Platone Filosofo (Atene 428-27 a.C
ivi 348-47).
Era di famiglia agiata e nobile: la tradizione racconta che gli era stato inizialmente imposto il nome del nonno, Aristocle, e che quello di Πλάτων gli fu dato più tardi con scherzosa allusione al suo esser πλατύς «ampio»: se il fatto è vero, questa «larghezza» sarà stata comunque scorta nella sua persona fisica, essendo impossibile che fin d’allora si volesse così alludere (secondo una delle opinioni riferite da Diogene Laerzio) al largo respiro del suo stile. L’educazione di P. fu quella del ragazzo ateniese di nobile famiglia tra la fine del 5° e l’inizio del 4° sec. a.C., cioè in un periodo in cui, pur decadendo la fortuna politica dell’impero attico, il suo dominio culturale andava sempre più affermandosi in tutto il mondo ellenico. P. ebbe soprattutto un’educazione artistica: oltre alla musica, che era materia d’insegnamento consueta, studiò, pare, anche la pittura, e alla letteratura si diede con tanto zelo da lasciare memoria, nella tradizione, di molti componimenti poetici, non soltanto lirici e ditirambici, ma anche epici e drammatici. Che d’altronde già in questo primo periodo della sua giovinezza egli venisse a contatto con la filosofia è dimostrato dal fatto che tra i suoi maestri vi fu anche Cratilo: e Aristotele fa dipendere l’orientamento speculativo di P. dalla reazione che sulla sua primitiva cultura eraclitea, risalente a Cratilo, esercitò l’insegnamento di Socrate. L’incontro con quest’ultimo, che era fra l’altro amico di Crizia e di Carmide, uomini politici della sua famiglia, fu in realtà il fatto decisivo per la formazione mentale di Platone. Abbandonò senza esitazione la letteratura per seguire Socrate in quel suo implacabile controllo delle opinioni e delle azioni degli uomini, che rispondeva tanto alla sua sete teorica quanto alla sua esigenza di raggiungere una certezza morale. Dell’enorme influsso che Socrate esercitò su di lui è documento la maggior parte dei suoi scritti, ispirati anzitutto dal bisogno di idealizzare la figura del maestro e di esporne drammaticamente il pensiero, e che conservano tale aspetto anche quando l’originalità dell’autore supera già fortemente la sua reverenza di discepolo (né manca chi considera intrinsecamente socratica addirittura tutta l’opera di P., esclusa soltanto quella del suo periodo tardo). Se è vera la notizia che la sua conoscenza di Socrate ebbe inizio quando egli aveva vent’anni, essa durò meno di un decennio: nel 399 infatti il maestro fu processato, e P. fu tra quelli che (pur senza condividere l’ingenuità affettuosa di un Critone o di un Apollodoro, i quali della fine di Socrate vedevano più il lato doloroso che il lato grande) misero a disposizione le loro persone e i loro averi per garantire a Socrate la solvibilità, nel caso che egli fosse stato condannato a una multa. Alla sua morte P., com’egli stesso ricorda in un passo del Fedone (➔), non fu presente a causa di una malattia. Dopo la fine del maestro si recò, insieme con altri condiscepoli, a Megara presso il socratico Euclide, ma presto tornò ad Atene. Rimastovi qualche tempo, iniziò il primo dei suoi viaggi maggiori, che secondo la tradizione lo condusse anche in Egitto, dove avrebbe fatto tesoro della più o meno leggendaria sapienza di quei sacerdoti, e a Cirene, dove sarebbe venuto a contatto con il matematico Teodoro. È fuor di dubbio, comunque, che in questo viaggio P. visitò la Magna Grecia e la Sicilia, e fu a Siracusa alla corte di Dionisio il Vecchio, grande amico della cultura della madrepatria e conoscente del pitagorico Archita di Taranto, con cui P. era entrato in rapporto. A Siracusa egli si legò con il giovane cognato di Dionisio, Dione, che restò per sempre conquistato ai suoi ideali filosofici ed etico-politici. Spiacque invece, con la libertà delle sue critiche e delle sue esortazioni morali, al tiranno, che si sbarazzò, in modo non chiaro, della sua presenza: e il nobile filosofo ateniese, che era allora sulla quarantina, finì venduto schiavo sul mercato di Egina, dove fu però riscattato da un Anniceride di Cirene (da non confondere con l’omonimo pensatore della scuola cirenaica, vissuto assai più tardi). Tornato in maniera così fortunosa ad Atene, P. vi fondò, nella forma di una comunità religiosa dedicata al culto delle Muse, un centro di discussione e di studi, che dalla sua sede, la quale traeva il nome dal mitico eroe Academo, si disse ᾿Ακαδημία (➔ Accademia). I membri vi proseguivano la tradizione della comune indagine speculativa nella forma del dialogo socratico, accanto alla quale peraltro veniva sempre più ad affermarsi, in corrispondenza dell’evoluzione della mentalità platonica, quella della ricerca scientifica personale, e dell’esposizione delle dottrine in conferenze e corsi di lezioni. L’Accademia era con ciò nello stesso tempo una scuola di sapienza etico-politica, erede dell’antico ideale sofistico-socratico, e un istituto d’indagine e collaborazione scientifica, primo di tal genere e destinato ad avere una storia quasi millenaria e a esercitare un influsso di gran lunga più duraturo. Al lavoro dell’Accademia P. attese senza alcuna interruzione per un ventennio: fu, tra il quarantesimo e il sessantesimo anno di età, il periodo più luminoso e fecondo