RIZZOTTO, Placido
RIZZOTTO, Placido. – Nacque a Corleone il 2 gennaio 1914 da Carmelo e da Giovanna Moschitta.
La madre morì di influenza ‘spagnola’ alcuni anni dopo. Il padre, risposato con Rosa Mannino, era un piccolo gabellotto e venne arrestato dal prefetto Cesare Mori nel quadro dei processi di massa che nella seconda metà degli anni Venti portarono in carcere e videro condannati migliaia di mafiosi, in gran parte nella provincia di Palermo. Durante la prigionia del padre, Placido, figlio maggiore, dovette abbandonare la scuola e occuparsi come capofamiglia della matrigna e dei fratelli più giovani. Si trattò di un periodo assai duro perché a soli undici anni dovette gestire la campagna presa a gabella dal padre. Carmelo restò più di quattro anni in carcere, e nell’intervista da lui rilasciata e pubblicata da Danilo Dolci in Spreco (Torino 1960) abbiamo la descrizione accorata della sofferenza del figlio, lasciato in un frangente così difficile: lo rivide durante una visita in carcere, Placido non parlava, piangeva ininterrottamente («Piangeva, cosa poteva dire? Piangeva per me e per lui. Mancato io ci mancava tutto», Dolci, 1960, p. 167).
Dopo il carcere Carmelo si allontanò dalla mafia. «La galera ci dà pensieri migliori a uno. Quando si esce di galera il più delle volte si fa i fatti suoi, né s’immischia né s’intriga; si fa solo i fatti suoi» (p. 168). Negli anni successivi Placido Rizzotto lavorò con il padre e con l’unico fratello maschio in campagna, tranne che nel periodo del servizio militare, che trascorse in Veneto senza mai tornare a casa in licenza.
Durante la seconda guerra mondiale prestò servizio sui monti della Carnia, in Friuli Venezia Giulia, e da caporale fu promosso caporale maggiore e poi sergente. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fu partigiano, come socialista. Su quella esperienza le testimonianze non sono numerose, non concordano tra loro e non sono precise: la versione prevalente lo vuole nelle brigate Garibaldi in Carnia, ma altre testimonianze collocano la sua militanza partigiana a Roma.
L’esperienza, in ogni caso, fu determinante. Ludovico Benigno, amico e sodale di Rizzotto e anch’egli intervistato da Dolci ricorda che Rizzotto tornò trasformato: «quando è tornato militare, venne con la mania, come lo chiamavo io, dell’organizzazione» (p. 179). «La vita partigiana l’ha svegliato proprio. Ero militare a Roma quando lui è arrivato partigiano. Mi parlò delle loro riunioni organizzate. Mi sono poi accorto che nelle riunioni che faceva qui, spesso faceva riferimento alla vita di partigiano, faceva serate intere di raccontare storie, parlava del fascismo, dei danni che facevano i tedeschi e di come loro si difendevano […]. Prima era solo un contadino di carattere bonario […] quando è tornato, era uomo, aveva del fascino» (p. 178).
Divenuto segretario della Camera del lavoro di Corleone il suo modo di impostare il lavoro sindacale ricordava quello delle formazioni partigiane, dove spesso le decisioni venivano prese dopo un’approfondita discussione collettiva. Durante le riunioni «li faceva parlare tutti, e se c’era qualcuno che non partecipava, lo invitava, lo sollecitava. Mai voleva operare di testa sua: prima voleva sentire il pensiero che usciva dall’incontro di tutti» (p. 186). «Se lui poi faceva una riunione alla Camera del lavoro con cento persone, lo ascoltavano tutti e lo capivano. E ci piaceva» (p. 178).
Non era certo un intellettuale, scrivendo faceva errori di grammatica che Benigno gli correggeva («ma non voleva che si toccasse la sostanza: il suo concetto doveva restare quello che era»); non leggeva molto, ma era un’intelligenza naturale e sistematica, i problemi li affrontava da tutti i lati, «era un critico terribile, anche dei nostri stessi: diceva sempre: – Questo non si doveva dire, questo si doveva fare, – ma non studiava mai libri, aveva la sua testa» (p. 179).
