PLEBISCITO (plebi scitum)
Diritto romano. - Così era chiamata presso i Romani ogni norma votata dalla plebe su proposta dei tribuni. In origine, tali norme non vincolavano che la plebe stessa, la cui volontà solennemente espressa costituiva però una minaccia per il patriziato: così la nomina dei primi magistrati plebei fu accompagnata da una deliberazione, per cui la plebe dichiarava punibile di morte (sacer) chiunque attentasse alla loro vita, e consacrava i beni del colpevole alle divinità plebee. In seguito, e a scopo di pacificazione, la norma sull'inviolabilità dei magistrati e qualche altra furono accettate dagli organi della repubblica mediante giuramento (prestato forse dai soli magistrati patrizî, forse anche dal senato); e si dissero leges sacratae. Ma, quando tutte le pretese della plebe circa la parificazione ai patrizî ebbero trionfato, si volle che anche le norme votate nella sua particolare assemblea vincolassero tutto il popolo; pretesa che non dovette apparire esorbitante, in quanto anche nell'assemblea delle centurie il patriziato disponeva delle sole centurie della cavalleria, cioè di 18 voti su 193. Che peraltro tale riforma non possa essere anteriore alla legge Ortensia del 286 a. C., si è detto alla v. ortensio, quinto.
Il risultato della parificazione fu una specie di divisione del lavoro, per cui le proposte di vera portata politica venivano presentate dai consoli all'assemblea centuriata, mentre le norme di più spiccato carattere tecnico, e in specie la legislazione di diritto privato, erano lasciate all'iniziativa dei tribuni. Il che riusciva praticamente utile, in quanto i consoli erano il più del tempo al comando delle legioni, mentre i tribuni, impediti di uscire entro l'anno di carica dal pomerio della città, potevano attendere con calma, sotto la guida di giuristi esperti, all'opera legislativa. Soltanto nel periodo di crisi della costituzione repubblicana la duplicità degli organi legislativi divenne nelle mani dei capiparte un'arma insidiosa; onde la legge di Silla (88 a. C.), che toglieva alla plebe funzione, o per lo meno sottoponeva le proposte dei tribuni alla preventiva approvazione del senato: la legge fu però abrogata nel 70 a. C., su proposta di Cn. Pompeo Magno e di P. Licinio Crasso.
La plebe era convocata di regola in quella piazza adiacente al Foro, che aveva appunto il nome di comitium; e votava tributim, nel senso che ogni tribù contava per un voto, qualunque fosse il numero dei cittadini iscrittivi e dei votanti e qualunque la proporzione dei voti individuali favorevoli o contrari alla proposta. Da ciò la tendenza costante ad ammassare nelle 4 tribù urbane tutti gli elementi deteriori o infidi (libertini, proletarî), riservando le 31 tribù rustiche ai soli piccoli proprietarî.
Nell'uso comune, anche il plebiscito viene chiamato lex, ed è contraddistinto con un aggettivo formato sul nome di famiglia del tribuno proponente (lex Atinia, lex Calpurnia, ecc.); ma nel rigoroso tecnicismo legislativo il rinvio alla norma precedente si fa con l'esplicito rilievo delle due possibilità: lex, sive id plebiscitum sit.
Bibl.: Oltre la bibliografia alla v. ortensio, quinto, v. G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1912, p. 343 segg.; E. Betti, La restaurazione sullana e il suo esito, in Studi storici per l'ant. class., VII, 1916, p. 26 segg.; B. Donati, I plebisciti fonte di diritto privato secondo la dottrina romanistica del Vico, in Scritti dedicati a C. Arnò, Modena 1928.
Diritto moderno.
Il termine proviene dal diritto romano ma assume nel diritto pubblico moderno costituzionale e internazionale significato e contenuto diversi e speciali. Il termine venne nell'epoca moderna e viene tuttora talvolta usato in modo generico quale sinonimo di "consultazione popolare", di appel au peuple; cosicché istituti diversi, quali, ad es. il referendum, le elezioní generali, che col plebiscito hanno grandi affinità avendo comune il medesimo fondamento, finiscono per esser gli uni con gli altri confusi; vero è invece che ciascuno di essi si distingue, per caratteri suoi proprî, specifici e peculiari: lo stesso plebiscito presenta da stato a stato caratteri storici sostanziali diversi.