della sua vita. Ma nel 367 successe a Dionisio il Vecchio, sul trono di Siracusa, il figlio Dionisio il Giovane: e Dione, il quale contava di indurlo a instaurare quella costituzione più liberale e legalitaria che doveva rispondere all’ideale politico dell’Accademia, lo persuase a invitare nuovamente P. a Siracusa. Nella speranza che, per opera del nuovo regnante siciliano, si potesse finalmente realizzare il sogno politico che le condizioni interne di Atene non gli permettevano di attuare in patria, P. si recò a Siracusa nel 366: l’animo del giovane monarca dovette certo mostrarsi assai più aperto di quello del padre alla suggestione della personalità dell’Ateniese. P. aveva già cominciato a preparare le costituzioni per le nuove città siciliane – e fu da questo lavoro che nacquero poi le Leggi (➔) – quando Dionisio, sobillato da oppositori delle progettate innovazioni costituzionali e divenuto sospettoso di Dione, bandì quest’ultimo, pur trattenendo P. presso di sé. Il piano politico era ormai fallito: solo Dione avrebbe potuto realizzarlo, e non bastava che Dionisio serbasse tuttavia attaccamento per il pensatore ateniese. Di questo influsso P. si valse bensì per cercare di riconciliare i due uomini: e quando, nel 365, scoppiò una guerra in Sicilia e P. tornò ad Atene, Dionisio gli promise che, al termine della guerra, lo avrebbe invitato di nuovo a Siracusa insieme con Dione. Ma i suoi sospetti contro quest’ultimo, che viveva ad Atene, aumentarono, mentre, nello stesso tempo, cresceva in lui la nostalgia delle conversazioni filosofiche di P.: fece di tutto per persuaderlo, e farlo persuadere, a tornare a Siracusa, pur senza dover cedere per questo alla condizione del contemporaneo ritorno di Dione. Riluttando P., Dionisio gli fece capire che solo la sua venuta avrebbe potuto giovare all’esule, e così il pensatore ateniese intraprese, nel 361, quando già aveva sessantasei anni, il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Ma neppure questa volta l’esito fu favorevole: Dionisio, lungi dall’abbandonare ostilità nei riguardi di Dione, inasprì anche più i provvedimenti contro di lui, e i suoi rapporti con P. si fecero così tesi da mettere in pericolo lo stesso ritorno del pensatore ad Atene, reso possibile, nel 360, soprattutto dall’intervento di Archita. Da allora in poi P. non si mosse più dalla sua città, dedito esclusivamente ai lavori dell’Accademia. Le possibilità di realizzazione del suo ideale etico-politico si facevano ormai sempre minori; e nel 353 moriva lo stesso Dione, ucciso da un suo condiscepolo dell’Accademia, Callippo. Pochi anni dopo lo seguiva nella morte anche P., nell’anno dell’arcontato di Teofilo (348-347 a.C.).
La parte più importante dell’opera platonica è costituita dai dialoghi, che, ordinati nella tarda antichità in tetralogie, o gruppi di quattro, per approssimativi criteri di contenuto, hanno dato molto da fare alla critica moderna sia per l’esclusione di quelli non autentici, sia per l’ordinamento cronologico degli autentici e per la conseguente ricostruzione della storia spirituale del loro autore. In generale, al periodo giovanile dell’attività platonica appartengono quegli scritti – Apologia di Socrate (➔), Critone, Ione, Protagora, Carmide, Lachete, Liside, Eutifrone, i due Ippia – in cui la personalità di Socrate si riflette in forma più aderente alla sua reale statura storica: egli vi appare nella sua più tipica attività d’interlocutore e indagatore filosofico, alla ricerca di determinazioni e definizioni concettuali. Altri – tra cui il Gorgia (➔), il Menone (➔) l’Eutidemo, il Cratilo (➔) – cominciano a mostrare più spiccato l’orientamento platonico della polemica e ad anticipare qualche lineamento di quelle dottrine, che sono poi pienamente esposte nei grandi dialoghi della maturità, il Simposio (➔), il Fedro (➔), il Fedone, la Repubblica (➔). In questi, che sono nello stesso tempo i capolavori immortali dell’arte platonica, Socrate è ancora il protagonista, per quanto non più autore, ma solo attore, delle teorie che difende. Quasi mai protagonista, e in qualche caso addirittura assente, è invece Socrate nella lunga serie degli scritti appartenenti alla fase più tarda dell’attività di Platone: il Teeteto (➔), il Parmenide (➔), il Sofista (➔), il Politico (➔), il Filebo, il Timeo (➔), il Crizia (➔) (incompiuto), le Leggi. Qui sono posti e discussi i complicati problemi, e studiate le possibilità di correzione ed evoluzione, a cui dava argomento la prima costruzione della dottrina: allo splendore drammatico ed estetico dei dialoghi della maturità subentra il rigore del metodo logico, ma la potenza eccezionale della personalità platonica continua a manifestarsi in architetture grandiose. Il Corpus Platonicum contiene opere già nell’antichità considerate spurie, quali i dialoghi Erissia, Alcione, Sisifo, Assioco, Demodoco, Sul giusto, Sulla virtù, la raccolta delle Definizioni e l’Epinomide. La filologia moderna ha dubitato a lungo dell’autenticità delle Lettere; si ritiene ormai quasi concordemente che molte di esse siano autentiche, e certamente la VII, forse l’ultimo scritto di P. e documento di eccezionale interesse. Quasi unanimemente si considerano spuri i dialoghi Alcibiade primo, Teagete, Clitofonte (➔), Minosse.
