platonismo
Con questo termine si è soliti indicare quel complesso di temi e dottrine, legato all'influsso delle teorie platoniche e alla rielaborazione di esse operato dalla scuola neoplatonica.
Da quando la storiografia più recente ha infatti superato, nell'interpretazione dell'opera di Platone, quello che era un abituale criterio sistematico, consistente nel ritrovare un'unica dottrina, perfetta e coerente, attraverso i singoli dialoghi, si è venuta sempre più mettendo in luce la complessità dei problemi e delle soluzioni proposte, la diversità di prospettiva e di approfondimento critico, a seconda delle varie fasi di sviluppo del pensiero platonico, dai dialoghi giovanili ai dialoghi della maturità e della vecchiaia. Questa varietà di temi, che spesso restano aperti a differenti soluzioni, ha sempre alimentato, direttamente o mediatamente, i numerosi p. che si sono sviluppati in contesti culturali diversi.
L'apporto determinante del p. e del neoplatonismo alla cultura medievale è dovuto soprattutto alle due grandi correnti della tradizione patristica (greca e latina) e della filosofia araba, in cui p. e aristotelismo sono spesso inestricabilmente connessi: si aggiunga, evidentemente, la grande diffusione del Timeo (v.) nella fortunata traduzione di Calcidio, con il relativo commento. Per quanto riguarda la tradizione cristiana, non c'è dubbio che essa abbia trovato fin dall'inizio nel p. uno strumento per tradurre le nuove esigenze religiose nel linguaggio della cultura ellenistica (il procedimento analogo di Filone nei confronti della tradizione giudaica è, sotto questo punto di vista, determinante). D'ispirazione platonica risulta, in primo luogo, una nozione di filosofia come ricerca del fine ultimo dell'esistenza, facilmente identificabile con il cristianesimo (cfr. alcuni, fra i numerosissimi esempi, in Clemente Aless. Strom. II 5; Gregorio di Nissa Oratio catech. XVIII; Agost. Civ. VIII 8). A questo principio s'ispirerà la grande tradizione platonico-agostiniana del Medioevo, che trova in Bonaventura uno degl'interpreti più felici.
Della dottrina delle idee e della dialettica platonica il pensiero cristiano tiene ferma soprattutto, da una parte, la distinzione fra mondo intellegibile e mondo sensibile come immagine del primo, dall'altra l'identificazione dei gradi successivi del processo di astrazione logica con i gradi dell'essere. In particolare, l'identità di logica e ontologia è al centro dell'opera di autori notevolmente diversi fra loro, come Origene, i Cappadoci, lo Pseudo-Dionigi, percorre tutto il sistema eriugeniano, ispirando il pensiero di Anselmo e il realismo medievale, che è all'origine della famosa questione degli universali. Proprio in questa prospettiva sono però più profondi i contrasti fra una visione intemporale, metafisica, del mondo e della sua storia, in cui tutto si risolve sul piano delle strutture dell'essere, e una concezione biblica e cristiana della storia della salvezza, di un piano provvidenziale attuato nel tempo, dell'incarnazione del Logos nella realtà concreta del vivere umano. Contrasti che assumono nell'opera di Origene un valore quasi emblematico, e che furono variamente risolti lungo quel processo, estremamente complesso, della formazione della cultura ellenistico-cristiana. Ad esempio, nell'impostazione del problema di Dio e dei suoi rapporti con il mondo, gli autori cristiani tenderanno a identificare Dio all'idea del Bene (il che, per quanto riguarda Platone, è quanto meno problematico) e tenderanno ugualmente a considerare il Demiurgo una divinità creatrice, mentre in realtà ha semplicemente funzione di ordinatore di una materia eterna, preesistente (lo stesso Agostino [Civ. VIII 11] non esita a paragonare fra loro lo " In principio fecit Deus caelum et terram " di Gen. 1, 1 e il Timeo 31c " Deum dicit in illo opere terram primo ignemque iunxisse ", ove il fuoco è considerato un equivalente del cielo). Ugualmente, la posizione del problema dell'anima e del suo destino è di quelle che giustificano ampiamente un ‛ recupero ' cristiano di Platone. La conoscenza diretta dell'opera di Platone nella patristica latina è tuttavia piuttosto limitata (più larga, naturalmente, nella patristica greca): la corrente platonica opera soprattutto attraverso i grandi intermediari, Filone in primo luogo e, sullo stesso orizzonte culturale, il grande Origene, di cui anche la tradizione latina da Mario Vittorino a Ilario di Poitiers ad Ambrogio, conserva una profonda traccia. Si deve, d'altra parte, tener presente che la formazione filosofica dei primi autori cristiani è dovuta, in larga misura, agli esponenti di quel p. medio (Plutarco, Gaio, Albino, Apuleio, Attico, nel II secolo; Massimo di Tiro e Numenio alla fine del secolo stesso) in cui già si delineano i caratteri fondamentali del neoplatonismo, come l'affermazione di una radicale trascendenza del principio di tutte le cose, l'importanza crescente degl'intermediari, l'ispirazione mistica e la ricerca di un'unione sempre più stretta con la divinità attraverso un procedimento iniziatico.