L'idea di chiamare il popolo a manifestare col voto la propria volontà circa i momenti fondamentali della vita statale sorse dalle idee contrattualistiche del sec. XVIII e da quelle della cosiddetta sovranità popolare: concepita la costituzione come un contratto sociale e concepito il popolo come depositario del potere sovrano, ne fu tratta la conseguenza che costituzione non vi potesse essere se non accettata dal popolo: esercizio diretto, quindi, da parte di questo del potere costituente. Tale principio, sull'esempio di ciò che già era avvenuto in alcuni stati dell'America Settentrionale, fu subito dalla rivoluzione francese applicato alla costituzione del 1793, mai posta in vigore, a quella dell'anno III con la quale si stabiliva il consolato, a quella dell'anno VIII, dopo il colpo di stato del 18 brumaio. A tale sistema corrisponde quello che, più tardi, prese, mantenendolo, il nome di referendum costituzionale, diretto a modificare in tutto o in parte la costituzione, diverso da quello semplicemente legislativo in cui l'intervento del popolo è limitato alla legislazione ordinaria: nell'uno e nell'altro caso il popolo concorre alla formazione dell'atto legislativo con un voto emesso sull'opera che viene o prima o poi posta in essere da apposite assemblee. Mentre però quest'ultimo istituto si pone come parte organica, stabile, normale, soprattutto di quei sistemi costituzionali che riconoscono la forma di governo diretto, il primo conserva sempre quel carattere di eccezionalità, di straordinarietà che è connaturato e si accompagna ai mutamenti costituzionali. Certamente anche nel periodo anteriore alla stessa rivoluzione francese non era mancata, nella dottrina e nella pratica, l'embrionale idea del plebiscito; alla necessità del consenso delle popolazioni che passano da uno a un altro sovrano in occasione di cessioni territoriali accennarono, ad es., F. De Victoria, e in seguito U. Grozio, S. Puffendorf, e E. Vattel. E alla richiesta di tale consenso fanno ricorso, sia pure su basi profondamente diverse dalle moderne e con scopi tutt'affatto particolari, taluni monarchi: Francesco I, dopo aver ceduta nel 1516 la Borgogna al vincitore ne convoca, l'anno dopo, gli stati perché questi si pronuncino sulla validità della cessione, dichiarandosi poi, in seguito al voto sfavorevole, sciolto dalla parola data; anche Enrico II, nell'atto di annettere Metz e altre città, chiede al popolo il consenso. Comunque, in tali casi sporadici, a concedere il consenso non è mai chiamata la collettività tutta intiera. Con la rivoluzione francese, la quale nega in teoria il diritto di conquista, il plebiscito viene posto come un correttivo e una giustificazione di questa e quale affermazione del principio della sovranità popolare: nel 1791 Avignone, nell'anno seguente Nizza e Savoia e poi alcune città della vallata del Reno e del Belgio, via via, prestano (1792-93), più o meno spontaneamente, sotto la pressione severa della forza rivoluzionaria, il consenso alla riunione loro alla Francia: consenso, comunque, di comuni, non di nazionalità; consenso che, comunque, precede la forzata annessione.
Con Napoleone Bonaparte l'indirizzo inaugurato dalla rivoluzione muta però profondamente: non più tutta quanta la costituzione viene sottoposta all'approvazione popolare, ma una concreta questione: la durata a vita del supremo magistrato (consolato a vita, anno X): la soluzione favorevole data dal popolo determina tutto un sistema politico.
Con Napoleone l'appel au peuple si è trasformato da istituto di governo diretto in istituto di governo rappresentativo: la sovranità popolare rimane bensì la fonte del potere, ma, nell'interpretazione bonapartista e nella pratica applicazione, diventa la fonte più specialmente di un governo personale, di una dittatura cioè conferita dal popolo al capo dello stato. L'idea è, nel 1851, ripresa e sviluppata da Luigi Napoleone, presidente della repubblica, ed è anzi attuata col nome nuovo di "plebiscito": subito dopo il colpo di stato, il popolo è chiamato a dichiarare la propria volontà circa il mantenimento dell'autorità nella sua persona e a delegare a lui il potere costituente necessario per fare una costituzione sulle basi eontenute nel proclama del 2 dicembre. Quella che deriva dal voto favorevole (costituzione 14 gennaio 1852) non è perciò sottoposta a ratifica popolare; essa però stabilisce che al presidente sia sempre riconosciuto il diritto di fare appel al popolo e che, per l'innanzi, al voto popolare debba venir sottoposta ogni modificazione alle sue basi fondamentali; difatti, quando, poco dopo, viene ristabilita la dignità imperiale ereditaria, il popolo è chiamato non solo a confermarla con plebiscito nella persona di Luigi Napoleone, ma a conferire a questo anche il diritto di regolare l'ordine di successione al trono nella sua famiglia: il presidente diviene così imperatore per grazia di Dio e per volontà nazionale. Subito diverse interpretazioni e modifiche alla costituzione del 1852 vengono apportate senza che venga fatto ricorso al plebiscito, al quale neppure si ricorre per le successive e ben più radicali riforme, soltanto da ultimo, quando l'impero sta per sfasciarsi, al plebiscito vengono sottoposte quelle riforme liberali apportate dopo il 1860 alla costituzione, col concorso dei grandi corpi dello stato (costituzione 21 maggio 1870).
Dato il discredito da cui furono accompagnati i plebisciti imperiali, che, sintesi di due concetti antagonistici, autocrazia e democrazia, avevano sempre posta innanzi al popolo la scelta, e con ben scarsa libertà di voto, fra una determinata questione e il nulla, la repubblica, succeduta all'impero, nel timore di veder risorgere il governo personale, non solo non fece ricorso ad alcun plebiscito, definito allora come falsa deferenza alla sovranità nazionaie, ma neppure riprese i precedenti dell'epoca rivoluzionaria.
Scopi assolutamente diversi ebbero i plebisciti italiani. In Italia i primi "appelli al popolo", i primi "voti della nazione", le prime "votazioni universali" s'iniziano col 1848 e subito si propongono come scopo l'unificazione italiana: essi precedono, allora, gli atti concreti di una qualsiasi assemblea e vengono indetti per indicare, per sommi capi, ai governi provvisorî la via ch'essi debbono seguire: a Parma, a Modena, in Lombardia, in alcune provincie venete assumono subito il carattere di supreme decisioni del popolo sui destini d'Italia: quello soprattutto indetto dal governo provvisorio lombardo che propone al popolo la scelta tra l'immediata fusione con gli stati sardi, salva la convocazione di una comune assemblea costituente che discuta e stabilisca le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale con la dinastia di Savoia, o la dilazione, a causa vinta, della discussione sui destini politici. L'esito sfortunato della prima guerra d'indipendenza rende inutili sia i voti favorevoli all'unione col regno sardo, sia la loro accettazione da parte di questo. Ma l'idea rimane; si rafforza anzi col rafforzarsi via via del "principio di nazionalità", affermatosi ormai come reazione allo spirito oppressivo uscito nel 1815 dal congresso di Vienna. Come suo corollario si afferma anche il principio dell'autodecisione dei popoli: l'interrogare le popolazioni interessate sulla loro volontà circa i loro futuri destini politici si pone come il mezzo migliore che permette di constatare in esse l'esistenza di una coscienza nazionale. È allora che il termine "plebiscito", già introdotto in Francia da Luigi Napoleone, favorevole ormai al movimento italiano, trova nel 1859-60 la sua patria di adozione in Italia, consacrato ufficialmente, con saggia piaggeria diplomatica, nei diversi atti dei nostri governi provvisorî: i quali però dei plebisciti napoleonici adottano soltanto il nome, non la sostanza: se identico è infatti fra questi e i plebisciti italiani il punto di partenza, volontà nazionale, ben diverso è il punto di arrivo: affermazione del principio di nazionalità, libera disposizione di sé stessi, delle proprie sorti politiche. E l'imperatore francese non può, coerentemente all'origine democratica della sua monarchia, rifiutare di riconoscere il punto di partenza, quando quello d'arrivo e il contenuto dei plebisciti italiani possono servirgli, nel campo della politica internazionale, di ottimo mezzo per scardinare tutto quanto l'ordinamento politico europeo ispirato ai principî della Santa Alleanza.
