PITTURA ALTOMEDIEVALE (secoli 6°-10°)
La p. altomedievale, e in particolar modo la p. murale, è profondamente radicata nella tradizione classica, specie a Roma e in Italia, in parte perché tale tradizione vi si era conservata viva, in parte perché Bisanzio, l'altra grande fonte di motivi classici, forniva a Roma e all'Italia modelli, artisti e, durante il periodo della dominazione bizantina, anche committenti.In contesti isolati sia in Italia (S. Procolo a Naturno; Serra di Cassano, 1990), sia in Catalogna - Santa Maria e Sant Miquel a Terrassa (Schrade, 1958) o la prima decorazione in Sant Quirze a Pedret (Solsona, Mus. Diocesà i Comarcal; Demus, 1968) - ci si può imbattere in ingenui tentativi di decorazione murale nei quali i pittori sembrano partire dal graffito, ma anche in questi esempi traspare sullo sfondo una coscienza delle formule classiche: ponendo un angelo nel triangolo al di sopra dell'arco absidale, il pittore di Naturno si conformò alla consueta iconografia; il pittore di Sant Miquel a Terrassa sapeva come utilizzare la posizione classica della contemplazione; inoltre ornò le cortine con riquadri ornamentali, tipici dei tessuti tardoantichi, e adottò un motivo ripetitivo a diagonali e cerchi, anch'esso tardoantico, confrontabile con opere provinciali romane del sec. 3°, come le p. di Avenches, in Svizzera (Ling, 1991), e con opere italiane altomedievali (Mitchell, 1994). Pittori di questo genere evocavano Gundohino, il quale sebbene laico si incaricò di realizzare un evangeliario illustrato (Autun, Bibl. mun., 3) perché un tale libro mancava e non si trovavano esperti in grado di produrne uno (Nees, 1987). Gundohino, come i pittori di Terrassa e di Naturno, soddisfaceva necessità che non sarebbero state comprensibili, se nell'età tardoantica non vi fosse stata l'esigenza di manufatti di tal genere.Nell'Europa settentrionale, dove mancava una tradizione di p. murale, ma dove le rinascite insulare e carolingia avevano prodotto una complessa arte della miniatura, questa influì in certa misura sulla decorazione murale. È la spiegazione più ovvia dell'apparire di motivi decorativi estranei al vocabolario classico e frequenti invece nei manoscritti, per es. schemi a intreccio - come quelli utilizzati nella cripta anulare del St. Emmeram a Ratisbona (Claussen, Exner, 1990) e nella decorazione sia tardocarolingia sia di cronologia precedente della cripta del St. Maximin a Treviri (Treviri, Bischöfliches Dom- und Diözesanmus.; Claussen, Exner, 1990) - oppure motivi come l'acanto mosso dal vento o l'acanto particolarmente lussureggiante, che compaiono a Treviri e nella cripta di Saint-Germain ad Auxerre nel terzo quarto del sec. 9° (King, 1929). Nella decorazione tardocarolingia della cripta del St. Maximin a Treviri (Exner, 1989; Claussen, Exner, 1990), inoltre, le figure umane sono rappresentate in una maniera che non mostra contatti con le tecniche consuete della p. murale più antica e contemporanea, ma che permette di stabilire confronti con avori e miniature, quali la coperta dell'evangeliario proveniente da Fulda (Würzburg, Universitätsbibl., M.p.theol.fol.65; Goldschmidt, 1914-1918), con manoscritti franco-occidentali, come il vangelo proveniente da Prüm (Berlino, Staatsbibl., Theol. lat. fol. 733; Köhler, 1930-1933), e con codici provenienti da Treviri, che ne attestano l'influsso, per es. l'Evangeliario di St. Maria ad Martyres (Coblenza, Staatsarch., 701; Goldschmidt, 1928). Lo stesso può dirsi sia per le p. murali a Nether Wallop, nello Hampshire, ricollegate a manoscritti di Winchester, come il Benedizionale di s. Etelvoldo, del 971-984 (Londra, BL, Add. Ms 49598; Gem, Tudor-Craig, 1981), sia per un affresco altomedievale proveniente dal New Minster di Winchester (Winchester, City Mus.; Wormald, 1984). In questi casi i pittori, presumibilmente in mancanza di una effettiva tradizione di p. murale, si rifecero a miniature e ad avori, con i quali avevano invece familiarità. Vi sono altri casi in cui manoscritti e p. murale sembrano parlare lo stesso linguaggio, ma nei quali la relazione tra i generi è più complessa. Il pittore dell'Evangelistario di Godescalco, del 781-783 (Parigi, BN, nouv.acq.lat. 1203), tratta le teste e i corpi delle sue figure in maniera completamente differente: mentre i corpi vengono realizzati in modo ingenuo ed eccentrico, ciò non avviene per i volti, che presentano tratti ampi ed espressivi, poiché seguono un canone bizantino ben consolidato a Roma, dove l'artista si era recato con Carlo Magno nel 781. Costruiti in modo grandioso e fermo, con sopracciglia arcuate, occhi grandi dalle palpebre prominenti, ombre verdi, rosse e grigio scuro e lumeggiature bianche disposte con sicurezza, i volti realizzati da Godescalco offrono una ricchezza di particolari e una consistenza maggiore di quanto ci si potrebbe aspettare in una miniatura e richiamano decisamente i volti del fregio dipinto raffigurante i Padri della Chiesa nella navata laterale sinistra di S. Maria Antiqua a Roma, risalenti al 757-767 (Romanelli, Nordhagen, 1964); gli artefici di queste pitture padroneggiavano un vocabolario relativo alle figure nel loro insieme, comprese le vesti, che era ignoto al maestro di Godescalco, il quale dovette adottare un idioma che non aveva imparato a usare e che dovette assorbire 'da estraneo' prendendo a modello una p. murale.Tra i casi nei quali p. e miniatura attestano uno stretto legame va menzionato quello del Salterio di Stoccarda (Württembergische Landesbibl., Bibl. fol. 23) e dei dipinti murali della chiesa di Santa Sofia a Benevento, dove sono evidenti le somiglianze tra l'angelo della Storia di Zaccaria delle p. e molte delle figure del codice (Belting, 1967; Mütherich, 1968; de' Maffei, 1973). Il Salterio di Stoccarda, sebbene prodotto a Saint-Germain-des-Prés intorno all'820-830 (Bischoff, 1968), utilizzò come modello per il suo ciclo di miniature un salterio della seconda metà del sec. 8°, proveniente dall'Italia settentrionale (Eschweiler, 1952; Mütherich, 1968): la datazione di questo modello coincide con quella del regno del duca Arechi II (758-787), che fece edificare la chiesa beneventana; egli tentò di fare di Benevento una seconda Pavia e poté forse portare con sé manoscritti e pittori nel 758, quando il re longobardo Desiderio (757-774) lo insediò; è anche possibile che libri e artisti si fossero spostati dall'Italia settentrionale verso il Meridione con la caduta di Pavia del 774. Se invece le p. della Santa Sofia dovessero costituire il risultato di una campagna successiva (Belting, 1968), per spiegare le analogie con il codice si dovrebbe ipotizzare una teoria più complessa.Altri confronti ben noti tra miniature e p. monumentali riguardano: il codice di Egino, del 796-799 (Berlino, Staatsbibl., Phill. 1676; Camille, 1994), e le p. murali di S. Vincenzo al Volturno (prov. Isernia) e della Santa Sofia di Benevento (Belting, 1968); il Salterio di Egberto, del 977-993 (Cividale, Mus. Archeologico Naz., CXXXVI), e le p. murali del battistero del duomo di Novara e della chiesa dei Ss. Pietro e Orso ad Aosta (Demus, 1968); il ciclo cristologico della basilichetta dei Ss. Martiri a Cimitile, presso Nola (prov. Napoli), e manoscritti di Montecassino (Bibl., 175, del 915-922; Mostra storica, 19542; Belting, 1968) e di Benevento (Roma, Casanat., 724, del 969-982; Mostra storica, 19542; Belting, 1968). Il più famoso di tali confronti, quello tra le p. murali di St. Georg a Oberzell, nella Reichenau, e le miniature del c.d. gruppo di Liuthar (Demus, 1968), sembra essere puramente iconografico, con soggetti in comune che appaiono in versione più ricca nei dipinti.Simulate p. su tavola con sportelli, cornici e supporti a cavalletto ebbero un ruolo dominante nel sistema decorativo della p. murale romana e anche i ritratti, dipinti su pannelli quadrati o su supporti circolari, potevano diventare una sorta di motivo secondario della decorazione murale. Sia i ritratti clipeati su supporti circolari sia quelli a tabula hanno lasciato la loro impronta nell'iconografia della decorazione murale medievale, come testimoniano i medaglioni dipinti della basilica di S. Paolo f.l.m. a Roma, del S. Salvatore a Brescia e del St. Georg a Oberzell. È stato peraltro ipotizzato (Ladner, 1941-1984; Osborne, 1979) che i nimbi dei viventi, spesso rappresentati come oggetti tridimensionali nella p. altomedievale, alludano al ritratto a tabula. Anche il concetto classico dei finti riquadri ritrattistici facenti parte di una decorazione murale fu ripreso nell'Alto Medioevo nel tempietto a Campello sul Clitunno, presso Spoleto (Andaloro, 1985; Emerick, 