La grande sintesi speculativa realizzata nel sec. III da Plotino, nella quale peraltro agiscono in profondità elementi aristotelici, contribuisce in misura determinante a collocare sotto il segno del p. gran parte della cultura occidentale e bizantina. Al di là di ogni dualismo, è affermata nell'opera plotiniana la supremazia radicale dell'unità, come principio assolutamente trascendente e attività pura che crea sé stessa (cfr., ad esempio, Enn. VI VIII 15): la dipendenza dell'idea dell'essere dall'unità, che nel suo degradarsi determina una progressiva molteplicità e composizione, una gerarchia di esseri che si allontana dal principio causale, costituisce uno di quei grandi schemi metafisici, al cui fascino la tradizione successiva riuscirà difficilmente a sottrarsi, anche perché questo schema costituisce uno dei tentativi più organici per colmare una lacuna sempre aperta.
Il problema dell'essere del molteplice nei suoi rapporti con la causa prima, ereditato da Platone, resta infatti ugualmente insoluto in Aristotele, per cui il motore immobile, se giustifica il movimento di tutte le cose (attraverso il moto uniforme e invariabile del Primo Mobile, e quindi attraverso il moto variato degli astri, che si sostituiscono alle idee platoniche), non giustifica però l'essere delle cose stesse. Nel processo di generazione-emanazione, considerato dal neoplatonismo come conseguenza necessaria della perfezione, alla trascendenza dell'Uno succede l'Intelligenza, espressione prima della realtà del molteplice, in quanto sede delle idee nella loro differenziazione e molteplicità, mentre l'Anima rappresenta l'intermediario necessario a colmare la frattura fra l'intellegibile e il sensibile, la materia come ultimo grado dell'essere, al confine della pura negatività.
L'influenza di Plotino nel Medioevo, oltre che affidata ad Agostino, Firmico Materno, Mario Vittorino e Macrobio (per non parlare che dei latini), è mediata, per quanto attiene la tradizione logica medievale, dall'Isagoge di Porfirio (III-IV secolo), nella traduzione di Mario Vittorino, con il commentario di Boezio, dal quale prende l'avvio, com'è noto, la disputa sugli universali. Il processo del neoplatonismo pagano dopo la morte di Plotino è rappresentato soprattutto nell'opera di Giamblico, in cui il moltiplicarsi del numero degl'intermediari, identificati con le antiche divinità pagane, il ricorso alla teurgia, alla religione dei misteri, alle pratiche magiche come mezzo di accesso all'illuminazione suprema, testimonia un'accentuazione dei motivi religiosi e teologi, unita a un decisivo orientamento verso la speculazione matematica e aritmologica.
Di questa fase ultima del neoplatonismo pagano (il decreto di Giustiniano che abolisce l'Accademia di Atene è del 529), per il Medioevo è importante soprattutto Proclo, un autore che la storiografia moderna tende a rivalutare, presente nella cultura occidentale attraverso il Liber de causis e poi attraverso l'Elementatio theologica (tradotta nel 1268 da Guglielmo di Moerbeke), presente forse in maniera ancor più decisiva attraverso l'opera dello Pseudo-Dionigi sulla quale esercita un'influenza determinante: il ripetersi costante dei ritmi ternari in quella che è la struttura fondamentale della realtà, concepita come processio (πρόοδος) a partire dall'unità e reditus (ἐπιστροφή) al principio originario, ordinata secondo un principio gerarchico, costituisce un elemento caratteristico del pensiero di Proclo, destinato alla più larga fortuna.
Non è necessario sottolineare oltre che la tradizione patristica, espressione fra le più ricche della cultura ellenistico-romana, anche quando si trova in rapporto di contrasto dialettico con essa, trasmette al Medioevo un linguaggio, un'eredità culturale in cui gli elementi più diversi tendono spesso a inserirsi entro schemi platonici, platonizzanti o neoplatonici (la storiografia moderna sottolinea l'apporto fondamentale dell'aristotelismo, da una parte, ma anche, e soprattutto, dello stoicismo, mentre tutt'altro che trascurabili sono gli elementi epicurei e scettici).