L'istituto coi caratteri impressivi in Italia varca infatti allora i limiti del diritto pubblico interno per entrare anche nel campo del diritto internazionale: di esso più specialmente il Cavour si vale per offrire ai terzi stati la prova dell'esistenza di una coscienza nazionale italiana, di una volontà risoluta, ormai irriducibile circa il raggiungimento dello scopo prefissosi: fuori di essa non vi può essere che guerra o rivoluzione. E il plebiscito entra nel campo internazionale non soltanto come espediente politico, ma anche come istituto che riesce a spiegarvi un valore giuridico.
Il plebiscito delle provincie dell'Emilia e della Toscana (11-12 marzo 1860), che, pur mirando alla finale unificazione, venne indetto sulla formula: "annessione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II, ovvero regno separato", rappresentò un istituto di diritto interno, di governo diretto, col quale il popolo dei diversi stati, investito della funzione costituente, fu chiamato a risolvere, con un atto di volontà che valeva come volontà degli stati, la questione di vita o di morte di questi: dell'indipendenza giuridica e politica di Parma, Modena, Romagna, Toscana, i plebisciti favorevoli all'unione loro col regno sardo decretarono infatti la fine. E i decreti del popolo costituirono, dal punto di vista internazionale, altrettante proposte avanzate da tali stati a quello sardo che, accettatele, li dichiarò sue parti integranti. I due plebisciti meridionali (21 ottobre 1860), indetti dalla dittatura di Garibaldi sulla formula: "il popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti", se, dal punto di vista del diritto interno, avevano il carattere medesimo del precedente, avevano più ampio lo scopo, in quanto miravano non a una semplice annessione allo stato sardo, ma alla fusione con questo dello stato delle due Sicilie così che da essa derivasse uno stato nuovo, lo stato italiano: anch'essi, dal punto di vista internazionale, costituiscono proposte da stato a stato: accettate queste dallo stato sardo, i due stati si estinguono e sorge lo "stato italiano". A ingrandire subito questo intervengono i plebisciti delle Marche e dell'Umbria, alle quali, ormai conquistate allo stato pontificio, già era stata fatta la solenne promessa che le loro popolazioni avrebbero avuto il diritto di decidere sui futuri destini. Indettivi dalle autorità dello stato conquistatore sulla formula: "volete far parte della monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II?", i plebisciti costituirono una volontaria limitazione da questi posta, seeondo l'impegno assunto, al diritto di disposizione dei territorî derivantegli dalla conquista: il consenso plebiscitario servì a legittimare l'opera dei governi provvisorî locali e a provare ai terzi stati che alla forza andava unito il consenso.
Col trattato di Vienna 3 ottobre 1866 le provincie venete e di Mantova vengono dall'Austria cedute alla Francia e da questa all'Italia. Francesco Giuseppe, che nel 1859 aveva dichiarato di non annettere importanza alla volontà dei popoli, consente la cessione "sous réserve du consentement des populations dûment consultées"; il plebiscito che, indettovi dalle autorità italiane sulla formula: "dichiariamo la nostra unione al regno d'Italia sotto il governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori", lascia libere le popolazioni di decidere sulle proprie sorti, costituisce, per il diritto interno, esercizio di funzione costituente da parte delle popolazioni interessate e dal punto di vista internazionale l'adempimento per parte dell'Italia di un obbligo assunto col trattato. Lo stato italiano s'ingrandisce ancora nel 1870 in seguito alla debellatio dello stato pontificio: il plebiscito indettovi dalle autorità italiane con la medesima formula di quello veneto, presenta caratteri identici a quelli dei plebisciti marchigiano e umbro. Le reiterate manifestazioni d'italianità da parte della Venezia Giulia e Tridentina e di Fiume vi hanno reso inutile qualsiasi plebiscito.
Tali i caratteri dei diversi plebisciti italiani che se, in linea giuridica, riuscirono a spiegare una non lieve importanza, si posero poi, in linea politica, come solenni affermazioni del principio di nazionalità, e anche quali consaerazioni, in genere, degli avvenimenti compiutisi e dell'indirizzo politico a questi impresso dai diversi governi provvisorî per avviare le diverse regioni allo stabile assetto definitivo. Essi parteciparono di quel carattere di straordinarietà proprio di tutta l'unificazione italiana che in essi riuscì a trovare il proprio fondamento. Mediante i plebisciti vennero dall'ordinamento costituzionale fissati certi punti basilari (f0rma monarchico-costituzionale di governo, dinastia); non s'ebbe però mai approvazione dello statuto che, prima o poi pubblicato nelle diverse parti d'Italia, non venne sottoposto a plebiscito veruno. Comunque, tali atti sono entrati a far parte del diritto pubblico italiano in base al principio che un ordinamento costituzionale non può non considerare come suo tutto il complesso di principî, d'istituti che hanno costituito i prodromi della sua vita. Sul loro fondamento il primo re d'Italia tale divenne per grazia di Dio e "volontà della nazione".
