Playtime
(Francia 1965-67, 1967, Playtime ‒ Tempo di divertimento, colore, 132m); regia: Jacques Tati; produzione: Bernard Maurice per Specta; sceneggiatura: Jacques Tati, Jacques Lagrange; fotografia: Jean Badal, Andréas Winding; montaggio: Gérard Pollicand; scenografia: Eugène Roman; musica: Francis Lemarque.
Aeroporto di Parigi: gente che va, gente che viene. Una comitiva di turisti americani arriva a dare il cambio a una che parte. Tra di essi c'è una graziosa ragazza, Barbara, attratta da una vecchia Parigi di cui ha sentito parlare, ma che è nascosta da grandi palazzi, parcheggi e strade che il traffico intenso inchioda in file d'auto immobili. I turisti vengono trasportati a visitare la fiera, in un palazzo accanto a quello, tutto in vetro e cemento, in cui, nello stesso momento, arriva monsieur Hulot. Un vecchio portiere cerca inutilmente di procurargli un incontro con l'indaffarato monsieur Giffard: dopo una lunga attesa in una sala di cristallo, Hulot entra per errore in un ascensore e viene portato a un piano in cui si trovano allucinanti uffici simili a scatole bianche e corridoi deserti. Hulot e Giffard si aggirano per il palazzo cercandosi a vicenda, si intravedono fuggevolmente attraverso grandi pareti di cristallo, fino a quando il primo non viene trascinato via dalla comitiva dei turisti e si ritrova a visitare gli stands della fiera, pieni di gadgets ultramoderni. La serata dei turisti è dedicata all'inaugurazione del ristorante Royal Garden, ma vi arrivano due ore prima e tutto è ancora sottosopra: l'insegna luminosa all'entrata non funziona, una mattonella rimane incollata al piede di uno chef costretto a saltellare per la sala, uno sportello passavivande è troppo stretto per i vassoi, i cinquanta coperti previsti diventano centoventi, la vetrata all'ingresso va in frantumi, lo stesso tavolo viene assegnato a clienti diversi, l'aria condizionata smette di funzionare, facendo sciogliere sia i dolci che un aeroplano di plastica usato come soprammobile, destinato a riacquistare la sua forma quando l'impianto rientra in funzione. Il portiere è un vecchio amico di Hulot e lo invita alla cena. Così Hulot fa la conoscenza di Barbara e dei suoi amici, che, già un po' brilli, si stanno ritagliando una fetta di allegria in un posto in cui nessuno riesce a mangiare e tutto sta andando a pezzi. Hulot contribuisce per parte sua al disastro cercando di staccare dal muro dei fiori per una signora e staccando invece un pannello che rimane penzolante dal soffitto. Mentre il locale si avvia verso la progressiva distruzione, Barbara suona al pianoforte una vecchia melodia francese, nel frastuono generale. Alla fine della notte, Hulot, Barbara e i suoi amici si ritrovano in un vecchio bar per un ultimo brindisi. La ragazza riparte portando con sé un foulard regalatole da Hulot, ma il suo pullman rimane imprigionato in un carosello di auto che a passo d'uomo girano in tondo attorno a un monumento a forma di spirale. Scende nuovamente la sera e una fila di macchine s'incammina nell'oscurità.
