione degli esseri irrazionali, contro alla negazione degli stoici, concludendo che la ragione esiste negli animali come irradiazione della ragione universale; donde nell'operetta Sul mangiar carne (Περὶ σαρκοϕανίας, De esu carnium) viene tratta naturalmente la conseguenza che non si debba mangiare carne di animali. Ma la relazione posta nel mito ora citato tra le parti dell'anima e gli elementi solleva anche l'altra questione della modalità con cui P. intende l'azione della divinità sulla natura, questione resa oscura dall'imprecisione con cui egli concepisce il principio del male come seconda anima del mondo. Nel complesso, sembra che P., ammesso che l'esistenza di cinque corpi elementari - i cinque corpi platonici - porta a ritenere contro Platone stesso l'esistenza di cinque mondi, di cui il nostro è solo uno, riconosca in ciascuno di questi mondi fasi di ascesa e di regresso che sono dovute al contrastante agire dei due principî universali. La distinzione dell'anima in parti poteva, come si comprende, avvicinare facilmente P. all'etica aristotelica e permettergli di accettarne sostanzialmente la soluzione. La parte razionale dell'anima domina le passioni trasformandole in abitudini misurate: la medietà delle passioni, la metriopatia, diventa insomma anche per P. il canone della vita etica (trattato Sulla virtù morale). Da questa prende luce tutta la sua casistica svolta in numerosissimi trattatelli di morale e di pedagogia e, talvolta vorremmo dire, di igiene psicologica, in cui è il meglio di P. filosofo, per la particolare finezza che vi porta. Di qui l'εὐϑυμία, la tranquillità spirituale, elevata a virtù suprema; di qui la difesa del matrimonio appunto per la misura che lo contraddistingue (Erotico); di qui la lotta contro l'ira, la cupidigia di ricchezze, l'eccesso d'iniziativa (Περὶ πολυπραγμοσίνης, De curiositate), l'abbondanza di amici (Περὶ πολυϕιλίας, De amicorum multitudine), ecc. Sulla medesima base è fondata la pedagogia, la quale deve essere essenzialmente educazione al dominio delle passioni (Intorno all'educazione dei fanciulli): ed è da ricordare che di contro a Platone P. non esclude la lettura dei poeti, purché rivolta a fini morali (In che modo l'adolescente deve udire poemi). Soprattutto è importante che derivi dalle medesime premesse la politica di P., che è, secondo la sua stessa definizione, l'arte di placare le folle e quindi di conservare la pace: pace, possiamo intendere, specialmente interna, che era la vecchia aspirazione di tutta la classe borghese della Grecia. Perciò P. giustifica sinceramente davanti a sé il dominio romano, pur essendo così orgoglioso della sua stirpe: appunto perché vede adempiute nel governo romano le esigenze di una politica di pace. Tale la sostanza dei Precetti politici, dove sono particolarmente significativi i capitoli (16-19) in cui si accenna francamente al dominio romano. Un'opera giuntaci solo in frammento Sulla monarchia e la democrazia e l'oligarchia completava l'adesione all'impero additando la sovranità di uno solo come la migliore. Ma già da queste opere risulta anche chiaro l'atteggiamento peculiare di P. di fronte a Roma, che è di accettarne la supremazia, in quanto politicamente utile, ma non d'identificarsi senz'altro con l'impero e di ritenere la civiltà greca assorbita nella civiltà imperiale. P. accetta l'impero chiarendo bene che non è greco: egli potrà paragonare Greci e Romani, non considerarli identici. Da questo atteggiamento politico verso Roma è guidata tutta la costruzione delle Vite parallele dei Greci e dei Romani, come è guidata anche l'implicita parificazione, che è nello stesso tempo contrapposizione, di Roma e di Alessandro negli scritti dedicati alla loro fortuna e virtù: dove alla vecchia questione, che ha un'eco famosa in Livio (IX, 17 segg.) se sia stato superiore in virtù Alessandro o lo stato romano, si risponde riconoscendo virtù a entrambi, ma attribuendo ai Romani più fortuna che non ad Alessandro.