Riconosciuto ormai nel 1859-60 il principio dell'autodecisione dei popoli per parte degli stati sardo e francese, ne derivò la politica, dolorosa necessità di applicare il plebiscito alla cessione di Nizza e Savoia fatta nel 1860 dal primo al secondo: il trattato di Torino del 24 marzo di quell'anno stabiliva che la cessione dovesse effettuarsi "sans nulle contrainte de la volonté des populations"; non si stabilivano né forme, né condizioni della consultazione; i due capi di stato si sarebbero al più presto intesi sui mezzi migliori per apprezzare e constatare le manifestazioni di tale volontà. Il plebiscito indetto (15-22 aprile) sulla "unione alla Francia, o no" in esecuzione del trattato e prima che questo venisse approvato dalle camere, pose queste dinnanzi al fatto compiuto (legge 11 giugno 1860).
Tali furono i plebisciti francesi e italiani che hanno, talora su identiche basi, talaltra su basi diverse, segnato la via allo sviluppo ancor più recente dell istituto, estendendo i primi la pratica specialmente nel diritto costituzionale interno degli stati, i secondi in questo e nel campo del diritto internazionale. Negli altri paesi d'Europa ricordiamo il tentativo inutile della Norvegia di ottenere nel 1814 di essere consultata sulla sua cessione dalla Danimarca alla Svezia, e la proposta avanzata nel 1857 dalla Russia assolutista e appoggiata da Napoleone che le popolazioni della Moldavia e Valacchia, destinate a formare lo stato romeno, venissero consultate sulla loro separazione dall'impero turco. Fu, però dietro l'esempio italiano del 1860 che il plebiscito vero e proprio entrò nella pratica internazionale: nel 1861 la repubblica di San Domingo venne ceduta alla Spagna sul fondamento di un plebiscito, e prescindendo dal caso della cessione nel 1863 da parte dell'Inghilterra alla Grecia delle Isole Ionie dietro manifestazioni della volontà dagli abitanti esplicatesi semplicemente a mezzo del parlamento, il plebiscito trovò nel 1866, su ispirazione di Napoleone III, un'applicazione teorica nell'art. 5 del trattato di Praga: l'Austria nel cedere alla Prussia, fra gli altri, anche i territorî settentrionali dello Schleswig, pose infatti la riserva che, se le loro popolazioni fossero state chiamate a esprimere per libero suffragio il loro desiderio di appartenere alla Danimarca, sarebbero a questa state cedute. Sennonché, rifiutandosi la Prussia di procedere al plebiscito, più tardi, nel 1878, l'Austria rinunciò alla clausola. Invano si tentò di portare la pratica anche sul continente americano: nel 1867 gli Stati Uniti acconsentirono, su proposta della Danimarca, a sottoporre a plebiscito l'acquisto delle Antille danesi: il plebiscito favorevole all'annessione avvenne nel 1868, ma il senato americano si rifiutò di dare il proprio consenso alla ratifica del trattato.
La guerra franco-prussiana non portò a nessun plebiscito: restarono vane allora le richieste della Francia dirette a ottenere che l'Alsazia e la Lorena fossero chiamate a far conoscere la loro volontà, nonché le proteste dei rappresentanti alsaziani-lorenesi. La pratica però s'affermò ancora nel 1877, allorché la Svezia cedette alla Francia, con la riserva espressa del consenso delle popolazioni, l'isola di San Bartolomeo nelle Antille e, più tardi, nel 1883, quando, terminata la guerra fra Chile e Perù questi stati stabilirono che le popolazioni delle due provincie di Tacna e Arica, sottoposte all'amministrazione del Chile, fossero chiamate entro dieci anni a dichiarare la loro volontà di appartenere all'uno o all'altro stato: l'affermazione del principio rimase però semplicemente teorica: il plebiscito infatti non ebbe più luogo e la lunga controversia determinatasi fra i due stati venne molto più tardi decisa da un arbitrato del presidente degli Stati Uniti e poi nel 1929 da un trattato che affidò Tacna al Perù e l'altra provincia al Chile. Da allora diverse cessioni territoriali in America, in Europa o altrove avvennero senza essere accompagnate da plebiscito veruno. È la fine della guerra mondiale quella che segna la pratica, frequente ripresa e attuazione dei cosiddetti "plebisciti di annessione", tendenti, se non ad affermare addirittura il principio che una annessione territoriale non è legittima se non accompagnata dal consenso delle popolazioni destinate a passare dalla sovranità di uno stato a quella di un altro, a sanzionare l'opportunità che nelle cessioni di territorio venga, il più possibile, salvaguardato il principio di nazionalità, affermantesi, oltre che per altri segni, anche per mezzo di un esplicito atto di volontà delle popolazioni direttamente interessate. In favore di tale principio e di quello dell'autodecisione dei popoli si era già pronunciato, in uno dei suoi 14 punti, il presidente americano W. Wilson; nel 1917, sfasciatosi l'impero degli zar, anche il nuovo governo russo aveva dichiarato essere tutte le popolazioni allogene della Russia libere di disporre dei proprî destini: mentre quest'ultimo fatto spiega come diversi dei trattati conclusi poi fra la Russia e gli stati baltici non abbiano escluso la possibilità di addivenire a plebisciti, le proclamazioni del Wilson spiegano come i trattati di Versailles e di Saint-Germain siano intervenuti a regolare diversi plebisciti con varie modalità, condizionando al loro risultato favorevole l'assegnazione all'uno piuttosto che all'altro stato dei territori costituenti le cosiddette "zone grige", nelle quali, data l'incertezza circa l'appartenenza della popolazione a una piuttosto che a un'altra nazionalità e circa gli altri caratteri ed elementi caratteristici di questa, era utile ricorrere alla volontà della maggioranza della popolazione interessata.