1985), e nella decorazione di Gaudiosus nel cimitero di Ponziano a Roma (Osborne, 1985), comprendenti entrambi copie di icone di Cristo e dei Ss. Pietro e Paolo all'interno del programma decorativo.Per l'Alto Medioevo, come per l'età classica, la quantità di p. su tavola sopravvissuta è minima e ciò vale anche per i ritratti. I ritratti dell'imperatore Foca (602-610), testimoniati da Gregorio Magno (Registrum epistolarum, I, 13, 1), e quelli dei suoi successori, solennemente ricevuti a Roma fino al 710 (Lib. Pont., I, 1886, p. 392), erano con tutta probabilità p. su tavola (Grabar, 1936) che dovevano documentare le nuove tendenze della ritrattistica metropolitana, specialmente all'epoca dell'imperatore Eraclio I (610-641; Kitzinger, 1958). A partire dal sec. 7° i pittori producevano anche una grande quantità di icone cristiane con la raffigurazione di santi, della Vergine e di Cristo, realizzate con la tecnica a encausto, analogamente ai ritratti antichi e a quelli delle mummie egiziane, o con una tecnica somigliante alla tempera, come i pannelli di Malibu (J. Paul Getty Mus.); si ritiene spesso che l'uso della tempera indichi un'origine post-iconoclastica oppure occidentale; in ogni caso, la Madonna della Clemenza (Roma, S. Maria in Trastevere), eseguita certamente a Roma, attesta l'uso della tecnica a encausto fino al 705-707 (Bertelli, 1961a; Andaloro, 1972-1973; Amato, 1988). Un'altra icona romana, l'Odighítria del Pantheon, era in origine realizzata in p. a tempera (caseina), ma subì due antichi restauri con la tecnica a encausto (Bertelli, 1961b; Amato, 1988).A parte i ritratti e le icone, la decorazione dei soffitti lignei offriva ai pittori altomedievali almeno un'ulteriore occasione per esercitare la tecnica della p. su legno. Anche in questo caso, come in quello della p. su tavola classica, l'esistenza di tali soffitti lignei è nota prevalentemente grazie alle p. murali che li imitano, per es. quelle su soffitto del sec. 4° provenienti da Treviri (Bischöfliches Dom- und Diözesanmus.; Kempf, 1965; Weber, 1986; Exner, 1989). Nel sec. 9° Agnello di Ravenna (Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 168) menziona i laquearia lignei di S. Apollinare in Classe, mentre, per illustrare l'austerità di Benedetto di Aniane (ca. 750-821), il suo biografo mette in luce la semplicità della sua prima chiesa sottolineando il fatto che essa non aveva nemmeno un soffitto ligneo dipinto (Ardone, Vita Benedicti abbatis Anianensis et Indensis, 5). È stato ipotizzato (Geertmann, 1975) che l'espressione camara o camera, che ricorre nel Lib. Pont., stia a indicare soffitti lignei. Due importanti manoscritti del De diversis artibus (Londra, BL, Harley 3915; Wolfenbüttel, Herzog August Bibl., Gudianus lat. 2° 69) identificano i pannelli lignei di cui parla Teofilo - che tratta prima della p. su legno (I, 1-14) per poi rivolgersi alla p. murale (I, 15-16) e alla miniatura (I, 28-33) - con pannelli di soffitto. Oltre alle coperture lignee con soffitti dipinti e cassoni esistenti probabilmente in epoca altomedievale, sono venuti alla luce al primo e al secondo piano della cripta esterna dell'abbaziale di Corvey resti di due soffitti intonacati dipinti di età altomedievale, dell'822-844 (Claussen, Exner, 1990); come nei soffitti del sec. 4° di Treviri, l'intonaco era applicato a un supporto intrecciato (Kempf, 1965; Weber, 1986; Exner, 1989); Vitruvio (De architectura, VII, 3, 1-2) raccomandava supporti simili per le volte intonacate.Mentre gli esempi noti di p. romana di età repubblicana o imperiale conservati provengono nella grande maggioranza dei casi da abitazioni private, sia pure talvolta principesche, la p. murale altomedievale si è conservata principalmente in luoghi pubblici, cioè nelle chiese. Da questo punto di vista essa continuava un genere che è noto essere esistito in epoca classica, ma del quale si conservano pochi esempi, raffiguranti battaglie, trionfi e investiture a Roma e a Bisanzio (Grabar, 1936; Pollit, 1966; Ling, 1991). I pannelli dipinti raffiguranti battaglie, portati in processione trionfale ed esibiti nei templi romani durante l'epoca repubblicana, costituirono i precursori bidimensionali e i modelli per i rilievi trionfali delle epoche successive. Sfortunatamente rimane molto poco di questo genere di p. pubblica, ma la sua influenza sulla nascente iconografia cristiana dovette essere considerevole, perché la committenza imperiale, la forza principale che sottendeva allo sviluppo dell'iconografia trionfale e aulica, ebbe un ruolo centrale sia nella fondazione sia nella decorazione di importanti chiese antiche, che continuarono a rivestire la funzione di modelli per tutto il Medioevo; i legami tra l'iconografia trionfale e quella cristiana sono stati del resto esplorati e illustrati e talora sopravvalutati (Mathews, 1993). L'abside del santuario del Tetrarca a Luxor, in Egitto (Grabar, 1936), adombra chiaramente le composizioni absidali delle successive basiliche cristiane, mentre la monumentalità e l'astratta perfezione delle p. del Laterano (così come la dea Barberini) aiutano a comprendere come la p. murale romana del sec. 4° sia stata in grado di produrre raffigurazioni grandiose e raffinate; tali p. murali testimoniano il livello artistico di quello che sarebbe diventato il periodo fondante dell'iconografia monumentale cristiana a Roma.Nella sala principale dell'ala orientale della Domus Aurea neroniana si suppone che il rivestimento marmoreo ricoprisse completamente le pareti, lasciando scoperte soltanto le parti voltate (Peters, Meyboom, 1982): tale divisione tra le pareti e le volte di un interno prefigurava la disposizione che avrebbe caratterizzato successivamente le più lussuose chiese bizantine e, in forma più modesta, le absidi altomedievali di chiese romane, quali S. Cecilia in Trastevere (Krautheimer, 1937-1980, I). Lo stucco, i rivestimenti in marmo e opus sectile e in particolar modo i mosaici parietali erano in competizione con le p. murali; differenze quali il costo e la disponibilità di materiale determinavano nella rifinitura degli ambienti una gerarchia, all'interno della quale la p. murale risultava in secondo piano. Tra gli edifici cristiani, strutture come il mausoleo di Costanza (Amadio, 1986) e le basiliche di S. Maria Maggiore (Krautheimer, 1937-1980, III) e S. Sabina (Krautheimer, 1937-1977, IV) a Roma, il battistero degli Ortodossi, il mausoleo di Galla Placidia e S. Apollinare Nuovo a Ravenna (Deichmann, 1958-1989), così come S. Demetrio a Salonicco, vantavano decorazioni realizzate interamente in rivestimenti in marmo o in opus sectile, in mosaico parietale e, nel caso del battistero degli Ortodossi e di S. Maria Maggiore, in stucco. È perciò improbabile che le p. murali svolgessero un ruolo centrale nella decorazione di chiese importanti prima della metà del 5° secolo. Modelli bidimensionali iniziarono a influenzare la decorazione dei sarcofagi a Roma e altrove nel 375 ca. e forse già nel 360 (Gerke, 1935): allo stesso tempo, figure ben articolate in pose complesse fecero la loro prima comparsa nelle catacombe, come nelle scene di Mosè nella cripta delle Pecorelle nelle catacombe di S. Callisto a Roma (Bertelli, 1965), ma è probabile che esse siano derivate dalle immagini in mosaico piuttosto che dalla p. murale. Alla fine però divenne consueta una più modesta tipologia di decorazione interna, che limitava il mosaico all'abside, all'arco absidale e all'arcus maior (arco trionfale), lasciando la decorazione dei muri della navata e del transetto ai pittori. Si concorda generalmente, a eccezione di Garrison (1961), sul fatto che la basilica di S. Paolo f.l.m. a Roma, in quanto restaurata da papa Leone I (440-461) dopo il 442, presentava una decorazione mista di tale genere (Waetzoldt, 1964). D'altra parte Garrison (1961) riuscì a dimostrare che non si conserva prima della fine del sec. 11° alcuna p. nota che attesti l'influsso dei dipinti murali di S. Paolo f.l.m., considerati risalenti all'età di papa Leone, e ad analoghe conclusioni si è giunti (Brenk, 1985) per quanto concerne l'intelaiatura architettonica a due livelli dei cicli dipinti nelle navate dell'antica S. Pietro in Vaticano e di S. Paolo f.l.m., che viene inclusa in una serie di esempi di dipinti murali dei secc. 4° e 5° caratteristici per struttura, come Lullingstone (Davey, Ling, 1982), Treviri (Kempf, 1965) e una p. sotto la basilica di S. Maria Maggiore a Roma; un'analoga intelaiatura architettonica caratterizzava i mosaici del nartece del sacello di S. Aquilino presso S. Lorenzo a Milano. Sistemi decorativi misti, quali in S. Paolo f.l.m. e in S. Pietro