Lungo la linea ininterrotta della tradizione platonica fino al Medioevo, oltre ad Ambrogio, Agostino, Ilario (fra i padri latini) e Origene, Clemente Alessandrino, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo, lo Pseudo-Dionigi, Massimo il Confessore (fra i greci), oltre a Macrobio e al suo famoso commentario In Somnium Scipionis, oltre a Marciano Capella e al suo fortunato De Nuptiis Mercurii et Philologiae, ci limiteremo qui a segnalare l'opera di Boezio, fondamentale nella formazione del pensiero di Dante.
In Boezio la nozione di filosofia come guida e conforto dell'umana esistenza raggiunse una delle sue espressioni più elevate, mentre il p. sostanziale delle interpretazioni boeziane dell'Organon aristotelico esercita la più profonda influenza sullo svolgimento della logica medievale, che da Boezio prende appunto l'avvio: inoltre, il celebre metro IX del libro III del De Consolatione philosophiae è ispirato direttamente, con grande forza di suggestione, alla visione cosmica del Timeo di Platone. La ‛ rinascenza carolingia ' si conclude, splendidamente, sotto il segno del p., con l'opera di Scoto Eriugena, che traduce quasi per intero il Corpus Areopagiticum (dopo una prima traduzione di Ilduino), iniziando la grande tradizione dei commentari dionisiani. Con queste traduzioni e questi commentari l'Eriugena estende la sua influenza assai più lontano di quanto lascerebbe supporre l'effettiva diffusione della sua grande opera filosofica, il De Divisione naturae, che è una rielaborazione sistematica e originale dei temi fondamentali del neoplatonismo cristiano. Le traduzioni del De Hominis opificio di Gregorio di Nissa e degli Ambigua di Massimo il Confessore, importanti nella formazione del linguaggio filosofico eriugeniano, sono destinate, soprattutto la seconda, a una scarsa diffusione.
Il p. di Anselmo (di derivazione agostiniana) non ha bisogno di dimostrazione e, in particolare, si è parlato di un'influenza anselmiana a proposito della dottrina delle idee formulata in Cv II IV 4 ss. e IV XV 6 (cfr. A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950,108-110). Il p. del sec. XII presenta caratteristiche particolari, in gran parte nuove rispetto alla tradizione precedente, alimentando direttamente al Timeo, a Macrobio, a Calcidio, a un'opera d'ispirazione platonica come l'Asclepius, i propri interessi per il mondo fisico, per le scienze matematiche e per le scienze della natura: la scuola di Chartres rappresenta il momento più felice di questo profondo rinnovamento culturale, strettamente connesso con il rinnovamento delle strutture politiche e sociali. Sono già stati sottolineati i rapporti fra l'opera di D. e uno degli autori più rappresentativi della cultura chartriana, come Bernardo Silvestre (v.), il cui Commentum in VI Aeneidos libros s'inserisce in una diffusa tendenza a ritrovare nei classici una nuova fonte d'ispirazione.
Ugualmente messi in rilievo i legami culturali fra D. e Giovanni di Salisbury, la cui formazione raffinata e complessa è particolarmente legata all'ambiente di Chartres, come avviene anche per un altro degli esponenti più interessanti dell' ‛ umanesimo ' del sec. XII, Alano di Lilla, di cui devono ugualmente essere sottolineate certe affinità di motivi con l'opera dantesca. Il p. di Alano di Lilla può valersi delle nuove traduzioni, dal greco e dall'arabo, che nel corso di questo secolo arricchiscono il patrimonio scientifico e filosofico della cultura occidentale. Nella seconda metà del sec. XII Burgundione da Pisa traduce infatti il De orthodoxa fide di Giovanni Damasceno e il De Natura hominis di Nemesio di Emesa, tradotto già nell'XI secolo da Alfano di Salerno, attribuito a Gregorio di Nissa fino al sec. XVI e importante soprattutto per il tema dell'uomo microcosmo. Il Liber de causis, derivato dall'Elementatio theologica di Proclo, è tradotto verso il 1180 da Gerardo da Cremona; seguono le traduzioni, tra l'altro, del Liber XXIV philosophorum e di un testo d'ispirazione ermetica come il Liber de sex principiis.
