PLINIO il Vecchio
C. Plinius Secundus, o, come più comunemente si dice, per distinguerlo dal nipote, P. il Vecchio, nacque a Como (Novum Comum) tra il 23 e il 24 d. C. Giunse giovanissimo a Roma, dove subì il fascino e l'influsso di P. Pomponio Secondo, condottiero fortunato e tragediografo insigne. Se quel che Plinio il Giovane scrisse a proposito dello zio: "equidem beatos puto, quibus deorum munere datum est aut facere scribenda aut scribere legenda, beatissimos vero, quibus utrumque. Horum in numero avunculus meus et suis libris et tuis erit" (Ep., VI, 16, 3, a Tacito), fu prima di tutto un programma di vita, a quel programma non fu certo estraneo l'esempio di Pomponio. Ce lo dicono anche i suoi due libri perduti De vita Pomponi Secundi.
Ma più che la paternità ideale di Pomponio, c'interessa il fatto che, dal tempo in cui P. scrisse come praefectus alae il trattato perduto De iaculatione equestri, alla tragica morte, avvenuta nel 79, a 56 anni, quand'era comandante della flotta di Miseno, per avere voluto, durante l'eruzione del Vesuvio, compiere il suo dovere di capo e soddisfare la sua curiosità di scienziato, il motivo essenziale della nobile vita di P. risalta sempre con piena evidenza.
Ufficiale di cavalleria in Germania, procuratore nella Gallia Narbonese, in Africa, nella Spagna Tarraconese, nella Gallia Belgica, investito a Roma di un altissimo ufficio, che lo metteva in continuo contatto con Vespasiano, prefetto della flotta di Miseno: queste le tappe della carriera di Plinio. Ma lo accompagnava per tutte le vie dell'Impero e per tutte le ore della sua giornata, persino durante i bagni e i pasti, una curiosità insaziabile di leggere, di prendere appunti, che P. il Giovane ci rivela con ammirazione in una lettera a Tacito, fondamentale per la biografia dello zio (III, 5). Curiosità di libri, com'era naturale fosse in un antico, ma che molta critica ha avuto il torto di giudicare soltanto libresca. I venti libri Bellorum Germaniae, scritti per rinnovare la memoria di Druso e che narravano la storia delle guerre romane in Germania, cominciando probabilmente dalla guerra con i Cimbri, furono ispirati da esperienze e commozioni personali, e i 31 libri A fine Aufidii Bassi (v. basso, aufidio), fonte, come i libri sulle guerre germaniche, delle opere di Tacito, e che P. volle pubblicati dopo la sua morte, "ne quid ambitioni dedisse vita iudicaretur" (Nat. Hist., praef., 30), dovevano evidentemente contenere, per lo meno nella parte riguardante Vespasiano, Tito e Domiziano, notizie, ricordi e giudizî originali.
Certo l'opera più importante di P. e l'unica che ci sia rimasta, i 37 libri della Naturalis Historia, dedicati a Tito, rivela strane caratteristiche di compilatore e quasi di collezionista. Egli ci teneva a raccontare che il retore Larcio Licino gli aveva offerto in Spagna 400 mila sesterzî, per gli appunti ch'egli s'era fatti stenografare durante le sue interminabili letture. Nella prefazione (17) egli dice di avere raccolto ventimila fatti degni di nota, da circa duemila volumi, fra gli autori dei quali, cento gli erano sembrati particolarmente degni di lettura e di spoglio, per copia e autorità di notizie. E come non bastassero gl'indici degli auctores (in tutto più di 470, 146 romani e 327 stranieri), che con una civetteria opposta a quella degli altri scrittori antichi, così parchi in genere di citazioni, P. premise a ciascuno dei libri e il nipote riunì col sommario nell'attuale primo libro dell'opera, noi ritroviamo alla fine di quelli che erano originariamente gl'indici dei singoli libri (salvo i libri 3-5), il numero delle "res et historiae et observationes" in essi contenute. Quando lo zio morì, Plinio il Giovane trovò fra le carte ereditate "electorum.... commentarios centum sexaginta...., opistographos quidem et minutissimis scriptis", che costituivano probabilmente il materiale di appunti della Naturalis Historia, e che costituiscono ad ogni modo un bel saggio di tenacia e di pazienza.