in Vaticano, poterono essere in uso in contesti provinciali di epoca anteriore, per es. nelle chiese che a Cimitile si devono a Paolino di Nola (m. nel 431), il quale impiegò sia mosaicisti sia pittori di cicli narrativi (Weis, 1957; Ihm, 1960; Korol, 1987). Gli esempi altomedievali di questo tipo di decorazione comprendono il tempietto di S. Maria in Valle a Cividale (L'Orange, Torp, 1977-1979) e le fondazioni dei secc. 8° e 9° dei pontefici Leone III (795-816), Pasquale I (817-824) e Leone IV (847-855) a Roma; ma in ambienti di piccole dimensioni, per es. nelle cappelle papali e nei mausolei in S. Pietro in Vaticano o nella cappella di S. Zenone in S. Prassede, durante il primo quarto del sec. 9° potevano essere realizzate decorazioni di carattere più lussuoso. Da questo punto di vista è particolarmente interessante la committenza di papa Giovanni VII (705-707), il cui oratorio della Vergine in S. Pietro in Vaticano, relativamente piccolo e collocato in un luogo dov'era a raffronto con altri oratori di gran lusso, prevedeva una decorazione in mosaico (Nordhagen, 1965) e in marmo (Nordhagen, 1969), mentre per la ridecorazione di S. Maria Antiqua, progetto molto più vasto, lo stesso committente ripiegò, anche per l'abside e per l'arco absidale, sul meno costoso mezzo della p. murale (Romanelli, Nordhagen, 1964; Nordhagen, 1968).Nei casi in cui era possibile realizzare i rivestimenti in marmo o in mosaico, la p. murale risultava meno desiderabile e, in quanto tale, utilizzata per spazi di importanza minore: negli oratori delle catacombe (Osborne, 1979), in contesti funerari (McClendon, 1983), in vani laterali, come le gallerie di S. Lorenzo a Milano, e in santuari di minori dimensioni, come gli ambienti riutilizzati della c.d. chiesa inferiore di S. Martino ai Monti a Roma (Davis-Weyer, Emerick, 1984) o di Santa Maria in Stelle (prov. Verona). Tra questi luoghi i più importanti erano le navate delle grandi chiese romane con cicli narrativi e complessi sistemi di incorniciatura, per es. nel S. Paolo f.l.m. di papa Leone Magno e nel S. Pietro in Vaticano di papa Formoso (891-896; Waetzoldt, 1964). Tuttavia, dove la tecnica del mosaico si era perduta, come nella Roma del tardo sec. 9°, o dove non era mai esistita, come nei centri del Nord quali San Gallo, Müstair o la Reichenau, la p. murale nell'Alto Medioevo tornò a costituire, come all'epoca di Vitruvio, il più importante mezzo di decorazione dell'interno degli edifici. La sua rinascita appare compiuta nel corso degli anni venti e trenta del sec. 9° nelle regioni appartenute ai Longobardi e si diffuse verso i centri alpini e transalpini prima del 900. Inoltre, i committenti e i pittori della Reichenau, al fine di rendere più belli i dipinti, vi aggiunsero paste vitree, elementi decorativi in metallo e dorature, come mostrano gli esempi della navata e della cappella di S. Michele in St. Georg a Oberzell e di St. Peter und Paul a Niederzell (Demus, 1968), forse riprendendo precedenti tradizioni longobarde (Romanini, 1992). Inserti dello stesso genere risultano anche in opere in avorio, come la testina da S. Vincenzo al Volturno (Castel San Vincenzo, ex asilo; Mitchell, 1994), in stucco (Cividale, tempietto di S. Maria in Valle; Brescia, S. Salvatore) e rilievi in pietra dipinti, come l'altare di Ratchis, del 731-744 (Cividale, Mus. Cristiano).Dove mosaici e p. murali venivano prodotti contemporaneamente e nello stesso luogo, il mezzo più prestigioso doveva verosimilmente influenzare l'altro. Un caso esemplare è la lunetta nella chiesa inferiore di S. Martino ai Monti a Roma, dell'inizio del sec. 6° (Davis-Weyer, Emerick, 1984), nella quale il pittore provò a imitare la tecnica dei mosaici contemporanei usando pennellate di ampiezza uguale poste l'una accanto all'altra parallele e in curve e controcurve. Tale processo era laborioso e alquanto diverso dalle consuete tecniche di stesura dei colori nella p. tardoromana e altomedievale. Si potrebbe sospettare che nel sec. 8° e agli inizi del 9° i mosaicisti di Leone III e di Pasquale I potessero influenzare i pittori che lavoravano con loro, fianco a fianco. Nonostante le somiglianze generiche, le condizioni frammentarie delle p. in questione, per es. nel campanile di S. Prassede (Wilpert, 1916), nella decorazione carolingia della chiesa inferiore di S. Martino ai Monti (Wilpert, 1916) e nell'oratorio del presbitero Leone nella chiesa inferiore di S. Clemente (Osborne, 1979; Tronzo, 1987), rendono difficile un esame più attento. Un'influenza inversa si ebbe nel mosaico di papa Gregorio IV (827-844) in S. Marco a Roma (Davis-Weyer, 1987), nel quale i mosaicisti tentarono di imitare le tecniche di ombreggiatura e di lumeggiatura della coeva p. murale senza una sufficiente padronanza del corrispondente vocabolario visivo.Per quanto riguarda le tecniche, le decorazioni tardoantiche e altomedievali utilizzavano in genere due tipi di intonaco, uno più grezzo per lo strato inferiore e uno più raffinato per quello superiore; il loro spessore è generalmente modesto e non permette di ipotizzare più di una o al massimo due stesure per ciascuno strato. Gli strati inferiori potevano variare da cm 1 a 3, quelli superiori da mm 2 a 5; alcuni degli strati superiori erano semplicemente mani di intonaco bianco. Le p. murali carolinge nella chiesa inferiore di S. Martino ai Monti a Roma erano dipinte su un singolo strato di vario spessore, analogamente alle absidi laterali della cripta di Epifanio in S. Vincenzo al Volturno (Mitchell, 1993) e alle p. di S. Martino di Serravalle Valdisotto, in Valtellina (Milano, Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici della Lombardia; Bertelli, 1986). In alcuni casi veniva stesa sul muro la malta per costruzione perché servisse da sostrato, per es. nella decorazione carolingia della cripta anulare di St. Emmeram a Ratisbona (Claussen, Exner, 1990). Nel caso del frammento anglosassone del New Minster a Winchester (City Mus.), i pigmenti erano applicati direttamente sulla superficie levigata di un concio in pietra calcarea. Gli intonaci utilizzati per la preparazione delle p. murali potevano contenere elementi organici e inorganici, quali sabbia, polvere di laterizio o paglia. L'aggiunta di polvere di laterizio, che rendeva l'intonaco rosato, veniva consigliata da Vitruvio (De architectura, II, 5, 1; VII, 4, 1) perché si riteneva lo rinforzasse e gli conferisse maggiore resistenza rispetto all'umidità; questo tipo di intonaco sembra sia stato utilizzato nell'oratorio merovingio di Saint-Martin ad Angers (Forsyth, 1953) e se ne è trovato anche a Monkwearmouth e a Jarrow (Cramp, Cronyn, 1990), a Nether Wallop (Ballantyne, 1990) e a Winchester (Biddle, Kjølbye-Biddle, 1990). Antiche ricette citano talvolta altre misture di carattere organico, contenenti uovo, vino, formaggio, olio o strutto, ma l'analisi delle componenti degli intonaci conservati non è riuscita a identificare tali ingredienti, forse perché i metodi di analisi a essi applicati non reagiscono a tracce organiche o ai loro residui; comunque, elementi organici nei pigmenti di p. murale sono stati ritrovati a Colonia e in località inglesi (Davey, Ling, 1982); l'olio risulta utilizzato a Monkwearmouth e a Müstair (Mairinger, Schreiner, 1986; Cramp, Cronyn, 1990).In S. Salvatore a Brescia venne usata una preparazione più complessa (Wright, 1980; Peroni, 1983): al di sopra del substrato venne steso un intonaco preliminare di bianco di calce che, non appena asciutto, venne spicconato e infine coperto da un intonaco finale che funse da base alla decorazione pittorica vera e propria. Tali intonaci intermedi sembra esistessero anche altrove, per es. in S. Giovanni a Müstair, nei Grigioni (Arnold, Zehnder, 1991), e la loro funzione è difficile da stabilire: essi potevano avere carattere temporaneo o definitivo oppure potevano essere superfici tali da permettere l'esecuzione di disegni preparatori, sul genere della sinopia, per una decorazione murale già prevista. È più probabile che uno strato sottostante grezzo e la sua scialbatura venissero applicati come finitura essenziale successivamente alla costruzione di un edificio, in modo da permetterne l'agibilità. Una rifinitura temporanea avrebbe inoltre reso possibile a una comunità di posticipare a un momento più propizio la spesa e lo sforzo necessari alla realizzazione di una decorazione completa; in tal caso lo stretto legame ipotizzato generalmente tra le date di costruzione e di decorazione non sussiste.L'intonaco preliminare poteva talora rimanere in uso per un periodo considerevole; chiese prive di decorazione o con decorazione ridotta