Le vite parallele. - Nello scrivere le vite parallele, P. intendeva seguire il vecchio principio retorico che attraverso il confronto si dovessero mettere in luce affinità e differenze e quindi si giovasse alla comprensione di ciascuno dei paragonati. Le vite parallele sono dunque sì scritte per dimostrare che Greci e Romani hanno nella loro storia eroi analoghi, ma anche per mettere in rilievo, oltre che le analogie, le differenze tra questi eroi. Sempre insomma si mantiene fermo il concetto dell'analogia, ma pure della diversità dei Greci e dei Romani: uguali in valore, come rivendica fieramente per i suoi Greci P., ma pure diversi. Donde si comprende che è certamente autentico il paragone (σύγκρισις) che conclude ogni coppia di vite, contro ai dubbî di molti moderni, perché in questo paragone, dove si mettono in luce soprattutto le differenze tra i personaggi confrontati, mentre nel proemio a ogni coppia ne vengono messe in luce le affinità, c'è una parte essenziale della dimostrazione di P. Certo gli accostamenti tra Greci e Romani avevano già una tradizione che risaliva alle Imagines di Varrone, dove un libro dedicato ai Greci si alternava con uno dedicato ai Romani, per passare a Cornelio Nepote, in cui pure si alternano Greci e Romani, ecc.
Ma la novità, almeno per noi, di P. consiste in questo diretto confronto tra Greci e Romani, il quale indica come si fosse accentuata nel periodo degli Antonini la coscienza del problema che esistevano nell'impero romano due mondi, due culture, analoghe e apparentemente unificate, eppure non fuse, ognuna con la sua tradizione e i suoi valori. Nulla più di queste vite plutarchee lascia scorgere tale doppio volto della convivenza della civiltà greca e di quella romana nell'impero.
Nelle linee generali dunque la creazione del parallelismo biografico ha caratteri e ragioni evidenti. Non altrettanto si può dire della struttura di ciascuna vita.
Cominciamo col dire che la stessa cronologia delle Vite è oscurissima. L'unico dato sicuro è che le vite di Galba e di Otone utilizzano le Storie di Tacito (oltre che la fonte di Tacito, Plinio il Vecchio) e quindi sono state scritte dopo il 105 circa d. C. Ma si può discutere se queste vite isolate siano state scritte prima o dopo le vite parallele: se si pensa che le vite parallele si limitano ai personaggi della repubblica, si può tanto congetturare che già prima fossero state scritte le vite degli imperatori quanto che P. volesse evitare di confrontare gl'imperatori con generali o re greci, ma poi completasse la serie delle biografie romane con gl'imperatori. Anche i tentativi di costituire almeno una cronologia relativa delle Vite, sfruttando le citazioni che P. fa di sé stesso, hanno un valore esiguo, perché spesso i rimandi da una vita all'altra sono reciproci: segno che quelle vite furono pubblicate insieme. Peggio ancora si sta per l'origine dello schema biografico plutarcheo. Da tempo si è osservato che sussiste una differenza fondamentale tra le biografie di Svetonio e quelle di Plutarco. Svetonio descrive il carattere del protagonista elencando categorie di fatti in ordine artificiale, P. narra invece l'intera vita del protagonista per ordine cronologico (non senza però indugiare in taluni punti a definire l'indole del personaggio). F. Leo era stato tratto dalla considerazione di queste differenze tra un tipo di biografia, che descrive essenzialmente il carattere di un personaggio (Svetonio), e un altro tipo, che descrive invece i fatti del medesimo (P.), a riportare il secondo tipo alla storiografia peripatetica. Ma la scoperta della vita di Euripide di Satiro, fatta su un papiro, ha dimostrato che le biografie d'ispirazione peripatetica, come quelle di Satiro, erano di tipo lontanissimo da quelle di P. Caduta questa teoria dell'origine peripatetica, nessun'altra soddisfacente è stata proposta. Di recente W. Uxkull-Gyllenband ha cercato di rendere verosimile che la biografia di tipo plutarcheo si sarebbe formata verso il sec. II a. C. per influenza del realismo romano: la teoria è troppo generica e campata in aria. È merito invece dell'Uxkull di avere determinato meglio il sistema con cui P. ampliava le fonti biografiche che aveva innanzi, fonti, sappiamo, spesso comuni con Cornelio Nepote. Ne è risultato dunque che P. aggiungeva di solito citazioni di seconda mano, tratte da raccolte di passi di commedia, di apoftegmi, ecc., che alludevano al personaggio su cui stava scrivendo. Ma questo risultato non va certo preso alla lettera. Il sistema intanto era applicabile ai personaggi greci, non ai Romani, per cui mancavano quasi sempre (Catone, i cui dicta furono raccolti, è eccezione) raccolte aneddotiche e per cui di solito P. non aveva alcuna biografia innanzi. Poi anche per i Greci sarebbe assurdo ammettere che un uomo di così vaste letture come P. si accontentasse sempre di antologie di seconda mano.