Non tutti i plebisciti previsti dai trattati ebbero effettiva esecuzione; ad altri invece, che non erano stati previsti, fu opportuno ricorrere per risolvere controversie derivanti dai trattati stessi. Non tutti poi i passaggi territoriali dall'uno all'altro stato furono accompagnati da plebisciti. Così avvenne a proposito dei territorî passati dall'impero austro-ungarico all'Italia: non solo i confini naturali, iníatti, ma anche altri caratteri economici, politici, militari attestavano la nazionalità dei territorî stessi: Trento, Trieste e Fiume avevano già, del resto, con indubbî segni manifestato l'inequivocabile loro volontà di essere italiane. F così pure per l'Alsazia e la Lorena, dove, non essendosi nel 1871 proceduto a plebiscito di sorta, si trattava di una reintegrazione dell'antico diritto della Francia.
Il primo plebiscito, non di carattere internazionale, ma spontaneo e di diritto interno, si ebbe nelle Isole Åland, la cui popolazione dichiarò nel dicembre 1917, in seguito al principio proclamato dal nuovo governo russo, di volersi unire alla Svezia e di non voler far parte della repubblica finlandese che si veniva allora costituendo; costituitasi questa ultima, una seconda consultazione ebbe luogo nel 1919 e fu pure favorevole alla Svezia: la controversia che ne derivò fra i due stati fu portata al consiglio della Società delle nazioni, e fu da questo risolta a vantaggio della Finlandia: comunque, l'accordo diretto intervenuto poi fra i due stati interessati portò a riconoscere a favore delle Isole Åland, pur rimaste parte della Finlandia, un regime di autonomia. Per il trattato di Versailles (art. 34) le popolazioni dei distretti di Eupen e Malmedy uniti al Belgio si videro riconosciuto il diritto di esprimere, in appositi registri e nel termine di sei mesi dall'entrata in vigore del trattato, il desiderio di essere, o no, mantenute sotto la sovranità tedesca: l'espressione di volontà favorevole al Belgio venne controllata da questo, cioè dalla stessa parte interessata. Altri veri e proprî plebisciti vennero invece meglio regolati dallo stesso trattato per certi territorî della Prussia Orientale (art. 94), dell'Alta Slesia (art. 88) cui la Germania rinunciò a favore della Polonia, dell'alto Schleswig cui pure rinunciò a favore delle potenze alleate e associate che dovevano rimetterlo alla Danimarca (art. 109), e, finalmente, per il territorio del bacino della Saar, sottoposto, fino a espletamento del plebiscito da farsi dopo quindici anni, alla sovranità della Società delle nazioni (art. 49). Numerose garanzie furono prestabilite: controllo della Società delle nazioni, preventivo, contemporaneo e successivo; fissazione di un congruo termine per dare modo alle popolazioni di orientarsi nell'assetto derivante dalla guerra mondiale e alle apposite autorità internazionali di dettare le norme relative ai requisiti richiesti per il voto, sempre universale, ed esteso talora ai due sessi, libero e segreto; assicurazione della libertà anche mediante l'intervento di forze militari neutrali; divisione dei territorî plebiscitarî in modo da potere tener conto, oltre che del voto degli abitanti, anche, nella definitiva loro assegnazione, di quegli altri fattori geografici, economici, militari, caratteristici della nazionalità, in modo che non venisse spezzata l'unità dei territorî stessi; deferimento a organi appositi internazionali dell'equa, definitiva assegnazione, a plebiscito avvenuto, dei territorî all'uno o all'altro stato, a seconda, dato l'accavallarsi di taluni dei diversi gruppi etnici, dell'eventuale disparità dei risultati del voto nelle diverse zone.
Il plebiscito del 1921 per comuni dell'Alta Slesia, favorevole in complesso alla Germania, portò all'assegnazione, dietro parere richiestogli del cnnsiglio della Società delle nazioni, di parte del territorio alla Germania e di parte alla Polonia, in modo che ciascuna parte comprendesse la maggioranza rispettivamente favorevole all'uno o all'altro stato col minimo di minoranze etniche possibile. In quello della Prussia orientale del 1920 il risultato fu con schiacciante maggioranza favorevole alla Germania. Nello Sehleswig il plebiscito del 1920 venne determinato per zone; nella zona settentrionale il risultato venne determinato in globo, in quella meridionale per comuni; la prima fu favorevole alla Danimarca, la seconda, poco dopo, alla Germania: la prima zona passò quindi dalle potenze alleate e associate alla Danimarca in base al trattato di Parigi del 1920. Il plebiscito della Saar (13 gennaio 1935) ha presentato la speciale caratteristica di offrire alle popolazioni la scelta fra tre soluzioni diverse: o unione alla Francia o ritorno alla Germania o mantenimento dello statu quo. Ogni comune, non il territorio nel suo complesso, doveva far conoscere la propria volontà, arbitra dell'interpretazione del plebiscito e, quindi, dell'assegnazione del territorio o delle sue parti la Società delle nazioni. Svoltosi il plebiscito in modo pacifico e con schiacciante maggioranza a favore del ritorno alla Germania, la Società delle nazioni decise senz'altro l'unione a questa della totalità del territorio.