Infine, nell'incontro decisivo con la cultura arabo-giudaica, fra il XII e il XIII secolo, il p. occidentale, rinnovato dall'apporto, di un aristotelismo quasi sempre platonizzante, raggiunge alcune fra le sue espressioni più originali, anche perché ormai tutta una serie di nozioni e di speculazioni derivate dalle diverse discipline scientifiche, l'algebra, la geometria, l'ottica, la statica, la medicina, la geografia, l'astronomia s'inseriscono negli antichi schemi metafisici. Prima della fine del sec. XII, grazie all'opera dei traduttori del centro di Toledo (Domenico Gundissalvi, Ibn Dahut o Avendeath, Giovanni di Spagna), sono ormai accessibili, in latino, il De Intellectu di al-Kindi, il Fons vitae di Avicebron, il De Differentia spiritus et animae attribuito a Qusta ibn Luca (Constabulino), e soprattutto buona parte dell'opera di Avicenna, che del p. rappresenta un momento fondamentale, determinante per la cultura stessa di D. e del suo tempo (si ricordano la traduzione della Metaphysica, del Liber de anima o Liber sextus naturalium, della Physica, tratta da opere diverse, e della Logica).
Tralasciando il problema complesso del linguaggio platonizzante, spesso infedele al testo originario, delle versioni arabe di Aristotele, la cui successiva versione latina, a opera di Gerardo da Cremona, costituisce l'inizio di una nuova diffusione, in Occidente, del Corpus aristotelico (per non parlare poi del p. dei vari commentatori di Aristotele, Simplicio, Alessandro di Afrodisia, Giovanni Filopono, Giovanni Damasceno e Averroè stesso, la cui diffusione è contemporanea a quella di Aristotele), ricorderemo ancora la traduzione dell'Elementatio theologica di Proclo ad opera di Guglielmo di Moerbeke (1268), cui seguiranno le traduzioni di altri opuscoli e commenti procliani.
Risulta evidente da tutto questo che il p., come componente essenziale della cultura occidentale, è quasi sempre il risultato di una serie di mediazioni altrettanto complesse, rispetto alla fonte originaria, quanto lo sono nelle più articolate gerarchie dell'essere neoplatoniche. In particolare, il p. dell'epoca di D. e di quella immediatamente precedente può essere interpretato, con una schematizzazione senza dubbio arbitraria, lungo tre diverse linee direttive.
Si può distinguere in primo luogo la linea della tradizione platonico-agostiniana, che nell'insegnamento della scuola francescana parigina tocca i suoi vertici, incorporando, come aveva già tentato prima Guglielmo d'Alvernia, i nuovi temi del p. avicennistico (l'emanatismo, la metafisica della luce, le gerarchie dell'essere, la funzione dell'Intelletto agente), come pure i nuovi temi dell'aristotelismo, in una sintesi spesso originale e, per quanto riguarda soprattutto l'Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura, di grande valore speculativo: in essa tuttavia la carica innovatrice delle recenti acquisizioni culturali viene neutralizzata dalla loro subordinazione alla teologia intesa in senso tradizionale, come ‛ scientia Dei et Christi ', in cui la fede, la grazia, l'illuminazione divina costante e lo slancio mistico suppliscono al venir meno della ragione dinanzi alla verità ultima, al termine del processo contemplativo. È evidente che questa attitudine spirituale (non priva di un risvolto politico, come dimostra l'opera svolta da Bonaventura e da un seguace della stessa tradizione, Matteo d'Acquasparta) viene a trionfare al culmine dell'esperienza interiore e dell'itinerario poetico di D. (che pure è stato animato da interessi terreni nettamente contrastanti): il ricorso di D., al vertice del Paradiso, a s. Bernardo, di cui si ritrovano ugualmente gli echi nel misticismo dell'Itinerarium, suggella queste affinità profonde.
Un secondo, diverso aspetto del p. si riscontra nell'opera di Alberto Magno, il quale nella formazione culturale di D. costituisce uno dei fattori di maggior rilievo. Erede, sotto molti aspetti, degl'interessi scientifici del sec. XII, considerati nella loro autonomia rispetto alla ricerca teologica, tendenti a organizzarsi in un vasto disegno enciclopedico, Alberto Magno articola la sua visione del mondo in chiave decisamente aristotelica, mantenendo su alcuni temi fondamentali posizioni derivate dal p. arabo ed ebraico, da Avicenna, Alfarabio e Mosè Maimonide, come dal p. latino e dal Liber de causis (nella dottrina delle idee, cause di ogni principio intellegibile nel mondo materiale; nella dottrina dell'intelletto e dell'anima; sul problema del luogo naturale e dell'inchoatio formae). Al neoplatonismo di Alberto Magno si riallaccia quella corrente che trova in Witelo, nei domenicani Guglielmo di Moerbeke, Ulrico Engelbrech di Strasburgo, Teodorico di Vriberg e Bertoldo di Mosbourg i maggiori rappresentanti, i cui motivi alimenteranno la grande ispirazione di Meister Eckart.