al minimo erano del resto comuni in epoca altomedievale. La prima chiesa di s. Benedetto di Aniane era priva di decorazione e, sebbene il suo biografo scriva a lungo sulla seconda chiesa di Benedetto, non vengono menzionate p. murali (Ardone, Vita Benedicti abbatis Anianensis et Indensis, 17). La navata della chiesa di Eginardo (ca. 770-840) a Steinbach (od. Michelstadt, nello Hessen) era rivestita da un intonaco di bianco di calce, a eccezione di un fregio lungo il suo bordo superiore (Claussen, Exner, 1990); altri esempi di interni decorati solamente in minima parte, risalenti all'840 ca., sono stati recentemente individuati nella primitiva decorazione della prima chiesa di Corvey (Claussen, Exner, 1990), nelle fasi I e Ia (777-780 ca.) del duomo di Paderborn (Claussen, 1986; Claussen, Exner, 1990) e nel New Minster dedicato a s. Osvaldo a Gloucester, del sec. 9° (Heighway, 1990).In Cappadocia le rifiniture preliminari dipinte direttamente sulla superficie della roccia sembrano essere state applicate dai costruttori sistematicamente (Wharton Epstein, 1986). È possibile che il procedimento fosse lo stesso anche in Occidente nei casi in cui l'esterno e l'interno di un edificio ricevettero lo stesso tipo di intonaco, come nel New Minster a Gloucester (Heighway, 1990) e a Müstair.Una volta steso l'intonaco preliminare, esso poteva essere utilizzato in qualsiasi maniera, specialmente se si decideva di sostituirlo con un programma decorativo completo, che diveniva accessibile tramite nuovi ponteggi - in S. Salvatore a Brescia lo strato inferiore e il suo intonaco bianco vennero applicati da ponteggi diversi da quelli utilizzati per stendere lo strato finale (Peroni, 1983) -, dando ai pittori straordinarie possibilità di disegnare, progettare e sperimentare. Le primitive, ma temporanee superfici imbiancate si potevano anche utilizzare per una lezione di disegno e per mostrare ai membri meno esperti di una bottega come disegnare un piede o un viso. Questo sembra essere accaduto nel S. Salvatore a Brescia, dove lo stesso motivo è stato ripetuto in diversi colori e da diverse mani, l'una accanto all'altra (Peroni, 1983). Il desiderio di utilizzare superfici parietali appena realizzate per fare pratica e per sperimentare è evidente anche nella Torhalle di Lorsch e a Corvey, dove però i pittori dipingevano sulla superficie finale sapendo che era prevista un'ulteriore stesura di pigmento bianco per ricoprire eventuali macchie risultanti da p. soprastanti, come nel Westwerk dell'abbaziale di Corvey (Schrade, 1958; Claussen, Exner, 1990), oppure dal processo utilizzato nell'imitazione del marmo, come per es. nella Torhalle di Lorsch (Claussen, Exner, 1990);tali disegni sperimentali non hanno legami - o ne hanno comunque di molto vaghi - con la decorazione finale.Altri disegni avevano una funzione preparatoria. In generale i disegni preparatori, dipinti o incisi, venivano eseguiti sull'ultimo strato dell'intonaco prima o dopo la stesura del colore dello sfondo. Laddove il bianco della superficie intonacata serviva anche da sfondo, venivano eseguiti disegni preparatori prima che si iniziasse a dipingere, come nella seconda fase (sec. 9°) delle p. del St. Dionysius a Esslingen (BadenWürttemberg; Claussen, Exner, 1990). Nel ciclo cristologico di S. Martino ai Monti a Roma, con il suo generico sfondo atmosferico grigio-bluastro, i disegni preparatori per figure e oggetti venivano stesi dopo il colore del fondo (Davis-Weyer, Emerick, 1984). In S. Maria foris portas a Castelseprio, dove paesaggi e vedute ricchi di dettagli erano in competizione con le figure, i disegni preparatori rossastri di entrambi erano realizzati direttamente sull'intonaco bianco (Farioli Campanati, 1982). Nei casi in cui sopravvivono solamente disegni, generalmente di colore rosso, e nessun altro pigmento, è sovente difficile decidere se essi costituissero della decorazione uno stadio finale, come forse a Esslingen, oppure invece preliminare, come per es. a Gloucester (Heighway, 1990); è tuttora irrisolto il caso degli angeli monocromi nella cappella di S. Michele in St. Marien a Frauenchiemsee, in Baviera (Sedlmayr, 1966; Demus, 1968). I disegni funzionali dovevano ovviamente guidare il pittore nella realizzazione delle composizioni; da questo punto di vista i disegni preparatori incisi che rimanevano visibili fino al completamento del lavoro e che venivano usati dai pittori romani (Ling, 1991), bizantini (Winfield, 1968) e altomedievali (Davis-Weyer, Emerick, 1984) erano preferibili a quelli dipinti, che invece scomparivano mano a mano che si procedeva nel dipingere. Nella chiesa inferiore di S. Martino ai Monti a Roma, dove i pittori utilizzarono disegni preparatori dipinti nel ciclo cristologico e incisi nella lunetta, questi ultimi appaiono estremamente dettagliati anche nei particolari più minuti, come i ricami della veste del santo militare, ma, alla fine, di gran parte di quest'accurata preparazione i pittori non tennero conto, perché non risolveva un'irregolarità della cornice architettonica (Davis-Weyer, Emerick, 1984). I disegni preparatori dipinti erano considerevolmente meno particolareggiati, sebbene sintetizzassero importanti aspetti iconografici e anticipassero l'atteggiamento e i gesti dei protagonisti. È stato ipotizzato (Peroni, 1983) che i disegni funzionali sull'intonaco preliminare di S. Salvatore a Brescia avessero una funzione simile eccetto che per la loro posizione, analoga a quella delle sinopie, cioè al di sotto dell'effettiva superficie dipinta, che dovette limitarne in certa misura l'utilità.Nel caso in cui le p. murali decoravano le pareti della navata o l'intera chiesa, i pittori erano coinvolti nella realizzazione dell'intero sistema decorativo. Come in epoca antica, i fili venivano utilizzati per assicurare una disposizione simmetrica e per regolare la relazione tra cornici e architettura. Tali linee guida venivano spesso pressate nell'intonaco dell'ultima stesura ancora malleabile, come nelle p. della catacomba dei Ss. Pietro e Marcellino a Roma (Deckers, Seeliger, 1987), nella decorazione di Giovanni VII in S. Maria Antiqua (Nordhagen, 1968), nella Torhalle di Lorsch (Claussen, Exner, 1990), nella chiesa di Eginardo a Steinbach, nella terza decorazione della cripta di St. Maximin a Treviri (Claussen, Exner, 1990). In alcuni casi, per es. a Steinbach, tali linee venivano rafforzate da pennellate; in altri casi il filo veniva sfregato con un pigmento per produrre un'impronta colorata, come in S. Maria Antiqua (Romanelli, Nordhagen, 1964) e nel pannello finale del corridoio lungo la chiesa meridionale in S. Vincenzo al Volturno (Mitchell, 1985). Tale procedimento costituiva una necessità laddove la superficie dell'intonaco non era più malleabile. In S. Salvatore a Brescia il filo a piombo era applicato al bianco di calce preliminare asciutto (Peroni, 1983).Oltre al filo, nella p. romana avevano avuto un ruolo importante compassi e strumenti analoghi sia per la realizzazione di tondi e clipei sia nella progettazione delle decorazioni di un'intera volta. Nella p. altomedievale continuò l'uso del compasso in queste fasi preparatorie. In S. Vincenzo al Volturno vennero utilizzati strumenti simili a compassi con diametro fino quasi a m 2 per organizzare le composizioni nel braccio occidentale della cripta di Epifanio (Mitchell, 1993). A Jarrow per realizzare cerchi fra loro identici con raggio di soli mm 55 venne invece utilizzato uno strumento piccolissimo, analogo a quello adottato dai miniatori dell'Evangeliario di Lindisfarne (Londra, BL, Cott. Nero D.IV; Cramp, Cronyn, 1990). Nuovi impieghi del compasso furono determinati dal fatto che il nimbo era divenuto un motivo iconografico consueto nella p. tardoantica e altomedievale, in particolare per quella che raffigurava soggetti cristiani; in alcuni casi il diametro dei nimbi - e dei compassi utilizzati per inciderli o disegnarli - era attentamente calibrato, con aureole grandi o piccole a seconda del rango delle figure e delle loro dimensioni (Davis-Weyer, Emerick, 1984). I nimbi naturalmente potevano venir disegnati soltanto dopo che erano state decise la scena da dipingere e la posizione dei protagonisti. Quindi, sebbene parte del processo preparatorio, il compasso doveva essere utilizzato dopo che il disegno, dipinto o inciso, era stato realizzato. I nimbi in stucco ponevano un problema particolare, dal momento che erano ancorati al di sotto della superficie pittorica; tuttavia, per collocarli nella giusta posizione era comunque necessario un disegno preparatorio, fornito per es. in S. Salvatore a Brescia dai disegni funzionali