Il trattato di S. Germano (art. 49-50) regolò il plebiscito di Klagenfurt, al confine fra l'Austria e il regno dei Serbi-Croati-Sloveni (ora Iugoslavia) allo scopo di determinare una linea di demarcazione fra nazionalità tra loro confuse: la regione venne divisa in due zone, la prima occupata da truppe iugoslave, l'altra da truppe austriache; nella prima il plebiscito ùoveva avvenire entro tre mesi dall'entrata in vigore del trattato; e, se il voto fosse stato favorevole allo stato provvisoriamente occupante, si sarebbe dovuto, poco dopo, procedere al voto nella seconda zona; se fosse stato invece favorevole all'Austria, il plebiscito in questa non si sarebbe effettuato e il territorio sarebbe stato attribuito senz'altro all'Austria stessa. E così avvenne nel 1920. Il trattato del Trianon non contemplò alcun caso di plebiscito, nonostante che l'Ungheria ne reclamasse l'applicazione: ne furono beneficiate Serbia, Cecoslovacchia, Romania. La quale ultima, cui nel 1918 si era unita la Bessarabia, sostenne a proposito di quest'ultima, contro le proteste della Russia, l'inutilità di un qualsiasi plebiscito: le potenze alleate, non gli Stati Uniti, riconobbero il latto compiuto. Fu invece risolta, dietro mediazione italiana, mediante il plebiscito del 1921 avvenuto a Sopron e dintorni, la questione del Burgenland fra l'Austria e l'Ungheria, risoltosi a favore di quest'ultima. Non ebbe viceversa luogo il plebiscito che, dietro richiesta della Lituania, il consiglio della Società delle nazioni aveva nel 1920 deliberato, per l'assegnazione di Vilna e territorio adiacente.
Il "plebiscito d'annessione" al quale manca, per verità, una pratica che si possa dire uniforme e costante, se non si pone ancora come un principio di diritto internazionale generale, si afferma però come manifestazione di diritto particolare: ad ammetterlo intervengono, caso per caso, le clausole convenzionali dei trattati di cessione stipulati fra stato e stato. Non sempre esso ha il carattere di consacrare e giustificare il fatto compiuto; se non sempre, molte volte almeno, esso si pone come mezzo per costituire un elemento decisivo allo scopo di assegnare definitivamente determinati territorî, posti in condizioni d'incertezza particolari, all'uno piuttosto che all'altro stato: più specialmente tale assegnazione tende a esser fatta oggi non tanto dalle stesse parti interessate quanto da organi internazionali: il che offre garanzia d'imparzialità e permette, meglio di quanto avvenisse una volta, pur attraverso l'inevitabile passionalità delle parti interessate in questioni territoriali, di non fare ricorso al plebiscito soltanto quando chi se ne fa iniziatore sia sicuro di averne un risultato favorevole, mettendo la parte avversa nell'occasione o di tentare ogni mezzo per evitarlo o d'influenzarlo con ogni sorta di pressioni. Contenuto in questi limiti e circondato dalle cautele alle quali si è accennato, non sembra che il plebiscito di annessione si ponga più, come si temeva una volta, quale istituto che possa minacciare la vita stessa dello stato, o aprendo l'adito a possibili secessioni di sue parti integranti o ostacolando l'opera spiegata, nel caso di cessioni territoriali, dagli organi supremi rappresentanti degl'interessi complessivi dello stato, le cui sorti potrebbero talora essere compromesse dal voto negativo della parte di popolazione destinata a staccarsi. Coi nuovi sistemi sembra evitato il pericolo che la maggioranza degli abitanti di una regione possa togliere al vincitore il beneficio della vittoria o impedire allo stato vinto una pace necessaria, portando così fino all'esasperazione il regime di forza derivante da una guerra.
Distinto assolutamente dal plebiscito di annessione è l'istituto dell'opzione, mediante il quale coloro che appartengono a un territorio, che venga ceduto da uno stato a un altro, sono individualmente chiamati, per un principio ormai generalmente riconosciuto, a manifestare la loro preferenza circa il mantenimento della cittadinanza dello stato cedente o l'acquisto di quella dello stato cessionario.
Nel campo del diritto costituzionale il plebiscito, figlio, con la rivoluzione francese, del contratto sociale, ha oggi mutato il suo fondamento; più che esser fondato su principî teorici, è venuto costituendo un mezzo di politica convenienza e opportunità, mediante il quale lo stato chiama anche il popolo a esercitare in taluni casi e in modo diretto il pubblico potere per saggiarne lo stato d'animo e mantenere con ciò l'aderenza e il contatto col suo elemento personale, per tutto ciò che ha diretta attinenza a un supremo interesse. Anche nel campo costituzionale al plebiscito si sono rivolte molte obbiezioni, le quali per buona parte vengono meno quando alla sana educazione politica del popolo chiamato a esprimersi con tale mezzo venga accompagnandosi il rispetto, per opera di governi o di partiti, della libertà nell'espressione del voto: altrimenti il plebiscito rischia di risolversi in tutti gli stati in una vera irrisione.
L'istituto ha mantenuto quel carattere eccezionale e generale impressogli dall'epoca rivoluzionaria francese e dalle epoche posteriori, sia pure attraverso gli scopi diversi propostisi dai diversi sistemi di governo che a esso hanno fatto ricorso; il carattere, cioè, di un istituto mediante il quale il popolo, o meglio i cittadini attivi dello stato sono chiamati o a esercitare vera e propria funzione costituente, alcune volte iniziandone l'esercizio mediante l'istituzione di un consiglio, altre volte, approvando tutta una costituzione o gli atti che la modificano, oppure a decidere una concreta questione o a prendere supreme decisioni sui momenti fondamentali della vita dello stato.