Una forma di p. con caratteristiche proprie ben definite è quella della scuola di Oxford, dominata dall'influenza francescana, in chi la fedeltà alla tradizione platonico-agostiniana si armonizza con una libera e avanzata ricerca scientifica: il matematico e scienziato Roberto Grossatesta, in cui la metafisica della luce, derivata da Avicenna, è sostenuta da nozioni matematiche, ottiche e geometriche nuove (cfr. soprattutto il trattato De Luce seu de inchoatione formarum), insieme con un altro scienziato, Ruggéro Bacone, sono, nel sec. XIII, gli esponenti più rappresentativi di questa scuola che nel secolo successivo, fuori degli schemi delle grandi ‛ sintesi ' aristoteliche (in cui troppi concordismi si erano operati), eserciterà la sua particolare funzione critica nella fase dissolutiva della scolastica.
È evidente che i diversi p., così intimamente connessi agli altri motivi di cui tutta una tradizione culturale si compone, non possono restare estranei al pensiero di Dante. Se infatti la ricchezza d'immagini luminose della terza cantica trova il suo fondamento in una diffusa ‛ metafisica della luce ', una nozione particolare di creazione e di causalità, fortemente platonizzante, derivata dalla corrente avicennistica, ispira e alimenta il linguaggio poetico. Il problema della molteplicità dell'universo, come effetto di una causa originaria unica, supremamente trascendente, da cui si crea soltanto ciò che è simile ad essa, è infatti risolto da Avicenna mediante una struttura complessa, secondo la quale l'effetto unico prodotto dalla causa suprema, cioè la prima intelligenza, produce a sua volta la seconda intelligenza, l'anima del primo cielo e il primo cielo stesso, come la seconda intelligenza produce la terza, l'anima del secondo cielo e il secondo cielo, procedendo per gradi fino all'ultima intelligenza, da cui deriva l'anima dell'ultima sfera, la sfera stessa, e quella particolare intelligenza, definita " dator formarum ", da cui dipendono i processi di generazione e corruzione (Metaph. IX 3-5).
Anche se il pensiero cristiano non può accettare un emanatismo così rigoroso, in cui si vanifica ogni nozione di creazione (si possono richiamare le difficoltà dello Pseudo-Dionigi di fronte alle triadi di Proclo), a questi principi, interpretati soprattutto attraverso il Liber de causis, s'ispira tuttavia la grandiosa visione del canto II del Paradiso: Dentro dal ciel de la divina pace / si gira un corpo ne la cui virtute / l'esser di tutto suo contento giace (vv. 112-114; cfr. Liber de causis prop. IV " Prima rerum creatarum est esse, et non est ante ipsum creatum aliud. Quod est quia esse est supra sensum, et supra animam, et supra intelligentiam... Et non est factum ita nisi propter suam propinquitatem esse puro et uni vero, in quo non est multitudo aliquorum modorum. Et esse creatum, quamvis sit unum, tamen multiplicatur, scilicet quia ipsum recipit multiplicitatem "; il testo è citato da D. in Cv III II 7, ove l'essere è inteso però in senso aristotelico, come predicato applicabile a tutte le cose).
La prima manifestazione della causalità divina è identificabile col Verbo, come luce distinta e indissolubilmente unita alla sua fonte luminosa, di cui diffonde tutta la potenza (Pd XIII 55-57): Lume... che visibile face / lo creatore a quella creatura / che solo in lui vedere ha la sua pace (XXX 100-102). Questa luce incorporea del Verbo, luce intellettüal, piena d'amore (v. 40), identica al ‛ lumen gloriae ' dei teologi, distendendosi circolarmente viene a coincidere con l'Empireo, cioè con il limite estremo, che non è in loco e non s'impola (XXII 67), del Primo Mobile e al tempo stesso con la fonte da cui quest'ultimo trae il suo potere, quella che dovrebbe essere, se l'ispirazione avicennistica di D. fosse coerente, una vera e propria forza creatrice: E' si distende in circular figura, / in tanto che la sua circunferenza / sarebbe al sol troppo larga cintura. / Fassi di raggio tutta sua parvenza / reflesso al sommo del mobile primo, / che prende quindi vivere e potenza (XXX 103-108; cfr. Cv II III 8-15).