La filosofia di P. non è tanto un rigido sistema scientifico quanto un vivente complesso di problemi, ciascuno dei quali è venuto sviluppandosi e quindi modificando la fisionomia propria e, di riflesso, quella degli altri. Nei dialoghi giovanili, o «socratici», P. appare totalmente impegnato ad approfondire e a svolgere la problematica di Socrate: le tesi sull’identità di virtù e scienza, sulla determinazione di tale scienza come «scienza del bene e del male in generale», sull’insegnabilità della virtù, sul carattere attrattivo, rispetto alla volontà del bene, che si rivela quindi anche come il sommamente piacevole e utile (eudemonismo), sull’involontarietà del male, ecc. Tuttavia, proprio dalla riflessione su queste tesi socratiche cominciano a sorgere problemi nuovi: innanzitutto P. avverte come quei valori, di cui Socrate era andato in cerca per tutta la vita (bene, giustizia, virtù, coraggio, ecc.), non possono pretendere di avere quella stabilità e universalità che è loro richiesta, se non sono concepiti come «realtà» o, che, al contrario di ciò che cade sotto i nostri sensi, non muta e non perisce. Di qui la «crisi» del socratismo che si manifesta nel Menone e nel Gorgia, il primo dei quali esprime l’esigenza di un nuovo concetto di scienza, come conoscenza di verità eterne acquisita prima della nascita (➔ oltre: La conoscenza come reminiscenza), mentre il secondo fonda un rigoroso dualismo tra bene e piacere, tra mondo eterno dei valori e mondo transeunte delle passioni e dei desideri, tra anima e corpo. Da ciò si sviluppa l’elaborazione della fondamentale dottrina delle forme eterne del reale, nota nella tradizione con il nome di «dottrina delle idee». Essa è da intendere in rapporto con la ricerca socratica dei concetti universali, come sua più vasta filiazione e giustificazione. Senza il concetto universale del bene, non si dà nessuna distinzione del bene dal male, nessun giudizio su singole realtà o persone come buone o cattive. Ma può tale concetto, e ogni altro simile, sussistere soltanto, socraticamente, nel pensiero del singolo individuo, senza perciò partecipare di quel carattere di relatività, caduca e transitoria, che a ogni esperienza individuale è intrinseca? Non dovrà piuttosto, per valere realmente per tutti, esistere indipendentemente da tutti, in una sfera assoluta di realtà? Né soltanto per giudicare delle azioni umane, del mondo morale dell’uomo, sono necessari i concetti universali: essi sono ugualmente indispensabili per organizzarsi nel mondo della natura, non essendo possibile distinguere in esso un cavallo o un cane senza possedere il concetto generale di ciò che sia cavallo e di ciò che sia cane. E se è dato pensare che il criterio delle azioni dell’uomo stia nella mente dell’uomo, inammissibile è invece che soltanto nella sua mente sussistano i principi ideali che soli permettono, circa tutto ciò che nel mondo è, di dire che è e che cosa è. Più veri delle singole realtà che ci si manifestano nella conoscenza sensibile, perché soli capaci di distinguerle, nominarle e giudicarle, quei concetti o criteri o principi non sarebbero poi veri affatto, se non sussistessero in sé come fondamento della possibile verità del nostro pensiero. Necessario è dunque concludere che sono reali ed esistenti, e della più piena esistenza e realtà. Tale nei suoi elementi essenziali, il significato del passaggio dal «concetto» socratico alla platonica ἰδέα o εἶδος «immagine, esemplare tipico», termine di confronto e di giudizio per tutte le cose di questo mondo che a esso, caso per caso, assomiglino. Certo, queste «idee» non esistono nello stesso modo che le altre cose. Al cinico Antistene che obiettava che il singolo cavallo lo vedeva, ma l’idea del cavallo, la «cavallinità», non la vedeva, P. poteva ben ribattere che per vederla occorrono altri occhi che quelli comuni. E Aristotele (miglior platonico, in questo caso, dello stesso P.) penserà che con gli occhi di Antistene neanche Fidia avrebbe potuto plasmare gli immortali cavalli del Partenone, che somigliano non tanto ai loro fratelli terreni quanto piuttosto al loro ‘tipo’ eterno, non a ciò che singolarmente essi sono ma a ciò che può e deve essere la loro specie in universale. Se infatti le idee si vedessero e sentissero al pari delle altre cose, sarebbero, come