Con tale carattere la sostanza del plebiscito, se non il nome (la denominazione di referendum corrispondeva a speciali tradizioni di qualche cantone della repubblica elvetica), aveva trovato, innanzi tutto, applicazione, o tuttora la trova, in diverse costituzioni di singoli cantoni svizzeri e in quella federale del 1874: la questione di sapere se si debba, o no, procedere alla revisione della costituzione quando i due consigli legislativi non siano su ciò d'accordo e quando 50 mila cittadini l'abbiano richiesta, deve esser deferita alla votazione del popolo svizzero per sì o per no. Se la risposta di questo plebiscito consultivo è affermativa, i due consigli rinnovati debbono porre mano alla revisione. Questa può anche essere proposta senz'altro dai due consigli d'accordo fra loro: comunque, tanto nel primo come in questo secondo caso, il testo definitivo deve essere sottoposto alla votazione popolare e al voto dei cantoni: la decisione suprema del popolo svizzero, organo - insieme con altri - costituente dello stato, si pone come un momento essenziale della perfezione dell'atto che modifica la costituzione. Con ciò è ripreso il sistema inaugurato dalla rivoluzione francese, imitato, oltre che dalle costituzioni di diversi cantoni svizzeri, anche da quelle di altri stati, ad es. dell'Australia e della Danimarca.
Diverse costituzioni postbelliche, ispiratesi al principio democratico o del governo diretto, hanno ricorso all'identico sistema; i numerosi mutamenti già avvenuti in quasi tutte non permettono qui di seguirne i diversi indirizzi: basti citare, ad es., quella della Grecia (1927), secondo la quale (art. 125) l'assemblea nazionale può sottoporre a plebiscito la propria decisione sulla revisione; in tal caso le disposizioni rivedute entrano in vigore se sono approvate dal popolo. In Lettonia 1922) certi emendamenti votati dalla dieta debbono essere sottoposti a un referendum, che si risolve in un vero plebiscito; in Lituania (1928) a questo si può ricorrere circa gli emendamenti o completamenti della costituzione adottati o rigettati dalla dieta, qualora il presidente o un certo numero di elettori ciò esigano. Mentre alcune costituzioni postbelliche escludono il plebiscito sui progetti di legge governativi aventi lo scopo di modificare o completare la costituzione e le leggi considerate come sue parti integranti (Cecoslovacchia), alcune altre lo hanno ammesso (Irlanda, Estonia, Islanda); tra queste non vanno più annoverate quelle, ormai tramontate, dell'Austria e dell'impero germanico, le quali, oltre ad avere ammesso il plebiscito in caso di revisione totale o parziale, avevano impresso ad esso il carattere squisitamente politico, che in alcune altre costituzioni ancora conserva, d'istituto diretto a dirimere talora conflitti fra organi e organi costituzionali: la costituzione di Weimar, ad es., si era spinta a confidare al parlamento il potere di fare appello al popolo per la deposizione dello stesso presidente: dalla risposta dipendeva o la revoca di questo o lo scioglimento del parlamento. Scioglimento, questo, che può invece, tuttora, in altre costituzioni, essere sottoposto a plebiscito dal capo dello stato oppure è lasciato, in alcuni cantoni svizzeri, all'iniziativa popolare: con ciò il plebiscito negli stati a sistema di governo diretto, sembra avvicinarsi, sia pure su basi, con spirito, con scopi diversi, ma con identica forma, al sistema inaugurato dal primo Napoleone: il plebiscito, non avente riferimento alla legislazione costituzionale, tanto meno a quella ordinaria, ma posto su una concreta questione interessante un momento fondamentale della vita dello stato, qual è la durata della carica del capo dello stato, apre la via ad altre e diverse sue applicazioni; mentre di una di queste offrì un esempio la Svizzera quando si trattò di far decidere dal popolo il suo ingresso, o meno, nella Società delle nazioni, di altre può offrirne la Svezia quando l'importanza o la natura di una particolare questione consigli e re e Riksdag a indire su questa apposito plebiscito. Istituto, per natura sua e in massima, di governo diretto, può il plebiscito quindi trovare applicazioni anche nei governi rappresentativi. Oggi v'è anzi tendenza ad applicarne il concetto a istituti che, per il loro stesso carattere, se ne mantengono distinti. Le "elezioni generali" costituirebbero quasi o addirittura sinonimo di plebiscito: il che, dato lo svolgimento storico di questo con i suoi peculiari caratteri, non sembra, almeno in ogni caso, essere esatto.
Non si può certamente negare che affinità fra l'uno e l'altro istituto esistano così come, in genere, non si possono negare quelle esistenti fra plebiscito e altri istituti proprî delle forme democratiche e di governo diretto, i quali non sempre si presentano, da stato a stato, con contorni eguali, con caratteri netti e precisi. Certo l'istituto delle elezioni generali è venuto sempre più affermandosi, in tutti gli stati, con un complesso significato: accanto al loro connaturato carattere di costituire una scelta delle persone destinate a formare organi costituzionali, esse hanno anche assunto il significato politico di approvazione, o meno, di tutto un determinato indirizzo politico. E però da alcuno fu detto che ciò che giuridicamente rappresenta un'elezione generale, politicamente rappresenta un plebiscito embrionale, specialmente se si ha riguardo a quei casi in cui le elezioni generali vengono indette su un esplicito programma di riforme costituzíonali, alle quali si debba, o no, procedere in seguito al risultato del voto: così avviene per consuetudine in Inghilterra, così esigono in modo esplicito le costituzioni, ad es., del Belgio o della Spagna: le camere debbono essere sciolte: gli elettori allora, votando, nelle elezioni generali, per un candidato, votano per sì o per no sul problema della revisione, la quale viene poi in concreto rimessa alla decisione di altri organi costituzionali. È più specialmente a proposito di queste elezioni, alle quali si ricollegano i più vitali problemi dello stato, che al loro risultato va congiunto quell'effetto che, di solito, si attende da un plebiscito: la soluzione che a questo viene richiesta deve, per avere tutto il suo peso morale, sgorgare da una maggioranza che si avvicini alla quasi totalità, così da presentarsi davvero come il responso, come "il decreto del popolo" per antonomasia, sulla posta questione.