Basterà ricordare che la dottrina dell'Empireo trae origine da soluzioni neoplatoniche volte a superare il problema, lasciato aperto dalla fisica aristotelica, del luogo come " terminus continentis immobilis " e della localizzazione dell'ottava sfera, la quale, pur muovendosi di movimento circolare, non risulta in alcun luogo.
Sviluppando l'intuizione di Plotino, secondo la quale il corpo dell'universo è racchiuso nell'Anima, così come l'Anima è nel Nous (Enn. V V 9), Proclo introduce ancora, come intermediario fra l'Anima e l'universo, un corpo immateriale di pura luce (Element. theol.196; cfr. Simplicio In Phys. IV 5, Coroll. de loco). Mentre la tradizione patristica, di cui si trovano elementi in Basilio di Cesarea, Teodoreto, Marciano Capella, Isidoro di Siviglia e Beda, viene ad assumere la sua formulazione definitiva con Valafredo Strabone (Glossa ordinaria in Gen. I 1), con l'introduzione della scienza greco-araba, le nozioni di una ben più complessa astronomia, combinate con l'influenza della neoplatonica metafisica della luce, determinano una serie di discussioni (da Michele Scoto a Ruggero Bacone, alla Summa philosophiae attribuita a Roberto Grossatesta, ad Alberto Magno, a Bonaventura, Tommaso d'Aquino e Alpetragio) sul problema dell'Empireo, della sua influenza e della sua natura, spirituale e corporea (cfr. Cv II III 5; Summa philosophiae XV 4; Alb. Magno Summa de creaturis III 12 3).
Attraverso questo iter particolarmente complesso D. ritrova tuttavia l'originaria intuizione neoplatonica, che localizza la realtà sensibile all'interno della mente da cui è generata e definita nelle sue strutture: Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo, ma formato fu solo ne la prima Mente, la quale i Greci dicono Protonoè (Cv II III 11). Più vicini ancora a questa intuizione i versi ispirati del poema: E questo cielo non ha altro dove / che la mente divina, in che s'accende / l'amor che 'l volge e la virtù ch'ei piove. / Luce e amor d'un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che 'l cinge solamente intende (Pd XXVII 109-114; cfr. Ep XIII 67 ss.; a proposito degli ultimi versi si potrebbe opportunamente richiamare una fra le soluzioni neoplatoniche più originali, e meno note, al problema del luogo, formulata da Scoto Eriugena, sulla scorta di Massimo il Confessore, ove la nozione di luogo è decisamente risolta nella nozione di attività dell'intelletto, che definisce, comprende e quindi localizza le cose).
Secondo una rigorosa prospettiva avicennistica ogni funzione creatrice, ogni produzione di esseri materiali, dovrebbe attribuirsi al Primo Mobile, che dalla luce del Verbo trae direttamente la sua potenza, senza soluzione di continuità fra la spiritualità pura della causa suprema e la materialità dell'universo, animata costantemente dall'intelligenza. A questa teoria D. sembra essersi precedentemente avvicinato, come testimonia il dubbio espresso in Cv IV I 8 se la prima materia de li elementi era da Dio intesa, cioè se la pura potenzialità indeterminata e inconoscibile della materia (si pensi alla χώρα del Timeo) era stata creata da Dio (secondo un principio, ancora una volta, neoplatonico, ‛ creare ' significa prima di tutto definire e comprendere le cose) o se piuttosto la creazione della materia non doveva attribuirsi alle intelligenze, da cui dipende ugualmente la distribuzione delle forme. In realtà lo stesso Liber de causis, nonostante lo schema della derivazione dall'Uno attraverso un primum causatum o creatum primum (cfr. prop. XV " Et causatum primum est causa omnis vitae, et similiter reliquae bonitates descendentes a causa prima super causatum primum in primis, et est intelligentia, deinde descendunt super reliqua causata intelligibilia et corporea mediante intelligentia "), sembrava tuttavia offrire una soluzione diversa dal rigido emanatismo avicennistico, considerando la causalità delle cause seconde come strettamente dipendente dalla causa prima, che risulterebbe così l'unica creatrice: " Omnis causa primaria plus est influens super causatum suum quam causa universalis secunda... Et causa prima adiuvat secundam causam super operationem suam, quoniam omnem operationem quam causa efficit secunda, prima etiam causa efficit " (prop. I).