Ma il suo senso della grandiosità della natura, nutrito di fede stoica e del suo stesso orgoglio di cittadino e funzionario d'un Impero, che ormai poteva sembrare adeguato per vastità e varietà alla "rerum natura"; quella sua curiosità di fatti, oltre che di libri (cfr. Nat. Hist., II, 117); quel suo amore di cose dimenticate, di cose nuove, di cose utili, non disgiunto da un pratico senso del progresso della tecnica, se non della scienza, fanno l'opera degna di rispetto, e non soltanto come documento indiretto d'un movimento culturale e scientifico che, senza P., ci rimarrebbe in gran parte ignoto. La sua fu audace impresa, non tentata mai né da Greci né da Romani; e se la sua opera è infinitamente distante dai risultati della scienza moderna e impari anche di fronte ai risultati e ai metodi della scienza antica, è tuttavia di quelle che si scrivono quando si credono i tempi compiuti, e che, a questo titolo, fa parte della gloria, della storia e del senso dell'Impero.
Naturalmente, dato il carattere essenzialmente storico della Naturalis Historia, più che i libri d'argomento cosmografico (I), geografico ed etnografico (III-VI), antropologico e fisiologico (VII), zoologico (VIII-XI) e botanico (XII-XXVII), c'interessano i libri XXVIII-XXXII sui medicamenti tratti dagli animali, che sono una fonte di prim'ordine per la conoscenza della superstizione nell'antichità, e gli ultimi libri (XXXIII-XXXVII) sulla mineralogia e la lavorazione dei metalli e delle pietre, che contengono notizie preziose e di capitale importanza per la storia dell'arte antica. Tacito sorride negli Annali (XIII, 31) dell'erudita pedanteria di P. storico che non aveva avuto riguardo di "laudandis fundamentis et trabibus, quis molem amphiteatri apud campum Martis Caesar extruxerat, volumina implere, cum ex dignitate populi Romani repertum sit res illustres annalibus, talia diurnis urbis actis mandare"; ma noi abbiamo oggi imparato ad apprezzare anche quei frammenti di vita vissuta, e sappiamo che per la ricostruzione della storia dell'Impero, essi hanno accanto alle grandi pagine di Tacito il loro valore. Da un calcolo fatto da un profondo conoscitore di P. (D. Detlefsen, in Jahrbuch d. deutschen archäol. Inst., 1901, p. 76) risulta che in quegli ultimi libri della Naturalis Historia sono ricordate circa 50 statue greche di bronzo, 100 opere in marmo e 32 pitture, che ai tempi di P. si trovavano a Roma: calcolo che basta da solo a rivelare l'importanza della Naturalis Historia per la storia dell'arte antica, quando si pensi alla scarsezza di notizie che noi abbiamo su essa.
Altro fatto, che non è stato sinora messo sufficientemente in rilievo, è il grande numero di parole nuove, e tutte le ignorate possibilità descrittive del latino, che noi conosciamo soltanto attraverso P., e che fanno della Naturalis Historia una fonte precipua per la storia della lingua e dello sforzo fatto dai Latini, da Lucrezio ai traduttori di Oribasio, per impadronirsi delle forme del pensiero scientifico greco e per dare un'adeguata espressione a tutte le esperienze scientifiche, dirette o indirette, fatte dal mondo romano. P., che quando vuol fare il letterato, il che gli avviene specialmente nella prefazione, è scrittore tipicamente retorico, sa anche descrivere chiaramente ed efficacemente in latino un mondo di cose, a cui la maggior parte dei Romani avevano guardato soltanto di sfuggita.
Il problema delle fonti della Naturalis Historia doveva diventare evidentemente un problema di capitale importanza, ma non sembra che dei numerosi studî sull'argomento si possa accettare altro che alcune conclusioni generali: la corrispondenza, in genere, dell'ordine degl'indici all'ordine secondo cui gli autori vennero adoperati - che è conclusione importante anche come riprova del carattere esteriore e alquanto disorganico dell'opera - e la necessità che alcune opere, forse romane, gli abbiano offerto il modello per l'organizzazione sistematica degli appunti raccolti. Il resto è, per la massima parte, materia opinabile. Degli scrittori scientifici contemporanei - Celso, Columella, Fenestella, Pomponio Mela - nessuno sembra avere esercitato su Plinio una grande influenza.