quelle, particolari, individui tra individui, e non potrebbero costituire il criterio che, riferendosi in universale a tutte quelle individualità, rende possibile giudicarle nella loro natura. Anche se appartenenti alla stessa specie e designate con lo stesso nome, le realtà individuali presentano tra loro infinite differenze, onde si può ben dire che non c’è alcuna di esse che sia veramente uguale all’altra: nessuna di esse può quindi valere come tipo universale, perché le sono implicite particolarità non condivise dalle altre, o almeno non condivise da tutte. Inoltre tali particolarità non sono essenziali, perché possono esserci e non esserci, così come può esserci e non esserci la singolarità a cui esse appartengono: mentre carattere di necessità ha quell’idea per cui si può dire che esse siano quello che sono, e che deve rimanere eternamente costante e identica in sé medesima perché sia possibile giudicare con verità. L’idea deve essere, così, universale, necessaria, eterna. Ma a questo mondo tutto è particolare, in quanto individualmente determinato; tutto contingente, in quanto soggetto alla possibilità di esserci e di non esserci e alla realtà della nascita e della morte; tutto mutevole, in quanto immerso in un perenne flusso di trasformazioni. Ne consegue che le idee non esistono su questa Terra, e che di là da questo mondo «visibile» sussiste l’«invisibile» mondo delle idee. Eternamente costante nelle sue determinazioni, questo mondo ideale è così un mondo eleatico che si oppone a quello eracliteo del divenire «visibile»: ecco la forma in cui P. riprende, su più vasto piano, il problema della conciliazione pluralistica dell’eleatismo con l’eraclitismo. L’eleatismo delle sue idee può essere ravvicinato in partic. a quello di Melisso di Samo; in esso appare infatti considerato come essenziale alla realtà non tanto il suo assoluto e unico aspetto dell’«essere», quanto l’eterno permanere nelle proprie determinazioni. Ma è anche parmenideo, perché le cose veramente «sono», in quanto sono le idee: Socrate «è», in quanto è uomo, e «non è» in quanto particolarmente si allontana dall’essere universale della sua umanità. Il mondo ideale è così il mondo dell’essere (le idee sono designate anche con il tipico nome di ὄντα o ὄντως όντα, «realtà che sono» o «che veramente, essenzialmente sono»), mentre quello sensibile, mescolando agli eterni principi ideali gli elementi della particolarità, contingenza, transitorietà, è sintesi di essere e di non essere. Da ciò risulta, insieme, come le idee non siano più soltanto, come i concetti socratici, principi necessari per la conoscenza delle cose, ma fondamento ultimo della loro stessa esistenza: né, del resto, data l’estensione platonica degli universali dal mondo umano a quello di tutta la natura, la conoscenza giudicante il mondo in funzione di essi avrebbe potuto esser vera se essi non avessero costituito effettivamente il nucleo essenziale della realtà. Il rapporto oggettivo che lega le idee alle cose si presenta, così, come una vera e propria «partecipazione», o «metessi» (μέϑεξις), onde la realtà particolare è, ed è pensabile e nominabile, in quanto partecipa dell’eterno essere dell’idea a cui assomiglia. E come semplice «somiglianza» (μίμησις o ὁμοίωσις «imitazione» o «assimilazione») è indicato talvolta da P. il rapporto tra le cose e l’idea, specialmente quando il concetto di metessi si dimostra problematico, non essendo facile comprendere come l’essenza dell’idea possa nello stesso tempo rimanere identica in sé stessa ed essere presente nelle molteplici realtà che ne partecipano. Il concetto di mimesi risponde meglio, d’altra parte, al carattere del mondo sensibile, in quanto il divenire naturale manifesta in eterno la tendenza a realizzare gli individui a immagine e somiglianza della specie o del genere, e cioè dell’esemplare ideale. Esso si riavvicina per qualche aspetto alla concezione pitagorica, che aveva pure considerato le cose come «imitazioni» dei numeri. Nella sfera della conoscenza si ripete naturalmente la gerarchia di valori propria della realtà a cui essa si riferisce: la «verità» appartiene solo alla contemplazione intellettuale delle idee, mentre l’esperienza sensibile delle cose di questo mondo costituisce soltanto il labile regno dell’«opinione».