sul genere della sinopia su intonaco preliminare (Peroni, 1983).Lo studio della Leggenda di S. Francesco nella basilica superiore di Assisi e di alcuni affreschi nella Cappella degli Scrovegni a Padova (Tintori, Meiss, 1962) ha segnato il passaggio verso un approccio di tipo più archeologico e positivistico nello studio della p. murale medievale. Si è riusciti non soltanto a delimitare le 'giornate' o i giorni di lavoro del 'buon fresco', come descritto da Cennino Cennini (Libro dell'arte, LXVII), ma anche a stabilirne la sequenza e a descriverne le differenze di dimensioni e forma. In entrambi i casi esaminati, la variabilità era estremamente alta; anziché quadrate o di impianto generico, le forme di ciascuna giornata anticipavano le linee del soggetto che si doveva rappresentare: una testa, una manica o un'intera serie di montagne. Inoltre, in cornici di dimensioni identiche il numero delle giornate poteva variare da cinque a cinquantaquattro con relative differenze nella grandezza di ciascuna zona. In altre parole, il 'buon fresco' non soltanto rendeva possibile dipingere sull'intonaco fresco, ma permetteva anche di adottare per questa operazione tempi molto flessibili: il pittore poteva dunque prendersi tutto il tempo che voleva per portare a termine le diverse parti di una p. murale prima che l'intonaco asciugasse, passando un giorno intero su un volto oppure dipingendo un gruppo di figure nello stesso lasso di tempo, la 'giornata'. I pittori altomedievali e romanici non disponevano della medesima flessibilità e non l'avevano, sembra, neppure i pittori romani, poiché tutti dovevano realizzare ampie sezioni di dimensioni più o meno uguali, definite soprattutto dall'altezza e dall'ampiezza dei loro ponteggi e dalle dimensioni delle cornici da riempire.Nel discutere le origini del 'buon fresco', Tintori e Meiss (1962) optarono per ciò che si potrebbe definire la teoria del Rinascimento in opposizione a quella, meno ideologica e più tecnica, che aveva sottolineato le ovvie somiglianze tra mosaico e 'buon fresco' (Berger, 1897). Come i pigmenti utilizzati per il 'buon fresco', basati sull'acqua, le tessere musive dovevano essere applicate sull'intonaco fresco; come l'intonaco del pittore del 'buon fresco', il letto su cui il mosaicista doveva disporre le tessere veniva realizzato un po' alla volta. Dal momento che l'esecuzione del mosaico è un processo lento (Underwood, 1966-1975; Harding, 1989), è necessario che il mosaicista stia attento al tempo nel mantenere flessibili e spesso piuttosto ridotte le dimensioni di una giornata; inoltre, era consuetudine dipingere il letto del mosaico prima di iniziare ad applicare le tessere, per impedire l'effetto opacizzante del letto di positura bianco. In altri termini, per tutta l'epoca tardoantica, nell'Alto Medioevo e nel Medioevo maturo ogni mosaicista aveva familiarità con entrambi i sistemi. Ciò vale anche per i primi maestri di 'buon fresco', che erano tanto mosaicisti quanto pittori. Sebbene la teoria 'tecnica' sembri particolarmente ragionevole, essa non è stata accolta con simpatia dagli storici dell'arte, che hanno preferito vedere l'avvento del 'buon fresco' intorno al 1300 con gli occhi di Vasari (Le Vite, I, 1966, p. 128), come recupero di una tecnica antica, perduta nel corso del Medioevo e fatta rinascere dai grandi maestri del Trecento italiano, i "vecchi moderni": accogliendo tale teoria Tintori e Meiss (1962) contribuirono a mantenere una falsa divisione tra tecniche murarie classiche e medievali.È improbabile che esistesse tale discontinuità. Mentre i pittori murali romani preferivano, come quelli medievali, dipingere mentre l'intonaco era fresco, nella p. murale antica non si hanno testimonianze circa l'uso di numerose giornate di forma irregolare, un segno caratteristico di 'buon fresco'. Laddove sono documentate cesure esse sono dritte, piuttosto distanti e generalmente orizzontali come linee determinate dai ponteggi (Scandurra, 1983) e la relativa rarità delle cesure verticali è stata riconosciuta anche da Ling (1991). Come i loro successori altomedievali e bizantini, i pittori romani per lo più avevano la sicurezza di portare velocemente a termine ampie sezioni, preferibilmente sull'intonaco fresco, e, dove ciò era impossibile, con l'adozione di ulteriori tecniche basate su mezzi organici come la caseina, la colla (Davey, Ling, 1982), o una tempera di calce, con un procedimento definito da alcuni studiosi 'semifresco' (De Vos, 1983).Esistevano certamente eccezioni. Nella casa di Livia a Roma sono state osservate suture sia orizzontali sia verticali (Cagiano de Azevedo, 1949) e per i vari elementi della decorazione vennero utilizzati diversi spessori di intonaco, di una qualità più fine nelle parti caratterizzate da una maggiore attenzione ai dettagli e nei riquadri a soggetto mitologico; tale procedimento, che non aveva solo implicazioni economiche, indica la presenza di specializzazioni all'interno delle botteghe. È possibile ipotizzare l'esistenza di un analogo genere di specializzazione in alcune botteghe altomedievali, in virtù di esempi quali la cappella di Teodoto in S. Maria Antiqua a Roma, la cripta di Epifanio in S. Vincenzo al Volturno (Mitchell, 1993) e la torre del monastero di S. Maria a Torba, presso Gornate Olona (prov. Varese; Bertelli, 1988a), dove figure di donatori vennero dipinte su un sottile strato di intonaco a parte dopo che la superficie circostante era stata completata; indizi di una specializzazione analoga sono stati individuati anche nella p. bizantina, dove volti e mani venivano dipinti - presumibilmente da specialisti - dopo gli sfondi, gli arredi e i panneggi (Winfield, 1968). La p. della lunetta nella chiesa inferiore di S. Martino ai Monti a Roma rappresenta un'altra deviazione dal consueto approccio dei pittori murali romani e altomedievali: in questo caso la costruzione della superficie dipinta procedeva lentamente, pennellata per pennellata; il pittore lavorava comunque quasi fin dall'inizio sull'intonaco asciutto e non aveva motivi per stendere velocemente gli strati di base su una superficie più ampia possibile.A causa dell'uso della tecnica mista, nella p. romana e altomedievale sono frequenti le lacune della superficie pittorica, particolarmente gravi nei monumenti medievali perché coinvolgono più strati di pittura. In alcune p. medievali tuttavia non soltanto lo strato di superficie, ma anche i pigmenti sottostanti sono andati perduti. È perciò possibile che i pittori romani disponessero di metodi migliori per mantenere fresco il loro intonaco e per aumentare il numero degli strati di pigmento saldamente legati alla superficie pittorica; è anche possibile che essi utilizzassero, per gli strati superiori, materiali di natura organica. I pittori altomedievali, d'altra parte, amavano le brillanti lumeggiature bianche, costituite non soltanto da bianchi inerti, ma anche da una certa quantità di calce viva, che, segno delle più rifinite decorazioni murali altomedievali in Italia e nelle regioni alpine, sono sfortunatamente in gran parte perdute. La perdita delle lumeggiature, frequente nella p. murale dell'epoca, rende difficile la valutazione delle opere. È comunque talvolta possibile ricavare informazioni sull'originario aspetto di una decorazione tramite estrapolazione, giacché si hanno talvolta casi di zone ben conservate persino in contesti estremamente danneggiati; in altri casi le tracce e le forme in negativo lasciate dalle lumeggiature perdute permettono di ricostruire le loro forme originarie.Nella cripta di S. Vincenzo al Volturno, la testa, il petto e le mani dell'abate Epifanio sono chiaramente i momenti meglio conservati dell'intera decorazione, con un completo dispiegamento di lumeggiature ancora esistenti, forse perché il ritratto venne dipinto sull'intonaco. Sebbene probabilmente opera di un pittore specializzato (Belting, 1968), il ritratto dovrebbe essere utilizzato come chiave di lettura per l'uso analogo delle lumeggiature nell'intera cripta, poiché se ne ritrovano dappertutto deboli tracce (linee diritte lungo le pieghe, serie di punti o di brevi pennellate parallele, oppure motivi disposti radialmente sugli zigomi), e lumeggiature dello stesso genere sono caratteristiche anche delle p. murali, recentemente scoperte, del monastero stesso (Mitchell, 1985): esse costituivano evidentemente un elemento caratterizzante della scuola di S. Vincenzo.In altri casi le lumeggiature originarie possono essere ricostruite perché hanno lasciato tracce singolari, dovute forse al fatto che i pittori altomedievali usarono calce viva per i bianchi. Dionisio da Furnà