Nicola Cipolla nel dopoguerra svolse un ruolo fondamentale nelle lotte contadine in Sicilia; affermava che molto spesso i dirigenti contadini come Rizzotto erano proprio i giovani che per intraprendenza, coraggio e intelligenza sarebbero potuti diventare, in un altro contesto storico, giovani della mafia. «Perché nel tentativo dei mafiosi, se c’è un giovane che ha capacità lì: metterselo sotto» ma con la guerra di Liberazione, la rinascita dei partiti di sinistra e della Camera del lavoro, il contesto politico cambia e se a «questo che ha capacità di emergere, che ha senso di sé […] gli dai un’altra strada, questo va a fare l’eroe, va a fare l’eroe come Rizzotto…». E continua: «Io li ho conosciuti i picciotti di Giuliano […] con Pio La Torre ci mordevamo le mani perché ci dicevamo che se ci arrivavamo prima, se il partito ci arrivava prima, questi non se ne andavano per quella via» (Cipolla, intervista di G. Contini).
Effettivamente, appena Rizzotto tornò a Corleone, dopo la guerra, la mafia lo avvicinò e gli propose di fare il campiere, offerta che rifiutò. Della mafia, tramite il padre, conosceva direttamente i codici e cercava di volgerli a suo favore. Così, non credente, aveva accettato la presidenza del comitato per i festeggiamenti della Madonna della Rocca, ruolo che spesso nei paesi siciliani era prerogativa dei mafiosi (riteneva la religione utile a «frenare gli istinti perversi dell’uomo», Dolci, 1960, p. 181).
Dal momento che le sinistre erano accusate dai mafiosi di essere portatrici di divisione Rizzotto cercava di comportarsi in modo equanime. Così concesse del petrolio a un noto mafioso, o del tessuto alla moglie del capomafia di Corleone. «Trattava bene […] anche i malandrini, [ma se] gli chiedevano cose che ledevano l’interesse degli operai, della Camera del lavoro, ci si voltava contro come un cane» (p. 178). Si può dire che prendesse sul serio la demagogia della mafia, la quale a parole si presenta come interprete e protettrice dei ‘poverelli’. Lui trasformava quella retorica plebea in una lotta effettiva dei contadini poveri e in quell’impegno era di un’intransigenza assoluta, atteggiamento che a Corleone stupiva i suoi stessi compagni. E terrorizzava suo padre, che conosceva la mafia dall’interno, e la temeva.
Nei pochi anni che lo videro alla testa della Camera del lavoro la lotta prevalente consisteva nell’occupazione dei feudi, cioè delle terre incolte o mal coltivate del latifondo, che il decreto Gullo dell’ottobre 1944 prevedeva potessero essere assegnate ai contadini. Si trattava, in un primo momento, di manifestazioni solo simboliche, le occupazioni vere e proprie avvennero dopo la morte di Rizzotto.
Ma quelle occupazioni, seppur simboliche, scatenarono la reazione armata della mafia, alla quale i contadini risposero sparando. I successivi arresti di contadini di sinistra e le rappresaglie mafiose non riuscirono a bloccare la lotta; verso la fine del 1947 alcune decine di ettari di feudi controllati dalla mafia vennero assegnati a due cooperative (Paternostro, 2014, p. 171), una delle quali era intitolata a Bernardino Verro, il dirigente dei fasci siciliani che aveva guidato la lotta contadina prima di essere ucciso dalla mafia nel 1915.
I partiti di sinistra ottennero ottimi risultati elettorali. Nelle elezioni per l’Assemblea costituente del 2 giugno 1946 i socialisti da soli a Corleone ottennero il 45,35% dei voti e nelle elezioni comunali dell’ottobre dello stesso anno il Fronte del popolo vinse con una percentuale di voti del 63,11%; a Corleone venne eletto un sindaco socialista, Bernardo Streva.
I risultati della consultazione, le imminenti elezioni politiche del 1948, i primi successi nella lotta per la terra portarono la mafia a decidere di uccidere Rizzotto, temuto in modo particolare perché «lo conosceva come persona scaltra e come uno di dentro che esce fuori, come il cane che porta l’osso fuori di casa propria, come a dire che nella qualità di figlio di suo padre era addentrato nelle segrete cose» (Dolci, 1960, p. 180). Del resto l’omicidio di sindacalisti era una strategia della mafia dal 1944, e Rizzotto fu uno degli ultimi a cadere, dei circa cinquanta militanti uccisi. Inoltre era socialista ma non pareva disposto a seguire altri compagni di partito, incluso il sindaco, che a Corleone erano passati al Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI): un ulteriore motivo per eliminarlo, dato che la strategia mafiosa stava cercando di dividere il fronte di sinistra (Paternostro, 2014, p. 173). Infine poco prima dell’agguato mortale Rizzotto aveva preso le difese di alcuni partigiani di passaggio contro studenti corleonesi in odore di mafia e soprattutto si era scontrato con Luciano Liggio, che aveva umiliato appendendolo a una grata. I mafiosi poterono allora dire: «Lo vedete che è una spia russa; se non fosse stato una spia russa avrebbe difeso i paesani» (Dolci, 1960, p. 181). Era la consueta strategia mafiosa: rovinare la reputazione della vittima per isolarla prima di ucciderla.