Tutta la scienza vera si riduce a conoscenza delle idee e di quei rapporti reciproci che le collegano in un ordinato sistema. Non soltanto infatti rispetto alle cose le idee possiedono quel carattere di universalità, per cui ciascuna di esse si riferisce a una molteplicità di cose singole, potendo essere affermata, o «predicata» (cioè asserita come predicato in un giudizio in cui la data cosa sia soggetto) di ciascuna di esse. Anche tra le idee vi sono le più o le meno universali, a seconda della minore o maggiore ricchezza di determinazioni che in sé comprendono: l’idea di cavallo abbraccia tutti i singoli cavalli, l’idea di quadrupede abbraccia non solo il cavallo ma anche molti altri esemplari del mondo animale; è cioè più estesa di essa, così come a loro volta più estese sono quelle di animale e di vivente. C’è quindi tutta una gerarchia, che dall’idea più universale, o più «estesa», e nello stesso tempo dotata di minor comprensione, cioè di minore ricchezza di determinazioni particolari, discende verso idee di estensione sempre minore e comprensione sempre maggiore. È il concetto della definizione per genus proximum et differentiam specificam, che qui nasce e che poi, sviluppato da Aristotele, resta essenziale in tutta la classificazione naturalistica delle specie e dei generi (gli stessi nomi di species e genus non sono che le traduzioni di quelli di εἶδος e di γένος dati da P. alle idee). In tal modo P. risponde all’esigenza socratica di una salda definizione dei concetti, e dà nello stesso tempo un fondamento oggettivo all’arte «dialettica». Secondo il suo significato etimologico (derivante da διαλέγεσϑαι «dialogare, discutere»), questa è l’abilità del convincere argomentando, ed è quindi massimamente coltivata e insegnata dai sofisti, come anche da taluni socratici (quali, per es., i megarici). Ma i sofisti badano a persuadere per l’interesse pratico che da ciò consegue, e non per la ricerca, impossibile dal loro punto di vista, di un’oggettiva verità: la loro dialettica degenera quindi nell’eristica (da ἐρίζειν «contendere»), arte del vincere a ogni costo nelle discussioni, sconfiggendo l’avversario anche con gli argomenti più speciosi. Riportando la possibilità della discussione alla conoscenza dei rapporti oggettivi delle idee, P. vede piuttosto nella dialettica lo stesso metodo supremo della scienza, quello cioè per cui la scienza, liberatasi da ogni riferimento sensibile, opera soltanto sulle idee (solo colui che ha la visione di insieme del mondo ideale è vero «dialettico») e si fonda sulle «ipotesi», non già prendendole per «principi» e ricavandone conseguenze (come fanno invece le scienze particolari), ma prendendole appunto come ipotesi, come punti di partenza per risalire al vero principio «non ipotetico», all’idea del bene, Sole del mondo ideale e perciò «al di là dell’essere».
Ma perché il pensiero dell’uomo possa, con la sua dialettica, orientarsi nelle gerarchie e nei rapporti delle idee, è necessario anzitutto che egli conosca, o abbia la facoltà di conoscere, ciascuna di queste idee. A esse non giungono i sensi, i quali forniscono esperienze solo delle particolari cose di questo mondo. D’altra parte, non c’è momento della vita dell’uomo in cui il suo sapere non sia legato alla conoscenza sensibile, in cui cioè una qualsiasi nozione riferentesi a una realtà oggettiva possa entrare nel chiuso della sua anima senza passare attraverso le barriere degli organi corporei. È necessario perciò concludere che l’anima ha conosciuto le idee in un periodo della sua esistenza in cui non era ancora costretta nell’organismo corporeo, e in cui, vivendo nel mondo immortale dell’Iperuranio (ὑπερουράνιος «sopraceleste»), estendentesi al di là di quel cielo che limita lo sguardo mortale dell’uomo, ha potuto direttamente contemplarle nella loro sede. Entrata nel carcere corporeo, l’opacità terrena di questo le ha fatto dimenticare quelle visioni eterne: ma a poco a poco, riflettendo sulle somiglianze e sulle dissomiglianze delle cose, essa è ricondotta al pensiero dei supremi esemplari verso cui tali somiglianze si orientano e si ricorda di ciò che vide. Tale il concetto platonico dell’«anamnesi» (ἀνάμνησις), o «reminiscenza», come fonte di ogni conoscenza terrena delle idee: concetto che implica quindi la considerazione delle idee come innate nell’anima, e si ricollega con l’asserzione dell’immortalità dell’anima stessa.
Direttamente dall’anamnesi discende soltanto la preesistenza dell’anima alla sua vita corporea, e non la sua esistenza ulteriore alla morte del corpo, né la durata eterna di tale vita anteriore e posteriore. Ma essa stabilisce intanto che l’anima può vivere indipendentemente dal corpo, e che in tale esistenza separata essa ha conosciuto verità di gran lunga superiori a quelle che il corpo le comunica; ed è così un elemento importante di quella dimostrazione dell’immortalità, che nel Fedone è poi data soprattutto in base all’attributo di eterna vitalità intrinseco al concetto stesso dell’anima. Ma se l’anima è immortale e la sua vita corporea non è che un provvisorio e doloroso stato di «prigionia», è evidente che essa, riacquistata memoria della sua origine e del suo destino, non desidera altro che tornare alla sua patria eterna, fuggendo l’esilio terreno. La morale di Platone assume così un netto orientamento verso l’aldilà, che la distacca dalla pratica e terrena saggezza di Socrate e l’avvicina piuttosto alla religione degli orfici e alla filosofia dei pitagorici. Dagli uni e dagli altri egli riprende l’idea della «metempsicosi» (➔) (μετεμψύχωσις) o trasmigrazione dell’anima attraverso varie esistenze corporee, non soltanto umane, ma