Il destino della Naturalis Historia fu comune a quello di altre opere del genere - p. es., le Naturales quaestiones di Seneca - e strettamente legato alla storia delle scienze medievale e moderna. Le epitomi, dai Collectanea rerum memorabilium del secolo III, alla Medicina Plinii del IV, alla Defloratio che Roberto di Crickbade preparò nel sec. XII per Enrico II, il grande numero di manoscritti - circa 200 -, le citazioni: è tutto un complesso di elementi da cui possiamo dedurre quel che P. rappresentò per la scienza medievale. Poi venne, con la scienza moderna, il tramonto. Altre opere perdute di P., oltre quelle già citate, sono lo Studiosus, introduzione in tre libri allo studio dell'eloquenza, che Quintiliano (XI, 3, 143) giudicò pedanti; e gli otto libri Dubii sermonis, frutto dei duri tempi neroniani, e nei quali prese, com'era giusto, una posizione intermedia fra analogisti e anomalisti. Le linee fondamentali dell'opera si possono ancora ricostruire, perché i grammatici posteriori, specialmente Carisio, l'adoperarono molto.
Prefetto della flotta di Miseno, al momento della famosa eruzione vesuviana del 79, egli non volle, come ci narra il nipote in una delle più belle pagine del suo epistolario (VI, 16: cfr. 20) abbandonare il suo posto. Morì soffocato dalla polvere dell'eruzione, o, come credevano alcuni contemporanei (Svetonio), ucciso per ordine suo da un servo, per abbreviare la sofferenza; ma morì, ad ogni modo, eroicamente, vittima della sua curiosità di scienziato e del suo senso del dovere, egli, l'erudito colpevole d'avere troppo letto. Non sappiamo se e come Tacito si sia servito di quelle pagine, che Plinio il Giovane offriva come materiale documentario al grande amico: l'uomo certo era degno di figurare con onore nelle pagine delle Historiae.
Fonti, codici, edizioni: Fonti precipue per la biografia di P. sono, oltre alle sue testimonianze dirette, alcune lettere del nipote (III, 5; V, 8; VI, 16 e 20) e il frammento della vita di Svetonio nel De viris illustribus (Suet., Reliquiae, a cura di Reifferscheid, pp. 92-93). I codici della Nat. Hist., circa 200, si dividono nelle due categorie dei vetustiores e recentiores, la prima rappresentata soltanto da codici frammentarî e da excerpta. Anche il più autorevole rappresentante della seconda categoria, del sec. XI, è diviso in tre parti e lacunoso. Le edizioni più recenti sono quelle di D. Detlefsen, in 6 voll., Berlino 1866-1882, e, nella collezione teubneriana, la seconda ediz. del Plinio di L. v. Jahn (1854-65, con un copiosissimo indice), curata da C. Mayhoff (1875-1908; 2ª ed., ll. VII-XV, 1909). Vedi anche The elder Pliny's chapters on the history of art, trad. di K. Jex-Blake, con commento e intoduz. di E. Selbers, e aggiunte di H. Urlichs, Londra 1896. I frammenti dei libri Dubii sermonis sono stati editi da I. W. Beck, Lipsia 1804.
Bibl.: I problemi e la bibliografia riguardanti P. il Vecchio sono esposti e valutati con la diligenza e l'equilibrio consueti in M. Schanz, Gesch. d. röm. Lit., II, ii, 3ª ed., Monaco 1913, p. 479 segg. Il più profondo conoscitore di P. è considerato D. Detlefsen, a cui si debbono l'edizione della Naturalis Historia, molti studî particolari e un equilibratissimo giudizio sul valore di Plinio, come scienziato (Schanz, p. 489). Su P. storico sempre utile la famosa opera di Ph. Fabia, Les sources de Tacite dans les histoires et les annales, Parigi 1893, pp. 186, 202 e passim. I frammenti in H. Peter, Hist. Rom. Fragm., p. 310.