Fu proprio Liggio che il 10 marzo 1948 organizzò il suo rapimento in pieno paese, attirandolo in un punto prefissato grazie alla collaborazione di un conoscente mafioso di Rizzotto, Pasquale Criscione. Lì venne caricato di forza su un’auto, trasportato in campagna e ucciso personalmente da Liggio, che poi lo gettò in una profonda foiba sul rilievo della Rocca Busambra. Un pastorello che aveva assistito alla scena venne ucciso con un’iniezione di veleno nell’ospedale dove il dottor Michele Navarra, all’epoca capomafia di Corleone, era caporeparto di medicina interna e dove il ragazzo era stato ricoverato proprio a causa della grande agitazione suscitata dall’omicidio (Paternostro, 2014, pp. 117-178).
Meno di due anni dopo i responsabili furono arrestati da Carlo Alberto Dalla Chiesa, giovane comandante delle squadriglie antibanditismo a Corleone. Confessarono in un primo momento e poi ritrattarono; furono assolti in primo e in secondo grado e la sentenza venne confermata in Cassazione. Alcuni reperti biologici e gli effetti personali di Rizzotto non vennero riconosciuti come prove valide e l’assenza del cadavere giocò a favore degli assassini.
La morte del sindacalista terrorizzò i contadini e in un primo momento mise in crisi la Camera del lavoro. Le elezioni del 18 aprile a Corleone, un successo per la Democrazia cristiana e per il PSLI, videro il crollo del Blocco del popolo. Poi, tuttavia, grazie all’intervento dei giovani dirigenti comunisti Pio La Torre e Nicola Cipolla la lotta per la terra continuò in forma più dura e incisiva, i feudi non vennero solo occupati simbolicamente ma furono arati e seminati. Fino alla riforma fondiaria, che le organizzazioni contadine giudicarono insufficiente.
Dopo un lungo oblio, dovuto al rafforzarsi della mafia e al parallelo esodo dei contadini che emigrarono verso il Nord, soltanto a partire dalla fine degli anni Settanta la memoria di Rizzotto tornò a essere sempre più centrale a Corleone, simbolo di una lotta alla mafia che nel paese assume un significato particolarmente pregnante.
Nel 2012 il profilo genetico del DNA confermò che i resti, appena recuperati nella foiba, erano i suoi. Lo stesso anno un funerale di Stato fu celebrato nella cattedrale di Corleone alla presenza del presidente della Repubblica.
Fonti e Bibl.: D. Dolci, Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco nella Sicilia occidentale, Torino 1960; D. Paternostro, L’antimafia sconosciuta. Corleone 1893-1993, Palermo 1994, pp. 111-199; Id., Il sogno spezzato. P. R. e le lotte contadine a Corleone, Corleone 1998; Id., P. R. e le lotte contadine a Corleone, Palermo 2000; G. Contini, P. R. e le lotte contadine tra memoria e oblio, in L’associazionismo a Corleone. Un’inchiesta storica e sociologica, a cura di P. Viola - T. Morello, Palermo 2004, cd-rom (dove sono consultabili le interviste di G. Contini con Francesco Renda, Giuseppa Rizzotto, sorella di Rizzotto, Giuseppe Siragusa, Dino Paternostro, Giuseppe Di Palermo, cognato di Rizzotto, Giorgio La Sala, Nicola Cipolla e Salvatore Mannina); D. Paternostro, Alle radici dell’antimafia sociale a Corleone e in Sicilia, Roccapalumba 2011; Id., I sindacalisti uccisi, nei documenti e nella memoria, in P. Basile et al., Una strage ignorata. Sindacalisti uccisi dalla mafia in Sicilia 1944-48, Roma 2014, ad indicem. Si veda anche il film di Pasquale Scimeca, P. R. (2000).