anche animali. Ogni esistenza è determinata dal comportamento morale dell’anima nell’esistenza precedente: più essa si lega al corpo, cedendo ai suoi desideri e lasciandosi dominare da essi, più basso, nella gerarchia naturale, è l’organismo corporeo in cui deve trasmigrare. Quando invece giunge alla piena immunità dagli interessi corporei, acquista la capacità di vivere sola e di tornare all’originaria sede sopraceleste, dove contemplò le idee. Nel suo significato ultimo la filosofia diviene così per P. una meditatio mortis, «preparazione per la morte», tale che veramente liberi l’anima dal corpo senza necessità di ulteriori servaggi. Ciò si ottiene esercitando sempre più, nella vita, quelle facoltà dell’anima che meglio corrispondono alla sua divina natura e meno implicano il suo legame con il corpo. Di qui l’importanza morale della stessa filosofia, come contemplazione delle idee e quindi come distacco dell’anima da ogni elemento sensibile e corporeo della sua conoscenza. Essa è infatti filosofia (secondo l’interpretazione platonica del valore etimologico del nome, che prima significava in generale «curiosità di sapere», «attività di ricerca scientifica») proprio in quanto è «amore della sapienza», diversa sia dalla piena ignoranza dell’anima immemore della sua divina origine, sia dalla piena sapienza di quella tornata alla contemplazione sopraceleste delle idee. Intermedia tra quei due estremi, la filosofia non è che tendenza a tornare a quel perfetto stato contemplativo, il cui amore si accende nell’anima quando, attraverso l’opaco specchio della realtà sensibile, essa rammenta la realtà ideale che ne costituisce il modello eterno. Così Platone interpreta, nel più vasto aspetto di un’attività sintetica tra il mondano e l’oltremondano, la stessa concezione socratica dell’attrattiva irresistibile che la conoscenza dei valori esercita sul volere: la suprema delle idee, all’essenza della quale tutte le altre partecipano, è infatti quella del «bene», e la passione intellettuale che essa accende nell’anima è un amore che abbandona ogni particolare per l’universale, ogni relativo per l’assoluto. È l’«amor platonico»; il demone Eros, celebrato dal Simposio, che, mediando tra il mortale e l’immortale, trae il primo verso il secondo. S’intende peraltro che tale tendenza non è più volontà pratica, non mirando all’azione terrena ma alla conoscenza oltremondana: è qui il fondamentale trapasso dall’ideale attivo di Socrate a quello contemplativo di Platone. Tutta la vita sentimentale, pratica, attiva, l’intero mondo del desiderio e della volontà nel più immediato senso, è confinato, da questa etica platonica, nella sfera corporea, quale mero impaccio alla libertà contemplativa dell’anima. Ma questa morale ascetica, predicante la fuga dal mondo, non esaurisce per intero la personalità e la filosofia del grande ateniese. Accanto al religioso è il politico, che tutta la vita lotta per far trionfare nell’effettiva realtà storica le sue concezioni della giustizia, della legge, dello Stato. Ciò implica una relativa accettazione della vita terrena e delle sue necessarie condizioni, che si riflette in una certa attenuazione del suo rigorismo ascetico. Se la psicologia del Fedone assegna al corpo e bandisce dall’anima ogni elemento pratico e passionale, quella esposta principalmente nella Repubblica ammette invece nell’anima stessa tali elementi, per quanto essi occupino una posizione subordinata. Al vertice, auriga del carro (secondo la celebre immagine del Fedro), è la parte «razionale», che sola conosce le verità e il bene: sotto di essa, destrieri mordenti il freno, sono la parte «impetuosa» e quella «desiderante», corrispondenti in generale ai due aspetti di tutta la vita passionale e irrazionale dell’anima, in quanto da un lato si avventa contro le cose e dall’altro cerca di volgerle al proprio vantaggio.
Proprio su questa psicologia è fondata la politica: l’ideale Stato platonico è infatti diviso nelle tre classi dei filosofi, che contemplando le idee lo dirigono razionalmente, dei soldati, o «guardiani», che lo difendono, e dei produttori, che ne assicurano l’esistenza dal punto di vista economico. Eguali di conseguenza sono le virtù che presiedono a ciascuna delle tre parti dell’anima e delle tre classi dello Stato: rispettivamente la sapienza, il coraggio, la temperanza, su tutte sovrastando poi la giustizia, che, facendo operare nel proprio campo ciascuna parte o classe e impedendo che varchi i limiti delle sue funzioni, assicura il miglior ordine sia nella sfera morale sia in quella politica. La perfezione dell’anima è così, da questo punto di vista, non tanto nella negazione ascetica delle passioni, e in genere di ogni attività non contemplativa, quanto nella subordinazione armonica delle facoltà inferiori alle superiori. Analogamente nello Stato non v’è salute se le classi che non partecipano della sapienza non obbediscono a coloro che, più vicini alla verità, meglio degli altri possono intuire ciò che per lo Stato è bene e legiferare e governare in conformità a tale conoscenza. Si ha quindi un’assoluta aristocrazia del sapere, in cui la vecchia nobiltà di P. si unisce con la sua energica fede filosofica; e si comprende come debba derivarne un’estensione dei poteri statali fino alle prerogative più personali degli individui, quali la proprietà e la famiglia, risolte nell’unica famiglia e proprietà dello Stato. Estremi, questi e altri, ma che logicamente conseguono dalla restrizione della capacità politica a un limitato numero di sapienti, soli capaci di conoscere il bene e quindi autorizzati a guidarvi gli altri anche nelle sfere delle più individuali attività.