Risultati più positivi si sono ottenuti - anche qui in linea generale - per la ricerca delle fonti delle biografie. S'intende che la ricerca è di carattere differente nel caso delle vite greche e di quelle romane. Per queste ultime, come dicemmo, P. attinge quasi sempre direttamente a storici o comunque a fonti di prima mano, perché non ha biografie di cui valersi: poi egli non conosce troppo il latino e quindi preferisce attenersi a una o poche fonti per biografia. Mancano di conseguenza nelle vite dei Romani tutte quelle citazioni che sono caratteristiche delle vite dei Greci: l'unico poeta latino citato è Orazio in Mario, 39. Nelle biografie dei Greci la fonte immediata principale è invece di regola una biografia. Gli storici sono perciò già stati usati da questa biografia, e quindi - a parte le aggiunte fatte da P. risalendo anch'egli a tali storici - se si cercano le fonti storiche di P., si cercano in realtà le fonti delle sue fonti.
La maggiore semplicità della ricerca per la storia romana ha fatto anche sì che in questa i risultati siano più sicuri. Talune fonti noi le possediamo ancora: così la vita di Coriolano dipende tutta da Dionigi di Alicarnasso. Per la vita di Silla, fonte sicura è l'autobiografia del medesimo; per quella di Sertorio, le storie di Sallustio; per quella di Catone Uticense, la biografia di Trasea Peto; per quella di Valerio Publicola, gli annali di Valerio Anziate. Meno sicuri sono i risultati per altre vite: per Romolo, gli annali di Fabio; per Marcello, Livio, Polibio e Posidonio; per Flaminino, Livio, Polibio e altri; per Catone il Vecchio i detti memorabili del medesimo, Livio, Polibio; per Emilio Paolo, Polibio, Scipione Nasica; per Mario, Livio e Posidonio, oltre alle memorie di Silla; per Cicerone, la biografia di Tullio Tirone e Livio; per Pompeo, Sallustio, Teofane da Mitilene e Posidonio; per Antonio, Dellio; per Cesare, Livio, Strabone e Asinio Pollione; per Crasso, Sallustio. Più incerte di tutte, le vite dei Gracchi, in cui s'intrecciano probabilmente più fonti, di cui una affine al racconto di Appiano e un'altra affine alla versione preferita dalla quasi totalità delle fonti latine.
Le fonti delle vite greche sono quasi tutte incerte. Chiara abbastanza sembra la derivazione della vita di Solone da Androzione, di quelle di Agide e Cleomene da Filarco; Polibio è utilizzato nelle vite di Arato (accanto alla autobiografia del medesimo) e di Filopemene. La vita di Artaserse deve avere per fonte Ctesia o piuttosto il rielaboratore di Ctesia Dinone, ma non è certo. Nella vita di Cimone ci sono sicure tracce di Teopompo; in quelle di Nicia, Alcibiade e Lisandro si possono accertare influenze di Tucidide Senofonte e Teopompo. In Pirro, il materiale deriva probabilmente, oltre che per la parte romana, da Dionisio di Alicarnasso, da Ieronimo di Cardia; che deve anche essere tra le fonti del Demetrio Poliorcete. Più complicata la costituzione della vita di Licurgo, in cui però, in definitiva, è utilizzato molto materiale derivante da Senofonte e da Filarco.