nell'Ermeneutica della pittura (sec. 18°) invita i pittori bizantini ad assaggiare i loro bianchi per stabilirne l'alcalinità; se la calce era ancora viva essa poteva reagire con i pigmenti sottostanti e produrre un effetto di affresco in negativo, legando gli strati inferiori dei pigmenti ai bianchi dello strato superiore. Questo poté avere come conseguenza in alcuni casi il consolidamento dei bianchi (Winfield, 1968), mentre in molti altri l'effetto risultò deleterio, in quanto le lumeggiature, staccandosi, trascinarono con sé i pigmenti sottostanti, come si può osservare nella decorazione a ovuli intorno alla lunetta della chiesa inferiore di S. Martino ai Monti a Roma (Davis-Weyer, Emerick, 1984), nell'iscrizione in S. Salvatore a Brescia (Jacobsen, 1985), nel S. Giovanni a Müstair, nel manto di Cristo che riposa nella scena della Tempesta del lago in St. Georg a Oberzell (Erdmann, 1983) e nell'abbazia di Farfa (McClendon, 1987). In alcuni casi - Müstair, Oberzell e Farfa - dovevano far parte delle p. originarie brillanti lumeggiature bianche stese con vistose pennellate al di sopra degli altri pigmenti; le tracce lasciate dalla loro scomparsa sono talvolta estremamente strutturate e comprendono forme a pettine e ad angoli.A Müstair analoghe tracce sono state descritte come disegni in negativo (Emmenegger, 1986); la loro presenza è di sostegno all'ipotesi dell'esistenza, anche in questo ciclo, di lumeggiature bianche di considerevole entità. Piccole tracce se ne possono individuare, in particolar modo, in alcuni lacerti, liberati dai vecchi restauri (Zurigo, Schweizerisches Landesmus.; Wüthrich, 1980): come a S. Vincenzo al Volturno esse consistevano in lunghe pennellate rettilinee situate lungo le pieghe, in serie di brevi pennellate parallele, in file di punti posti lungo la cresta di pieghe grandi e in piccole pennellate radiali al di sopra degli zigomi. Lo stretto legame tra le p. murali carolinge di S. Vincenzo al Volturno e quelle di Müstair non è limitato a una specifica applicazione delle lumeggiature, ma può essere dimostrato in numerosi modi e implica aspetti diversi, quali particolari di carattere fisionomico e tecniche identiche di imitazione del marmo; l'individuazione di tale legame (Mitchell, 1985; 1993) costituisce una delle poche certezze in questo campo di studi.Lumeggiature analoghe caratterizzavano anche le p. di S. Salvatore a Brescia, a giudicare da quanto resta della superficie pittorica originaria. Esse possono essere osservate inoltre su un frammento proveniente da Malles (Bolzano, Mus. Civ.; Rasmo, 1981) e ne è stata individuata l'eco in S. Martino a Serravalle Valdisotto (Bertelli, 1986); anche le p. murali di St. Georg a Oberzell e di St. Silvester a Goldbach erano un tempo caratterizzate da simili lumeggiature. In realtà la tecnica delle lumeggiature tipica dei pittori altomedievali era così ben consolidata in Lombardia che alcuni dei suoi elementi si sono conservati in S. Pietro al Monte a Civate (prov. Como; Demus, 1968) e in esempi affini della Spagna, come la decorazione romanica di Sant Quirze a Pedret (Demus, 1968), fino al tardo 11° e all'inizio del 12° secolo.Un altro esempio di questo gruppo con legami specifici con Müstair, S. Vincenzo al Volturno e S. Salvatore a Brescia è costituito dalle enigmatiche e splendide p. di S. Maria foris portas a Castelseprio. Un possibile legame tra Castelseprio e Brescia è stato individuato (Peroni, 1983) nel confronto tra il disegno preparatorio della Fuga in Egitto di Brescia con l'Andata a Betlemme di Castelseprio, dove i pittori utilizzarono inoltre tecniche di lumeggiature simili a quelle osservate in S. Vincenzo al Volturno e un tempo presenti a Müstair, per es. strette pennellate lungo orli e pieghe, serie di brevi pennellate parallele o di punti lungo la cresta di ampie pieghe (Davis-Weyer, 1987). Lumeggiature vistose e molto strutturate indicano generalmente un'influenza bizantina e il carattere bizantino di tali lumeggiature a Castelseprio appare subito chiaro. In altri membri di questo gruppo la stessa tecnica appare fusa con un diverso linguaggio, come nei casi di S. Vincenzo al Volturno, Müstair e S. Salvatore a Brescia, nei quali i visi dalla tipologia generica, i corpi compatti e le vesti strette evocano lo stile delle figure del c.d. codice di Egino (Berlino, Staatsbibl., Phill. 1676), eseguito a Verona tra il 796 e il 799 (Camille, 1994).La p. a strati (tecnica tipica dei pittori romani) fu un procedimento ampiamente utilizzato che poteva produrre una molteplicità di esiti. È stato dimostrato (Winfield, 1968) che i pittori bizantini organizzarono la tecnica di stesura della materia pittorica tipica della p. murale romana in un idioma che era al contempo economico, chiaro e significativo. Quest'ultimo attributo merita di essere posto in evidenza poiché tale tecnica limitava il numero dei pigmenti e ne regolava l'applicazione; un tale vocabolario può indurre a proporre falsi paralleli con esempi provinciali o altri di carattere primitivo, ma tali confronti non tengono conto del fatto che i pittori tentavano di trasmettere informazioni complesse e specifiche sull'atteggiamento delle figure, sulle vesti e sui loro dettagli, sul gioco reciproco di luci e ombre sulle varie superfici. Basando l'analisi principalmente su esempi medio e tardobizantini è stato anche possibile dimostrare che tale tecnica era in una certa misura in accordo con le procedure descritte poco dopo il 1100 da Teofilo (De diversis artibus, I, 14; Winfield, 1968). Tale corrispondenza e la datazione relativamente tarda del materiale esaminato sottolineano il carattere bizantino della p. romanica piuttosto che di quella altomedievale, ma numerosi pittori altomedievali in Occidente, sia latini sia greci, utilizzarono metodi tra loro molto simili. In termini più esatti è possibile definire bizantineggiante il loro idioma pittorico, non per distinguerlo da altre contemporanee correnti occidentali, ma perché lo stile in questione doveva diventare la lingua franca della p. murale mediobizantina e perché questa maniera fece la prima comparsa in Occidente in ambienti bizantini di Roma.I pittori che si esprimevano in tale linguaggio durante l'Alto Medioevo in gran parte lavoravano in Italia, specialmente in Lombardia e nelle regioni alpine. Ne risulta una maggiore difficoltà nel distinguere le p. murali italiane di epoca romanica da quelle altomedievali precedenti, rispetto a quanto avveniva in altre parti dell'Europa. S. Pietro al Monte a Civate (Demus, 1968), con i suoi legami con la p. altomedievale in Lombardia, è un caso esemplare; significativa è anche la difficoltà di assegnare date convincenti alle p. murali delle catacombe di S. Ermete (Osborne, 1985) e della chiesa di S. Urbano alla Caffarella a Roma (Busuioceanu, 1924; McClendon, 1987; Williamson, 1987), nonché a quelle del campanile dell'abbazia di Farfa (Premoli, 1974-1975; McClendon, 1987), a causa del fatto che modelli bizantineggianti erano conosciuti nella p. murale dell'area italiana molto prima della seconda metà dell'11° secolo. Analoghe incertezze risultano, per motivi diametralmente opposti, nel caso di numerose p. del sec. 11° dell'Inghilterra meridionale, a causa della mancanza di una tradizione pittorica altomedievale riconoscibile alla quale ricondurle e che complica la definizione della loro cronologia (Park, 1990).La maniera bizantineggiante della p. murale, utilizzata dai pittori altomedievali e romanici, è sia riduttiva sia altamente strutturata. Invece di creare una progressione di tonalità medie, il numero dei pigmenti è generalmente ridotto a tre o quattro nel caso di tessuti e a cinque o sei nel caso di volti; i pigmenti comprendono sempre un colore molto scuro e un altro molto luminoso, in molti casi un bianco brillante. Nonostante il loro numero ridotto, essi toccano gli estremi della gamma dei chiari e degli scuri e permettono al pittore di creare l'illusione del rilievo, sebbene in certa maniera artificiale e discontinuo. I pigmenti, mescolati raramente, venivano applicati in modo da renderne estremo il contrasto, salvo alcune eccezioni (Winfield, 1968). Distinte dal tono medio, le lumeggiature e le ombre si presentano come linee diritte che sfiorano i corpi come tangenti piuttosto che aderire alle loro superfici, mentre le forme triangolari, appuntite e a pettine, tendono a rimpiazzare forme arrotondate e continue. Questo vocabolario è stato descritto frequentemente, mentre solo raramente sono stati discussi due dei suoi più importanti aspetti, la chiarezza e il retroterra classico.A causa del numero ridotto di pigmenti utilizzati