Questo dualismo di politica e ascesi, di interesse fattivo per il mondo e pessimistico orientamento verso l’aldilà, che Platone propriamente non concilia (nonostante una certa prevalenza del motivo ascetico, ché la stessa Repubblica culmina in una rappresentazione mistica del destino oltremondano dell’anima del tutto analoga a quella che chiude il Fedone), si rispecchia infine, nella forma più tipica, nella sua negazione del valore dell’arte. Artista dei più grandi che siano mai stati, Platone ben sente l’eterno fascino della poesia, e nello Ione la chiama «follia divina», che, come il magnete, trae a sé con il suo incanto l’animo dell’uomo. Ma appunto per ciò essa è «follia», non conoscenza e manifestazione di verità, ma costruzione fantastica, che dalla verità sempre più si allontana. E se la singola individualità esistente è imitazione dell’idea, l’artista che raffigurando o descrivendo la imita produce una realtà che nella gerarchia degli enti occupa il terzo e infimo grado. Non solo, ma le figurazioni della poesia e dell’arte, agitando nel modo più vivo le forze passionali dell’uomo, rendono più difficile il loro dominio o la loro eliminazione, e così contrastano il compito supremo della filosofia. Riferendosi alla divinità la umanizzano, e le attribuiscono qualità indegne della sua eterna natura. Gli artisti non meritano perciò cittadinanza nel perfetto Stato.
Si è già accennato all’eleatismo, sia parmenideo sia melissiano, implicito nella dottrina delle idee: è appunto la riflessione su questo tema che sta alla base del profondo riesame che P. compie di tutta la sua filosofia negli ultimi dialoghi (i «dialoghi dialettici»). P., infatti, poteva tenere ferma l’ipotesi di una realtà strutturata nella molteplicità delle idee solo in quanto riusciva a superare le obiezioni eleatiche contro il molteplice e la rigida contrapposizione parmenidea tra assoluto «essere» e assoluto «non essere». In tal senso P., dopo aver rinnovato nel Teeteto una critica organica e approfondita dell’opposta tesi metafisica del sensismo, di origine eraclitea, affronta la problematica eleatica in due dialoghi cruciali, nel Parmenide e nel Sofista. Nel primo P. risponde a tutte le critiche contro la dottrina delle idee che egli immagina gli siano rivolte da Parmenide non solo ribadendo che, senza ammettere le idee, nessun problema metafisico o gnoseologico è risolubile, ma soprattutto facendo propria l’ipotesi dell’Uno di Zenone e poi mostrando come da questa conseguano difficoltà ancora maggiori e contraddizioni ancora più profonde. Tuttavia la tesi di una molteplicità di idee e della loro realtà, se anche aveva superato l’obiezione zenoniana, non poteva ancora essere garantita di fronte alla rinascente obiezione parmenidea, per cui ogni realtà particolare (cioè parte di un molteplice, come lo è anche ciascuna idea) si presenta come tale che «è» sé stessa e «non è» tutte le altre, mescolanza, quindi, di «essere» e di «non essere» e pertanto apparenza, ma non vera realtà. Così P. nel Sofista si risolve a compiere il «parricidio», a confutare cioè la tesi centrale del «venerando e terribile» Parmenide e a dimostrare che anche il «non essere» in qualche modo «è». Il punto fondamentale di questa dimostrazione sta nella risoluzione del «non essere» nell’«alterità»: quando noi diciamo che una cosa «è» sé stessa e «non è» le altre non facciamo altro che mettere in evidenza ciò che in essa vi è di «identico» (ταὐτόν) con sé stessa e ciò che vi è di «diverso» (ἕτερον) dalle altre, e quindi che essa «è» identica con sé stessa ed «è» diversa dalle altre. Il discorso, così, si muove sempre nel piano dell’«essere» e viene meno la contraddizione parmenidea. Su questa base P. può, da un lato, elaborare una nuova e compiuta descrizione del metodo dialettico come «divisione» (διαίρεσις) dei generi e delle specie e in essi di ciò che vi è di identico e di ciò che vi è di diverso (metodo, di cui P. stesso dà molteplici esemplificazioni nei dialoghi detti appunto «dialettici»); e, dall’altro, dare un’adeguata risposta alle aporie sofistiche, ciniche e megariche nella predicazione: la «comunanza» (κοινωνία) dei generi e delle specie (l’identico) e la loro differenza (il diverso) creano tutta una trama di rapporti ontologici che il pensiero e il linguaggio devono rispecchiare quando connettono soggetto e predicato. Non solo, ma può trovare finalmente una soluzione anche il problema dell’errore, inspiegabile e inconcepibile finché interpretato come un dire e un pensare «ciò che non è», ma perfettamente chiarito se inteso come un dire e un pensare il «diverso». I risultati così conseguiti e la fecondità della nuova dialettica sono messi alla prova da P. anche nell’analisi dei problemi etici e politici. Nel Filebo, infatti, egli tenta, correggendo anche il precedente rigido dualismo tra bene e piacere, d’inserire positivamente il piacere (o almeno il piacere «puro») nella scala dei valori morali, anche se al di sotto del bene e della scienza; nel Politico poi, pur ribadendo l’opportunità che il potere tocchi solo a coloro che sono sapienti nella scienza politica (o «arte regia»), è manifesta un’attenzione più comprensiva della realtà concreta che mitiga l’utopia della Repubblica e prepara il vasto affresco giuridico costituzionale delle Leggi.