In questi schemi D. inserisce una dottrina che gli è propria, distinguendo cioè una creazione mediata e indiretta da una creazione immediata, un operare mediate vel immediate da parte della causa originaria, per la ragione (desunta, evidentemente, dal testo del De Causis) quod causa secunda recipit a prima, influii super causatum ad modum; recipientis et reddentis radium, propter quod causa prima est magis causa (Ep XIII 55-56; cfr. Cv III XIV 4 Ove... è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate: segue una distinzione fra luce e splendore riferita ad Avicenna e ispirata probabilmente a qualcuno dei numerosi testi in cui la metafisica della luce trova un'ampia utilizzazione). Come sarà precisato nel Paradiso, la creazione diretta, sanza mezzo, ha carattere triforme avendo per oggetto unicamente l'atto puro o pura forma delle intelligenze separate, la materia informe delle cose corruttibili (che gli aristotelici considerano eterna) e le sfere celesti come composto incorruttibile di materia e forma: Forma e materia, congiunte e purette, / usciro ad esser che non avia fallo, / come d'arco tricordo tre saette. / E come in vetro, in ambra o in cristallo / raggio resplende sì, che dal venire / a l'esser tutto non è intervallo, / così 'l triforme effetto del suo sire / ne l'esser suo raggiò insieme tutto / sanza distinzïone in essordire (Pd XXIX 22-30; cfr. VII 130-132 Li angeli, frate, e 'l paese sincero / nel qual tu se', dir si posson creati, / sì come sono, in loro essere intero). Le cose corruttibili, invece, sono soltanto informate dalla virtù dei corpi celesti, direttamente creati da Dio (VII 133-138). Con specifico riferimento a quest'azione informatrice delle cause seconde s'introduce di nuovo lo schema discendente neoplatonico e avicennistico. Infatti, al di là della virtù semplicissima e uniforme del Primo Mobile, dotato di un moto unico, il cielo Stellato contiene una molteplicità di principi formali quante sono le stelle, da cui la potenza informatrice e causante del Primo Mobile è moltiplicata fino alle ultime conseguenze.
A questa visione metafisica s'ispira la famosa argomentazione di Beatrice intorno al problema delle macchie lunari (v. LUNA) in Pd II 49-148, diretta in primo luogo a confutare il principio, dedotto da Aristotele ed espresso da Averroè nel commento al De Coelo (II comm. 49-50), che i corpi celesti sono dotati tutti di un'unica natura e specie, per cui le loro differenze possono soltanto attribuirsi a un diverso grado di trasparenza o ‛ diafaneità ' (questa sarebbe appunto la ragione delle macchie lunari, come sostiene Averroè nel De Substantia orbis 2, e come sostiene anche D. in Cv II XIII 9).
In realtà, il problema delle diverse nature degli astri non è che un aspetto ulteriore del problema sempre aperto dell'essere del molteplice nei suoi rapporti con la causa prima, variamente affrontato e risolto dai diversi p. e neoplatonismi, pagani, arabi e cristiani. Poiché la diversità non può procedere dalla semplicità assoluta della causa (cfr. Cv III II 4-6 e VII 2-3, ove espliciti sono i riferimenti al Liber de causis), le intelligenze celesti, con le loro diverse nature e con la diversità dei loro principi formali, assicurano il moltiplicarsi e il diffondersi dell'essere, a partire dalla luce immateriale dell'Empireo, che contiene e definisce l'essere perfettamente attuato nella sua unità: Lo ciel seguente, c'ha tante vedute, / quell'esser parte per diverse essenze, / da lui distratte e da lui contenute. / Li altri giron per varie differenze / le distinzion che dentro da sé hanno / dispongono a lor fini e lor semenze (Pd II 115-120). Secondo questo schema, di cui si possono cogliere le affinità con l'aristotelismo platonizzante di origine araba (cfr., ad esempio, Alberto Magno Metaph. XI II 20), l'unità dell'universo, fino alle sue ultime espressioni, e insieme l'ordine e la razionalità del tutto sono assicurati da una struttura gerarchica, nella quale i cieli costituiscono gli organi necessari alla trasmissione del movimento e della vita, attraverso i vari gradi dell'essere: Questi organi del mondo così vanno, / come tu vedi omai, di grado in grado, / che di sù prendono e di sotto fanno (Pd II 121-123).