Fortuna. - P. ha avuto fortuna estesa già tra i contemporanei. Le Notti Attiche di Aulo Gellio cominciano col nome suo e in un altro passo (I, 26, 4) lo designano "vir doctissimus ac prudentissimus". Favorino e Galeno lo citano e lo lodano. E da questa prima generazione la fama di P. passerà, crescendo, alle successive del Medioevo bizantino sempre col medesimo carattere: di filosofo. Ciò appunto è caratteristico, che le Vite, per quanto lette e utilizzate (già nella Periegesi di Pausania), sono le meno notate e apprezzate. P. resta per tutto il Medioevo l'autore dei Moralia e ha presso i Greci la medesima funzione di anima naturaliter christiana, che ha Seneca presso i Latini. Egli è uno degli scrittori attraverso cui il pensiero cristiano implicitamente riconosce la sua continuità con il pensiero antico. Nel sec. XI il metropolita Giovanni Mauropode scriveva in un epigramma una specie di preghiera a Cristo, perché dei pagani salvasse dall'inferno Platone e Plutarco come i più affini alla vera dottrina "per insegnamenti e per costume". Ma la fama di P. non rimaneva isolata nei paesi di lingua greca, se in latino si poteva scrivere o almeno diffondere, attribuita a P., la Institutio Traiani, di cui alcuni ampî frammenti ci sono conservati dal Policraticus di Giovanni di Salisbury (sec. XII). La tendenza della Institutio non è dubbia: essa patrocina la soggezione del potere temporale allo spirituale. Resta tuttavia la difficoltà che essa sia sorta in un territorio, dove la fama di P., almeno a stare alle testimonianze giunteci, era quasi nulla; e perciò il problema della genesi di quest'opera è ancora aperto.
Con l'Umanesimo e il Rinascimento le cose naturalmente cambiano. P. resta sempre il filosofo, la cui fama importano in Occidente Bessarione, Gemisto Pletone, Teodoro Gaza, ecc. Ma ormai la sua importanza come pensatore si determina in un punto, nella sua pedagogia. Dal 1410, anno in cui Guarino Veronese traduceva in latino l'opuscolo sull'educazione dei fanciulli, P. diventa il testo per il nuovo ideale educativo dell'armonioso sviluppo dell'individuo: esso agirà su Vittorino da Feltre. Donde si comprende facilmente che l'interesse per P. filosofo si congiungesse ormai strettamente con quello di P. biografo; vi si cerca sempre l'accentuazione del valore dell'individualità. E poiché la peculiarità del mondo antico si riconosce appunto in tale "virtù" dei suoi uomini, i personaggi di P. diventeranno i tipici rappresentanti della classicità e attraverso loro si sentirà e si valuterà tanta parte dell'antichità. I personaggi di P. non diventano però gli "eroi", nel senso diventato tradizionale della parola, se non con il classicismo francese. L'etica dell'onore e della magnanimità, il rinnovarsi in altro senso degl'ideali cavallereschi alla corte di Francia, trovano in P. i modelli a cui ricongiungersi. Anime rigide nel dovere, come Agesilao, o straziate fra la passione e il dovere, come Coriolano, o grandi nella loro sfortuna, come Sertorio e Mitridate, saranno tra le preferite e messe sullo stesso piano di un Cid. L'apostolo di P. è J. Amyot, la cui traduzione delle opere di P. (1559) farà testo non solo presso i Francesi - e tra questi saranno Montaigne, Corneille, Racine - ma anche tra gl'Inglesi, sia direttamente, sia attraverso traduzioni della sua traduzione, che serviranno allo Shakespeare a foggiare i suoi drammi, così lontani del resto, salvo tratti esteriori, dal tipo eroico francese. Nel sec. XVIII la ragione della fortuna di P. muta, ma non diminuisce la fortuna stessa. Non si cercano più, tra le sue vite, quelle di Coriolano, Sertorio, ecc., ma quelle di Catone, Bruto, Aristide, Timoleone, Demostene: l'eroe diventa eroe di libertà. Si matura tuttavia un germe del culto precedente di P. quando si vuole intrinseco a questo amore di libertà un senso umano profondo, che era ciò che il Montaigne apprezzava soprattutto nel suo autore preferito. Maestro di umanità e di libertà P. diventa per il Rousseau, come per l'Alfieri. E con l'Alfieri il culto di P. ritornerà in Italia come fermento di rinascita nazionale. Al contrario della Germania, dove, sia per reazione al carattere francese che aveva assunto la fama di P. con la rivoluzione, sia, come è ovvio, soprattutto per le esigenze intrinseche del movimento romantico, il classicismo di P., che aveva ancora detto qualcosa alla serenità di Goethe, diventa il più bersagliato. La reazione poi si complicò con la svalutazione di P. come fonte storica, con l'esigenza di una comprensione realistica della politica antica - che già in Inghilterra provoca l'antipatia per P. di Th. Macaulay - fino a giungere col positivismo al totale fraintendimento dell'umanità plutarchea. Anche oggi certo P. continua a contare poco per la storia intima dei suoi personaggi e, salvo leggiere oscillazioni, non si vede davvero come le sue vite si possano rivalutare quale veicolo di comprensione dell'età dei suoi protagonisti; ma P. in sé, come rappresentante del mondo greco nell'età degli Antonini, è sempre più oggetto di studio.