Con Playtime Jacques Tati sceglie la strada più difficile e costosa per un film comico, quella del kolossal: così facendo, rinuncia a sfruttare i primi piani e le sue grandi doti mimiche, per ridurre il protagonista Hulot a una sorta di silhouette che compare solo sullo sfondo, a volte a una traccia appena riconoscibile; d'altra parte, però, il grande schermo, i campi lunghi, le scenografie ipertrofiche hanno la funzione di mettere in scena uno spazio inumano, un insieme di architetture spettrali e gadget tecnologici, in cui l'uomo è destinato a perdersi o a svanire. Come già nel precedente Mon oncle (Mio zio, 1958) Tati, nell'epoca della contestazione, ci mostra la radicale incompatibilità fra l'uomo e l'ambiente e quanto sia diventato difficile trovare posto per i rapporti umani, gli incontri affettuosi, le bevute collettive, un mazzo di fiori che nessun ciuffo di pali della luce può sostituire. Il mondo su cui si aggira ironico e distaccato lo sguardo di Tati, come quello di Hulot, è un mondo tutto superfici lucide e brillanti, di cui si può appena sorridere. Le dimensioni iperboliche della scena sono proporzionali alla distanza dello sguardo e alla discrezione del sorriso, che Tati preferisce, come già in passato, al riso aperto della comicità tradizionale: le gag sono rallentate, spesso disperse nello sfondo, oppure accennate e sfumate; la struttura prevalente è la ripetizione (tutti compiono meccanicamente gli stessi gesti) oppure la sospensione (in molti casi ci aspettiamo che accadano cose che poi non accadono). Questa discrezione domina anche nella rilettura dei modelli comici tradizionali, come lo scambio e l'equivoco (Hulot viene scambiato prima per un turista involontariamente impiccione, poi per un commesso, e gli oggetti non sono mai quello che sembrano: una maniglia è sufficiente a sostituire una porta a vetri andata in frantumi, perché questo mondo è solo apparenza). Ogni equivoco funziona da generatore di altri equivoci, diventa parte di una struttura a catena dalla logica stringente e inesorabile: tutto però come in un affresco velato di un'ironia quasi affettuosa, mai portata agli estremi della satira.
Il Royal Garden è la punta dell'iceberg di un mondo che mitizza la tecnologia e l'apparente efficientismo: non stupisce quindi che la sua distruzione progressiva occupi tutta la seconda parte del film. La catastrofe è inevitabile e inesorabile perché è nelle premesse; la regola comica dello slow burn (letteralmente: 'a fuoco lento') non ha bisogno di elementi catalizzatori. Lo stesso Hulot si limita a distruggere un pannello cui sono appesi dei fiori: basta niente perché quel mondo di cristallo, cemento e acciaio si riveli fragile e di cartapesta, e non c'è bisogno di nessun angelo sterminatore che lo conduca alla rovina: ci pensa da sé. È un mondo sbagliato e come tale destinato all'autodistruzione. In questo osservare il mondo che si sgretola nei suoi miti, Tati non sceglie la rinascita della politica propria di quegli anni, ma più semplicemente si fa da parte. Guarda e ci invita a guardare con lo stesso distacco.
Dei tre anni richiesti per la realizzazione del film, che si sarebbe rivelato un clamoroso insuccesso commerciale, l'ultimo fu dedicato interamente alla colonna sonora: non tanto le parole, che sono poche, non essenziali e spesso incomprensibili, e nemmeno la musica, ma soprattutto i rumori. Il frastuono del mondo circostante è sì in parte assorbito dai muri e dalle porte, che lo traducono in altri suoni astratti, ma ci impedisce egualmente di sentire la vecchia canzone francese durante la festa ‒ un ritorno nostalgico a una misura d'uomo soffocata dall'onnipresenza e invadenza di una dimensione metallica e ubriacante.
Interpreti e personaggi: Jacques Tati (monsieur Hulot), Barbara Dennek (Barbara), Jacqueline Lecomte (amica di Barbara), Georges Montant (monsieur Giffard), Reinhart Kolldehoff (direttore tedesco), John Abbey (Mr. Lacs), Valérie Camille (segretaria di Mr. Lacs) Marc Monjou (falso Hulot), Georges Faye (architetto), Gilbert Reeb (cameriere).
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Il gesto sonoro. Il cinema di Jacques Tati, a cura di G. Placereani, F. Rosso, Milano 2002, in partic. G. Cremonini, La gag in Jacques Tati, o l'arte della fuga, S. Gaudet, L'invenzione sonora in 'Playtime'.