e per il modo in cui essi erano applicati, le tecniche descritte (Winfield, 1968) e adottate dai pittori altomedievali rivelano in modo molto chiaro il procedimento con il quale veniva realizzata la p., in taluni casi talmente manifesto che chiunque avesse un minimo di esperienza nel campo dovrebbe essere in grado di ricostruirlo solo osservandone il risultato finale. D'altra parte un pittore, anche di talento limitato, poteva sicuramente produrre un'immagine tipo una volta che fosse stato in grado di padroneggiare il processo. A un altro livello, insegnare ai pittori metodi standardizzati ne rendeva più facile il controllo sulle loro opere. Si potrebbe dire che tali pittori e i loro predecessori altomedievali impiegassero un linguaggio pittorico costituito da omissioni attentamente selezionate. Nel sottolineare le discontinuità di colore e forma essi informavano il loro pubblico in modo selettivo, circa i soggetti dipinti, confidando sulla capacità degli osservatori di completare e integrare l'informazione visiva di una tipologia piuttosto abbreviata, ma sistematica. In altre parole, il pittore si rivolgeva a osservatori che avevano familiarità con la tradizione classica della rappresentazione pittorica e consuetudine con le sue varie forme abbreviate. Questo indicherebbe di per sé che tale genere di approccio era radicato nella tradizione antica. Molte delle strutture tipiche di questo linguaggio possono, in realtà, essere ritrovate nella p. classica. È stato dimostrato (Bertelli, 1983) che le serie dei piccoli punti che segnalano riflessi di luce intermittenti sono comuni anche nella p. classica, come anche le lumeggiature, le ombre rettilinee e la serie di piccole pennellate parallele, come mostra l'immagine di Enea ferito (Napoli, Mus. Archeologico Naz.). In ogni caso nella p. classica tali formazioni appaiono casualmente e senza una sistematica reiterazione, fatto che è invece tipico delle tendenze bizantineggianti della p. altomedievale.Nonostante il suo retroterra classico, la tecnica bizantineggiante nella p. occidentale non è il risultato di una semplice sopravvivenza, ma un fenomeno di importazione o di reimportazione da altre regioni dell'impero e, in particolare, dalla sua capitale, Costantinopoli.Le p. murali romane del sec. 6° non mostrano segni di questo particolare sistema 'abbreviato', ma proseguono secondo la maniera 'post-teodosiana'. A Roma, la p. di Turtura nella catacomba di Commodilla (Russo, 1979; Osborne, 1985), la Maria Regina di S. Maria Antiqua (Romanelli, Nordhagen, 1964), la p. della lunetta nella chiesa inferiore di S. Martino ai Monti (Davis-Weyer, Emerick, 1984) e l'immagine dei Ss. Pollione, Pietro e Marcellino nella catacomba di Ponziano (Osborne, 1985) trovano puntuale confronto con i mosaici più o meno contemporanei di Ravenna, come quello della seconda fase del battistero degli Ariani (Deichmann, 1958-1989) e alcune delle figure più arcaizzanti a S. Vitale (Deichmann, 1958-1989), dove ricorre un simile linguaggio, con le pieghe e i contorni rappresentati da lunghe linee dolcemente curve e parallele: ciò non dovrebbe destare sorpresa, perché Ravenna era la capitale d'Occidente e anche per i più bei mosaici romani del sec. 6°, quelli in Ss. Cosma e Damiano, si riscontrano forti affinità con i mosaici ravennati, per es. quelli della prima fase del battistero degli Ariani (Deichmann, 1958-1989): è anche possibile che l'arte di Ravenna abbia influito sull'iconografia del ciclo cristologico nella chiesa inferiore di S. Martino ai Monti (Davis-Weyer, Emerick, 1984).Ci si aspetterebbe una prima ondata di influenze orientali dopo le guerre gotiche. L'Annunciazione della parete palinsesto di S. Maria Antiqua a Roma, che dovette essere dipinta immediatamente dopo l'apertura dell'abside e la parziale distruzione della sottostante immagine della Maria Regina tra il 565 e il 578 (Krautheimer, 1937-1980; Kitzinger, 1977), appartiene a quest'epoca (Romanelli, Nordhagen, 1964): non vi sono segni della futura maniera bizantineggiante e del suo 'linguaggio di omissione' (Nordhagen, 1978), ma alcuni dei motivi propri di questo linguaggio figurativo (pieghe e contorni diritti e discontinui, soppressione di toni intermedi, lumeggiature di forma astratta) compaiono nei panneggi della madre dei Maccabei (Nordhagen, 1978) e di S. Anna nella stessa chiesa; ma per nessuna di queste opere la datazione è indiscussa (Romanelli, Nordhagen, 1964; Kitzinger, 1977).Si hanno maggiori sicurezze per la metà del sec. 7°, quando ecclesiastici ed esiliati greci affollarono Roma e iniziarono a favorire artisti che dimostravano familiarità con i recenti sviluppi metropolitani della ritrattistica. I singolari e acuti ritratti dei Ss. Primo e Feliciano nei mosaici di S. Stefano Rotondo segnano l'avvento dello stile ritrattistico eracliano a Roma (Matthiae, 1950; Davis-Weyer, 1989); la testa di S. Giovanni Crisostomo con il sopracciglio angolato e la fronte segnata da rughe, relativa alla decorazione posteriore al 649 di S. Maria Antiqua (Brenk, 1967; Nordhagen, 1978), appartiene allo stesso contesto, così come i singolari ritratti dei Ss. Sisto, Ottato, Cornelio e Cipriano nelle catacombe di Callisto (Osborne, 1985) e, forse, l'icona del Pantheon (Amato, 1988). In questo gruppo di dipinti compaiono ancora poche tracce della tipica 'abbreviatura' bizantineggiante, salvo piccole ombre e lumeggiature a pettine, che possono essere viste sia come una sua anticipazione sia come eco dei suoi precedenti classici, per es. la mano destra di Ottato e il mantello di Cornelio nella catacomba di Callisto. Strutture identiche, definite 'a spina di pesce' (Bertelli, 1983), si ritrovano anche nei piccoli dipinti sul verso del dittico di Boezio (Brescia, Civ. Mus. Cristiano), posteriore al 604, e nel fregio con la storia dei Sette dormienti rinvenuto negli ambienti sottostanti la chiesa di S. Maria in via Lata a Roma (Righetti Tosti-Croce, 1989). È negli affreschi di Giovanni VII a S. Maria Antiqua e specialmente nel ciclo cristologico della chiesa inferiore di S. Saba (datati al 650 ca. o al sec. 8°) che l'abbreviatura bizantineggiante, con il gusto per le lumeggiature bianche e le forme angolari, acquista una posizione preminente. A causa del loro cattivo stato di conservazione, le testimonianze offerte dalle p. murali di Giovanni VII sono modeste e consistono in pochi frammenti di ridotte dimensioni (la tunica di Simone di Cirene, le vesti di s. Andrea e di s. Giovanni nei clipei); in S. Saba, al contrario, gli esempi sono numerosi, specialmente nel gruppo di apostoli della Guarigione del paralitico, dove ricorrono dappertutto lumeggiature rettilinee, triangolari, a pettine e spezzate e dove sono state impiegate in una maniera tale da anticipare le tipologie mediobizantine. Una volta radicatosi, l'idioma sopravvisse alla separazione di Roma da Costantinopoli e continuò a essere utilizzato in maniera in qualche modo ridotta fino al terzo quarto del sec. 8°: il fregio dei Padri della Chiesa nella navata sinistra di S. Maria Antiqua è tra le sue più tarde manifestazioni.Ci furono ovviamente ulteriori contatti con Bisanzio. Questo è chiaramente il caso del pittore di Castelseprio, i cui legami con il mondo greco possono essersi creati nella Milano del 9° secolo. Un altro gruppo di pittori bizantineggianti attivi nel Salento (Carpignano Salentino, cripta delle Ss. Marina e Cristina, p. votiva del presbitero Léon e di Crysolea, 959 ca.; Belting, 1968), nel Beneventano (Cimitile, basilichetta dei Ss. Martiri; Belting, 1962) e nella Roma tardocarolingia (S. Clemente, Discesa agli inferi; Osborne, 1981; S. Maria de Gradellis, 872-882; Lafontaine, 1959) fa uso di figure piene di energia, con le teste quasi caricaturali e con vestiti aderenti, dalle superfici coperte da fitti motivi di luci e ombre, spesso malintesi e privi di significato.Confronti con le p. della Cappadocia (Lafontaine, 1959; Belting, 1968) sono sembrati fuorvianti, ma lo sono meno a partire dalla pubblicazione dei mosaici degli appartamenti patriarcali della Santa Sofia a Costantinopoli (Cormack, Hawkins, 1977) e con la datazione all'885 ca. dei mosaici della cupola della Santa Sofia a Salonicco (Cormack, 1980-1981). Alcuni dei volti meno raffinati dei mosaici costantinopolitani e i motivi del panneggio, spesso privi di logica e ripetitivi, nei mosaici di Salonicco mostrano come l'iconoclastia ebbe il proprio prezzo; è possibile che tale fase, in qualche modo atipica, dell'arte bizantina metropolitana abbia influenzato i pittori della Cappadocia (Thierry, 1965; Wharton Epstein, 1986; Wharton, 1988), come pure quelli romani e