Edizioni. - Editio princeps dei Moralia presso Aldo Manuzio, Venezia 1509; delle Vite, ivi 1519. Migliore edizione: per le Vite quella di C. Lindskog e K. Ziegler in corso di completamento, Lipsia 1914 segg. (per i volumi mancanti serve la ediz. precedente a cura di C. Sintenis); per i Moralia è iniziata con i primi volumi l'ed. a cura di M. Pohlenz, W. R. Paton, I. Wegehaupt e altri, che deve sostituire quella assai infelice di G. N. Bernardakis, Lipsia 1888-96. Un lessico plutarcheo di D. Wyttenbach da ultimo ristampato a Lipsia 1843. Traduzione italiana delle Vite di M. Adriani (v. l'edizione di Firenze 1859) e di G. Pompei (Verona 1773).
Bibl.: L'enorme bibliografia su P. non può qui essere data se non negli elementi principalissimi. Abbondanti indicazini si potranno trovare in Christ-Schmid-Stählin, Geschichte der griech. Litteratur, 6ª ed., II, i, Monaco 1920, p. 485 segg., e in Ueberweg-Praechter, Grundriss der Geschichte der Philosophie, 12ª ed., 1926, p. 171 segg. Per i Moralia, rassegne periodiche di tutte le pubblicazioni si possono trovare per gli anni 1889-98 in A. Dyroff, Jahresb. über die Fortschritte d. klass. Altertums, CVIII (1901), p. i segg.; per gli anni 1899-1904, in B. Weissenberg, ibid., CXXIX (1906), p. 83 segg.; per gli anni 1905-09, 1910-15, 1916-20, rispettivamente, in F. Back, ibid., CLII (1911), p. 313 segg.; CLXX (1915), p. 233 segg.; CLXXXVII (1921), p. 228 segg.; per 1921-25, in K. Hubert, ibid., CCXX (1929), p. 109 segg.
L'opera complessiva su P. più completa resta ancora R. Volkmann, Leben, Schriften und Philosophie d. Plutarchs v. Chäronea, Berlino 1869. Sulla filosofia, la migliore esposizione in E. Zeller, Philosophie der Griechen, 5ª ed., Lipsia 1923, III, pp. 115 segg. Si cfr. O. Gréard, De la morale de Plutarque, 3ª ed., Parigi 1880; R. Hirzel, Der Dialog, II, Lipsia 1895, p. 126 seg.; R. M. Jones, The platonism of Plutarch, Wisconsin 1916. Da consultarsi con cautela: J. J. Hartman, De Plutarcho scriptore et philosopho, Leida 1916. Si cfr. anche D. Bassi, Il pensiero morale, pedagogico-religioso di Plutarco. Studi e testi, Firenze 1927.
Per le Vite, oltre alle vecchie rassegne di Th. Michaelis, in Zeitschrift f. Gymnasialwesen, III (1877), p. 246 segg. e V (1879), p. 59 seg., non c'è che quella di F. Reuss, in Jahresb. über die Fortschritte cit., CXLII (1909), p. 163 segg. per gli anni 1905-08. Si cfr. specialmente le seguenti opere: E. Meyer, Forschungen zur alten Geschichte, II, Halle 1899, p. i segg.; F. Leo, Die griechisch-römische Biographie nach ihrer litterarischen Form, Lipsia 1901; M. A. Stiefenhofer, Die Echtheitsfrage der biographischen Synkriseis Plutarchs, in Philologus, LXXIII (1914-16), p. 462 segg.; F. Focke, Synkrisis, in Hermes, LVIII (1923), p. 360 segg.; M. Mühl, Poseidonios und der plutarchische Marcellus, Berlino 1925; W. Uxkull-Gyllenband, Plutarch und die griechische Biographie, Stoccarda 1929; A. Weizsäcker, Untersuchungen über Plutarchs biographische Technik, Berlino 1931; C. Stoltz, Zur relativen Chronologie der Parallelbiographien Plutarchs, Lund 1929.
Sulla fortuna di P., R. Hirzel, Plutarch, Lipsia 1912.