L'originaria dottrina platonica del rapporto fra la realtà del modello eterno e la sua espressione contingente, attraverso la mediazione necessaria dell'artefice, si traduce, in questa sintesi inestricabile di p. e di aristotelismo, nel rapporto fra il movimento delle sfere celesti e le intelligenze motrici, fino al Primo Mobile, che trasmette direttamente l'immagine, e quindi la potenza stessa della causalità divina: Lo moto e la virtù d'i santi giri, / come dal fabbro l'arte del martello, / da' beati motor convien che spiri; / e 'l ciel cui tanti lumi fanno bello, / de la mente profonda che lui volve / prende l'image e fassene suggello (Pd II 127-132). Siamo ancora, evidentemente, nell'ambito di una concezione della causalità come determinata da un'immagine, dallo splendore di un'idea, sempre più debolmente riflesso lungo la serie discendente degl'intermediari (Ciò che non more e ciò che può morire / non è se non splendor di quella idea / che partorisce, amando, il nostro Sire; / ché quella viva luce che sì mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l'amoar ch'a lor s'intrea, / per sua bontate il suo raggiare aduna, / quasi specchiato, in nove sussistenze, / etternalmente rimanendosi una, XIII 52-57).
Attraverso la dottrina, di derivazione arabica, delle intelligenze motrici dei corpi celesti, strumenti e organi delle intelligenze stesse, le cui diversità di natura costituiscono il fondamento della molteplicità del sensibile, acquista un nuovo significato cosmologico anche l'antica dottrina dell'‛ anima mundi ', che tanta suggestione ha esercitato sulla cultura medievale, da Boezio alla scuola di Chartres: E come l'alma dentro a vostra polve / per differenti membra e conformate / a diverse potenze si risolve [cfr. Boezio Cons. phil. III m. IX 13-14 " Tu triplicis mediam naturae cuncta moventem / Conectens animam per consona membra resolvis "], / così l'intelligenza sua bontate / multiplicata per le stelle spiega, / girando sé sovra sua unitate (Pd II 133-138). Che la teoria dantesca delle macchie lunari venga a coincidere con quella di Giamblico, riferita da Simplicio (cfr. De Coelo II 8; commento ad Arist. 290a 24), è senza dubbio, come ha rilevato il Nardi, conseguenza d'ispirazione, da parte di due autori così diversi e lontani, a motivi culturali affini.
Nel pensiero di D. in particolare, come più volte è avvenuto nell'evoluzione del pensiero cristiano, lo schema neoplatonico di derivazione dall'Uno, attraverso una serie, rigorosamente stabilita, d'intermediari, assume la funzione di garantire un ordine e una razionalità immutabile nella struttura dell'universo, correggendo la concezione, desumibile dal testo biblico, di una natura costantemente sospesa alla volontà del creatore, ove questa volontà è spesso intesa in senso antropomorfico.
Bibl. - Per quanto riguarda la tradizione platonica antica, si rinvia soprattutto ai fondamentali R. Arnou, Platonisme des Pères, in Dictionnaire de Théologie catholique XII 2; A.-J. Festugière, L'idéal religieux des Grecs et l'Evangile, Parigi 1932; P. Henry, Plotin et l'Occident. Firmicus Maternus, Marius Victorinus, Saint-Augustin et Macrobe, Lovanio 1934; P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident de Macrobe à Cassiodore, Parigi 1943; E. Von Ivanka, Plato christianus, Uebernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Einsiedeln 1964. Per quanto concerne la tradizione medievale, cfr. soprattutto C. Baeumker, Der Platonismus im Mittelalter, Monaco 1916 (rist. in " Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters " XXV, ibid. 1928); R. Klibansky, The continuity of platonic Tradition during the Middle Ages, Londra 1937; ID., Plato's Parmenides in the Middle Ages and the Renaissance, in " Mediaeval Renaissance Studies " I (1941-1943) 281 ss.; E. Garin, Studi sul platonismo medievale, Firenze 1958; T. Gregory, Platonismo medioevale. Studi e ricerche, Roma 1958; Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, a c. di W. Beierwaltes, Darmstadt 1969. Più specificamente, intorno al platonismo di D. e ai temi presi in esame, non è facile segnalare contributi d'importanza sostanziale, al di fuori, naturalmente, degli studi del Nardi. Si rinvia particolarmente a E.G. Gardner, D. and the Mystics, Londra 1913; G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo D.A. e le sue fonti, Roma 1922 (le teorie dell'autore non sono mai risparmiate dalle analisi critiche del Nardi); B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 1949², 248 ss., 309 ss.; A. Mellone, La dottrina di D.A. sulla prima creazione, Salerno 1950; T. Gregory, Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di Conches e la scuola di Chartres, Firenze 1955; J.A. Mazzeo, Lights Metaphysic, Dante's " Convivio " and the Letter to Can Grande della Scala, in " Traditio " XVI (1958) 191 ss.; ID., Strutture and Thought in the Paradiso, Ithaca (N.Y.) 1958; B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967²: fondamentali soprattutto i saggi alle pp. 3-39, 40-62, 63-72, 73-80, 81-109, 139-166, 167-214, 341-380).