platonismo matematico
platonismo matematico concezione della matematica per la quale, secondo la definizione di G.H. Hardy in Apologia di un matematico, «la realtà matematica giace fuori di noi e la nostra funzione è quella di scoprirla e osservarla, e i teoremi che noi dimostriamo, e che in modo magniloquente descriviamo come nostre “creazioni”, sono semplicemente i resoconti delle nostre osservazioni». Questa concezione ha radici molto lontane: in primo luogo in Platone stesso, il quale nella Repubblica sostiene che la matematica è «conoscenza di ciò che esiste eternamente, non di qualche cosa che viene a essere in qualche momento e cessa di essere». Finché la matematica fu intesa come “descrizione della realtà fisica”, una forma di platonismo debole, legato all’idea che il libro della natura sia scritto «in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola» (Galileo), tale concezione non poneva particolari problemi filosofici. La matematica aveva infatti a che fare con la natura, di cui coglieva alcuni aspetti, numerici (relativi alle quantità) e geometrici (legati alle forme). Il platonismo matematico divenne una concezione più radicale con l’emergere, attraverso un lungo processo culminato nel xix secolo, di una più marcata autonomia della matematica: con la scoperta delle cosiddette geometrie non euclidee, la geometria cessa di essere “il primo capitolo della fisica”, mentre con lo sviluppo della teoria degli insiemi e dell’algebra astratta, sempre più la matematica si occupa di oggetti propri, essi stessi generatori di problemi. G. Cantor ha esplicitamente ricordato che la sua visione della teoria degli insiemi risaliva a Platone (egli scrisse che: «l’insieme è qualcosa di simile all’idea platonica»). Anche B. Russell fu platonista (almeno all’inizio della sua attività filosofica), seguendo in questo il suo maestro, F.G. Frege. In epoca più recente il maggior sostenitore di un punto di vista platonista fu K. Gödel. Egli sosteneva la realtà oggettiva degli oggetti matematici («classi e concetti possono esser concepiti come oggetti reali, cioè le classi come “pluralità di cose”, e i concetti come proprietà e relazioni tra esse, entrambi esistenti indipendentemente dalle nostre definizioni o costruzioni»), ma non intendeva riconoscere statuto fisico a enti come numeri e funzioni: occorre solo che i concetti matematici generali «siano sufficientemente chiari in modo che si possa riconoscere la loro bontà e la verità degli assiomi relativi». Una chiarificazione di tale approccio gödeliano si ha nella sua visione della cantoriana ipotesi del → continuo. Anche se formalmente si dimostra che essa è indipendente dagli assiomi, secondo Gödel si potrà dare risposta alla domanda se l’ipotesi deve essere vera o falsa. Il fatto che formalmente non vi sia alcuna risposta non dimostra che la risposta stessa non sia ottenibile per vie intuitive, che chiariscano meglio la struttura e la natura degli “oggetti” della teoria degli insiemi.