Ora, il grande interesse che si riattacca alle elezioni generali in tali o simili casi può imprimere al loro esito tale risultato plebiscitario: elezioni generali e plebiscito più che ravvicinati vengono allora, nel loro complesso, confusi, e di quelle senz'altro si parla come di elezioni plebiscitarie. Sennonché, dall'identità di effetti non deriva l'identità di natura fra i due istituti: sarà pur sempre vero che la stessa precisa e determinata questione sottoposta allora a un'elezione generale andrà confusa con tutte le altre che formano il contenuto dei programmi dei diversi partiti. La stessa libertà di scelta tra diverse persone e diversi programmi lasciata agli elettori e costituente lo scopo diretto delle elezioni, il fatto stesso che sulla posta questione il responso elettorale sarà sempre manifestato in modo indiretto, varranno sempre a tenere distinti i due istituti, elezioni generali e plebiscito, di cui l'ultimo è sempre limitato alla soluzione diretta, esplicita, inequivocabile di una concreta questione da decidersi, per il sì o per il no. A questo punto occorre fare una distinzione fra costituzione e costituzione. I nuovi principî di diritto pubblico, tutto il nuovo meccanismo elettorale, hanno, p. es., in Italia trasformato il carattere delle elezioni generali così da farlo apparire come assorbito da quello del plebiscito: il riconoscimento dell'unico partito di stato, il sistema totalitario adottato, la funzione preminente e decisiva affidata, nelle elezioni generali, a un organo costituzionale mediante la designazione dei deputati nell'unica lista, sul complesso della quale il corpo elettorale è chiamato a esprimere il voto, hanno mutato il carattere e il significato delle elezioni generali: la lista si pone come indice, espressione di tutto un indirizzo politico; con la risposta per il sì e per il no alla domanda: "approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del fascismo?" l'elezione viene ridotta ad una semplice espressione di consenso o dissenso in confronto di un sistema di governo, di un indirizzo politico, di quell'indirizzo segnato dalle supreme gerarchie del partito: earattere e significato codesti i quali vengono ad avere decisiva prevalenza su quelli di scelta dei rappresentanti che sono inclusi nelle elezioni generali. Altra forma di applicazione di plebiscito quindi che, posto su una concreta questione squisitamente politica, per sì o per no, non riposto sul concetto della sovranità popolare, si propone, in un sistema non fondato sul governo diretto, lo scopo di saggiare lo stato d'animo popolare per mantenerne meglio il contatto con lo stato.
In Germania, tolta di mezzo la costituzione democratica di Weimar, si sono, almeno formalmente, fino ad ora mantenuti distinti i due istituti delle elezioni generali e del plebiscito: il 12 novembre 1933 il popolo tedesco veniva chiamato ad esprimere due voti, contemporanei e distinti, per sì o per no, su due schede, l'una delle quali comprendeva il simbolo della lista dell'unico partito nazionalsocialista, l'altra la domanda rivolta al popolo se esso approvasse la politica del governo del Reich se fosse pronto a dichiarare essere questa l'espressione dei suoi sentimenti e della sua volontà e a proclamare solennemente la propria adesione. Non si trattò in definitiva, che di un bis in idem. Decisivo senz'altro nel senso di far rivivere il classico concetto del plebiscito bonapartista fu il plebiscito del 19 agosto 1934: il governo del Reich decretò il 2 agosto riunite le funzioni di presidente del Reich a quelle di cancelliere, per cui gli attuali poteri del primo sono passati nell'attuale Führer e cancelliere del Reich. Il popolo fu chiamato a pronunciarsi per il sì o per il no sulla misura adottata dal precedente decreto, che mutava radicalmente la vecchia costituzione. Tutto il potere, aveva poco prima ripetuto il cancelliere, emana dal popolo; il plebiscito ratificò il fatto compiuto: il sistema germanico ricalcò così le orme del sistema bonapartista.
Bibl.: Oltre i principali trattati di diritto internazionale e costituzionale v.: F. Stoerk, Option und Plebiscit, Lipsia 1879; E. Rouard de Card, Les annexions et les plébiscites, Parigi 1880; A. Brunialti, La Costituz. ital. e i plebisciti, in Nuova Antologia, 1883; Le assemblee del Risorgimento, Roma 1911; D. Anzilotti, La formazione del regno d'Italia nei riguardi del diritto internazionale, in Riv. di dir. internaz., 1912; S. Romano, I caratteri giuridici della formazione del regno d'Italia, in Riv. di dir. internaz., 1912; A. Esmein, Éléments de droit constit. fran. et comparé, Parigi 1827-28; 7ª ed. a cura di H. Nézard, ivi 1921; Bourgeaud, Histoires des plébiscites, Ginevra 1879; T. Marchi, La formazione storico-giuridica dello stato ital., I, Parma 1924; P. Fauchille, Traité de droit international public, I, ii, Parigi 1925; C. Lipartiti, La prassi dei plebisciti nelle sistemazioni territoriali seguite alla guerra europea, in Riv. di dir. internaz., 1926; S. Wambaugh, Plebiscite since the World War, Washington 1933; G. Fusinato, in Encicl. giurid. it., s. v. Annessione; G. Tambaro, in Digesto italiano, s. v. Plebiscito.