Questa attenzione più comprensiva della realtà concreta che è caratteristica, per tanti aspetti, dell’ultimo P. sta altresì alla base della cosmologia del Timeo e dell’estremo tentativo di mediare il rigido dualismo tra mondo delle idee e mondo sensibile, che è del resto visibile anche in quella dottrina delle «idee-numeri», come intermediari tra le idee e le cose, che ci è nota non dagli scritti di P. ma dalla testimonianza di Aristotele. Il Timeo è un lungo «mito» o racconto sull’origine e la formazione del mondo. Esso si ricollega nel suo inizio alla Repubblica, di cui riassume la prima parte. E ciò non è casuale: quella analogia che era stata posta tra l’individuo e lo Stato, ora è colta da P. tra l’individuo e l’intero cosmo, e lo Stato perfetto è individuato nell’Atene preistorica, città della dittatura divina e del comunismo perfetto, in lotta contro l’Atlantide, regno della mera legalità e della proprietà privata (e questa lotta è poi l’argomento dell’incompiuto Crizia). Il racconto del Timeo prende avvio dalla ribadita distinzione tra «ciò che è sempre e non ha nascita» e «ciò che nasce sempre e mai è»: il cielo, o piuttosto tutto il «cosmo», in quanto corporeo e visibile, non è stato sempre, ma è nato, cominciando da un «principio» e per opera del divino artefice, il Demiurgo, che ha plasmato il mondo a immagine del modello eterno: plasmato e non creato, perché P., oltre che del modello e della copia, parla anche di un «ricettacolo universale», che è il luogo (χώρα) in cui si svolge il divenire e che in sé comprende le determinazioni della materia e dello spazio. Poiché nulla è più bello del «vivente», il mondo, opera bellissima del Demiurgo, è anch’esso un vivente, fornito di un’anima (l’anima del mondo) che il Demiurgo ha formato con l’essenza dell’indivisibile (eterno) e con quella del divisibile (divenire), unendo a esse un’essenza «mista», che partecipa dell’identico e del diverso. Una rigida proporzione matematica, la stessa che presiede all’armonia musicale, regola questa composizione, strutturata in due cerchi intrecciati, di cui quello esterno è quello dell’identico e l’altro è quello del diverso, distinto a sua volta in sette circoli ruotanti e costituenti le orbite planetarie, mentre il tempo, «immagine mobile dell’eterno», scandisce la regolarità dei loro movimenti. L’azione del Demiurgo e degli altri dei inferiori, la loro opera di mediazione rispetto al modello eterno è possibile solo in quanto esistono, come intermediari, gli enti matematici: i veri elementi delle cose infatti non sono i quattro della tradizione naturalistica (la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco), ma le figure geometriche, che determinano secondo regole precise la superficie, e quindi la corporeità, di tutte le cose; terra, acqua, aria e fuoco anzi traggono le loro proprietà dal fatto che sono conformati secondo specie determinate di poliedri regolari. È da queste premesse che P. svolge nel Timeo le varie e complesse ipotesi e dottrine che vanno dalla cosmologia all’astronomia, dalla teologia astrale alla matematica, dalla fisica all’antropologia, dalla biologia alla medicina: questo stesso carattere enciclopedico e sistematico spiega l’enorme, e forse unica, fortuna che quest’opera ha avuto nel corso dei secoli. P. assegnò alla matematica una funzione notevole nella formazione del filosofo e, nella teoria del conoscere, fece iniziare con la conoscenza degli enti matematici il distacco dell’anima dal sensibile e contingente che si compirà infine nella scienza suprema che è la dialettica. I poliedri regolari (detti poi, appunto, platonici) hanno una grande importanza nella concezione della costituzione dell’Universo quale è esposta da P. nel Timeo. Per quanto a lui non si debbano scoperte matematiche di rilievo, è da considerarsi un caposcuola in quanto diede un grande impulso alla ricerca matematica successiva, indirizzandola in un determinato senso. All’influenza di P. si deve, forse in buona parte, quell’esigenza di rigore logico e di perfezione estetica che caratterizza il successivo sviluppo della matematica greca. Tale esigenza, posta da P., rappresenta però anche un limite per il successivo sviluppo della geometria greca. Così, per es., l’esclusione di strumenti che non fossero la riga e il compasso, esclusione che fu richiesta e per così dire imposta da P., finì con il portare la geometria greca all’esaurimento, nei ripetuti e vani tentativi di risolvere con la sola riga e il solo compasso problemi non risolubili con quei soli strumenti (duplicazione del cubo, trisezione dell’angolo).
Si sa che, per incarico del discepolo Mitradate di Chio, era stato eseguito dal bronzista Silanione un ritratto che fu collocato nell’Accademia, forse quando ancora P. era in vita. Se ne conoscono più di una quindicina di copie marmoree, fra cui le migliori sono a Berlino, a Roma (Museo nazionale romano), in una collezione privata tedesca; in esso P. appare con una barba folta e compatta, con la fronte corrugata.
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