dell'Italia meridionale nel tardo 9° e nel 10° secolo. Una Bisanzio molto diversa dovette invece ispirare le eleganti e lontane figure del battistero di Novara e l'abside di Ariberto d'Intimiano in S. Vincenzo a Galliano, del 1007 ca. (Demus, 1968); nell'impostazione tecnica, tuttavia, queste p. rimangono saldamente legate a più antiche tradizioni italiane.Un'apparente differenza tra la p. murale di età classica e quella altomedievale riguarda la proporzione tra gli elementi decorativi e quelli iconografici; nella p. murale classica i primi rivestono un ruolo più ampio dei secondi e i passaggi tra le due sfere sono più graduali che non nei dipinti altomedievali, nei quali l'iconografia tende a occultare gli aspetti decorativi. Tale distinzione può tuttavia risultare più apparente che reale, poiché l'idea che ci si crea della p. classica è determinata dai dipinti che si trovano in case private, nei quali gli schemi decorativi risultavano prevalenti; la p. dei luoghi pubblici, come il santuario del Tetrarca a Luxor, in Egitto, doveva essere invece ispirata dallo stesso intento di indottrinare il pubblico e le p. del sec. 3° della sinagoga di Dura Europos in Siria attestano un analogo atteggiamento (Kraeling, 1956).Nonostante questa generale enfasi sul messaggio e sull'iconografia, esistono alcune decorazioni altomedievali che restano interamente, o in larga misura, aniconiche e che hanno un sapore particolarmente classico. Analogamente ai loro predecessori romani, i pittori altomedievali potevano allargare un cortile con vedute di giardini, come in S. Vincenzo al Volturno (Riddler, 1993), oppure nobilitare contesti architettonici con fregi ornamentali, come nella cripta e negli ambienti a essa soprastanti della prima fase dell'abbaziale di Corvey, tra l'822 e l'844 (Claussen, Exner, 1990), e con ulteriori particolari architettonici, come nella chiesa occidentale di Corvey. Si poteva arredare una semplice stanza con colonne dipinte, architravi e plinti marmorei, come nella Torhalle di Lorsch (Claussen, Exner, 1990), oppure collocare un architrave con mensole viste dal basso al di sotto di un soffitto ligneo, come nella chiesa di Eginardo a Steinbach (Claussen, Exner, 1990). Similmente ai pittori romani del secondo stile, essi potevano anche utilizzare prospetti architettonici per trasformare un interno, come nel caso di San Julián de los Prados, detto Santullano, a Oviedo (primo quarto sec. 9°; Schlunk, Berenguer, 1957).Elementi architettonici, finti rivestimenti di marmo, colonne e architravi dipinti e prospetti architettonici erano stati un soggetto basilare per la p. murale romana e le vedute di giardini, uccelli e piante, recinzioni, transenne, cortine, i fregi prospettici e i finti tendaggi da muro utilizzati in età altomedievale facevano parte dello stesso vocabolario, ma è singolare il momento in cui essi apparvero nella p. murale. È stato dimostrato (Osborne, 1992) che i tendaggi dipinti sugli zoccoli delle chiese romane non discendono direttamente dai più antichi esempi classici, come il tempio repubblicano di Brescia o gli intarsi della basilica di Giunio Basso, ma sembrano invece essere giunti nella Roma altomedievale tramite Bisanzio, reintrodotti in Occidente dai pittori greci di Giovanni VII e diligentemente ripresi nel momento in cui il marmo da rivestimento era divenuto raro. È possibile che la presenza dei motivi architettonici e delle vedute con giardini nella p. del sec. 9° sia dovuta a meccanismi simili: le chiese e i monasteri in cui essi appaiono - S. Salvatore a Brescia (Panazza, 1962), S. Martino ai Monti a Roma (Wilpert, 1916), S. Vincenzo al Volturno, Corvey, Lorsch, Steinbach e Santullano - hanno in comune la datazione al 9° secolo. Motivi decorativi di origine classica e specialmente interi programmi basati su di essi avrebbero attratto gli occidentali con simpatie iconoclastiche, così come anche lo stesso insieme di motivi sarebbe stato gradito ai veri iconoclasti di Bisanzio. Ci si chiede se la ricomparsa delle vedute con giardino, dei fregi prospettici e dei prospetti architettonici in Occidente potesse essere il risultato di rinnovati contatti con Bisanzio durante il 9° secolo.Le difficoltà di datare le p. altomedievali e gli edifici cui esse appartengono sono proverbiali e richiamano l'attenzione sui limiti di una trattazione storico-artistica. Le datazioni delle p. di Castelseprio variano dal sec. 6° al 10° (Leveto, 1990), quelle di S. Salvatore a Brescia dalla metà del sec. 8° alla metà del 9°, la cronologia del tempietto di S. Maria in Valle a Cividale e del tempietto a Campello sul Clitunno resta incerta. La datazione del ciclo cristologico della chiesa inferiore di S. Saba a Roma oscilla tra la metà del sec. 7° e la fine dell'8° (Matthiae, 1965-1966), così come i dipinti murali di Santa Sofia a Benevento potrebbero appartenere a una prima decorazione oppure a qualche successivo restauro nel corso del sec. 9° (Belting, 1968) e quelli di St. Georg a Oberzell, a lungo ascritti al periodo intorno al Mille, sono stati riassegnati a epoca tardocarolingia (Koshi, 1991).Esistono numerose ragioni che spiegano questo stato di cose, una delle quali consiste nel fatto che due delle più ambiziose e accurate imprese portate avanti dagli studiosi, l'analisi del tempietto di S. Maria in Valle a Cividale (L'Orange, Torp, 1977-1979) e quella del tempietto a Campello sul Clitunno (Emerick, 1985), sono state intraprese per monumenti dalla datazione incerta, mentre non è mai stata esaminata la stratigrafia delle p. murali di Santa Sofia di Benevento, un edificio la cui datazione è sicura.Il dibattito si complica ulteriormente perché implica due visioni tra loro molto diverse della storia altomedievale. Le datazioni precoci situano i monumenti in un contesto longobardo, quelle più tarde, invece, in un contesto carolingio o post-carolingio, sollevando la questione dei contributi longobardi oppure franchi alla storia dell'arte altomedievale.Per dirimere alcune controversie gli storici dell'arte si sono rivolti ai pareri di studiosi di altre discipline (Emerick, 1985; Brogiolo, 1987b; Leveto-Jabr, 1987; Cavallo, 1988). Ciò ha portato a una cronologia al sec. 7° per S. Saba (Cavallo, 1988; Gandolfo, 1989), ai secc. 7° e 8° per il tempietto a Campello sul Clitunno e a una datazione al 9° per Castelseprio, per il quale si è ipotizzato un retroterra carolingio e milanese (Bullough, 1961); ciò nonostante, la teoria longobarda, sia pure modificata, non deve necessariamente scomparire. Anche se le più importanti p. murali dell'Italia altomedievale furono create durante il dominio carolingio, resta il fatto che Cividale, Brescia, S. Vincenzo al Volturno, Spoleto e Benevento erano tutte situate nei territori compresi, all'epoca o in precedenza, sotto il dominio longobardo (Belting, 1967).Grazie ai risultati della Arbeitsgemeinschaft für frühmittelalterliche Wandmalerei (Claussen, Exner, 1990) è stato offerto per la prima volta un catalogo conciso ed esatto della p. murale carolingia in Germania. Colpisce il contrasto tra le p. transalpine e cisalpine: le testimonianze di area italiana hanno un carattere molto uniforme e presentano i ben noti elementi decorativi con tipologie analoghe di figure e, ciò che è più importante, con livelli tecnici tra loro simili e persino identici, mentre le testimonianze dell'Europa centrosettentrionale sono prive di coesione e difficilmente si riescono a individuare decorazioni tra loro simili, poiché le p. murali costituivano esperimenti, mentre in area meridionale esse erano esercitazioni di maestranze consolidate, difficilmente costituite in Italia dai Carolingi. Il quadro non cambia, nonostante i pochi frammenti italianizzanti della ecclesia varia di Lorsch dell'876-882 e del duomo di Paderborn, dell'830 ca. (Claussen, Exner, 1990), mentre un altro esempio di influenza italiana o romana è offerto dal fregio a mensole in prospettiva della chiesa di Eginardo a Steinbach, dell'827 (Claussen, Exner, 1990). In Italia, frammenti di fregi di tal genere si sono ritrovati in S. Salvatore a Brescia (Panazza, 1962) e in S. Martino ai Monti a Roma, dell'847-855 (Wilpert, 1916): sebbene il fregio di Steinbach possa essere più antico di questi ultimi, ha un più evidente aspetto medievale perché privo di quegli elementi classici associati nell'Antichità con fregi di questo tipo, quali tende, transenne, uccelli e piante, presenti invece a Brescia e a S. Martino. La questione del perché la p. murale nell'Italia longobarda sia fiorita sotto il dominio carolingio rimane per il momento senza risposta.
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