PITSÀ
Villaggio della Grecia (nòmos di Corinzia), a occidente di Sicione e di Xylokastro, presso il Golfo di Corinto. Sopra di esso, parallelamente alla costa, si stende una montagna abbastanza alta, chiamata localmente Mavro Vunò, corrispondente con molta probabilità all'antica Chelydorea (Paus., viii, 17, 5; Bursian, Geogr. von Griechenland, ii, 182). Presso la cima di uno dei suoi contralforti, sul quale si giunge con una faticosa salita di circa un'ora e mezza, si apre la bocca di una spelonca profonda (circa 20 m), nota alle persone del luogo col nome di Grotta di Saftulis (Σπηλιά τοῦ Σαϕτουλῆς).
A seguito del casuale rinvenimento, nella grotta, di un idoletto arcaico di terracotta e frammenti di vasi, nel 1934 seguì una prima ricerca di altro materiale, e immediamente dopo una esplorazione da parte di M. Mitsós, furono ritrovate molte decine di frammenti di vasi e di idoletti e, insieme, alcuni pezzi di tavole lignee dipinte. L'importanza di questi reperti indusse a un' esplorazione sistematica, sotto la direzione di A. K. Orlandos, i cui risultati erano rimasti sin qui inediti.
1. Descrizione della spelonca. - La bocca della spelonca ha 2,25 m di altezza. Subito dopo l'ingresso, il pavimento roccioso scende ripidamente per circa 20 metri. Poi la grotta si fa molto oscura, poiché in mezzo ad essa s'innalza, quasi un muro divisorio, una roccia che regge la vòlta, lasciando da una parte e dall'altra due corridoi, che si uniscono di nuovo più in basso. Nello spazio tra la bocca e la roccia, furono trovati frammenti di vasi e di figurine, molto rovinati, a causa delle acque che stillano dall'alto. Dopo la congiunzione dei due corridoi, la pendenza cresce, e a circa 6o m dall'ingresso la vòlta della grotta appare coperta di stalattiti. A questo punto furono trovati mucchi di sassi, tolti i quali furono raccolti frammenti di vasi, di figurine e altri oggetti di diversa materia, tra i quali anche quattro pezzi di tavole dipinte (v. più avanti). I pezzi raccolti riempirono otto grandi casse che, rimaste a lungo nei magazzini del museo di Corinto, furono poi trasferite al museo di Sicione.
I reperti comprendevano: a) idoletti di terracotta. - Sono databili dal VII fino al Il sec. a. C., per quanto durò il culto nella grotta: culto continuatosi anche in età romana, come si argomenta dall'acconciatura di alcune testine di terracotta. Gli idoletti rappresentano per lo più figure femminili, meno spesso figure virili, in particolare satiri o personaggi comici d'aspetto satiresco: anche maschere a colori vivaci. Dalle iscrizioni rinvenute sulle tavole dipinte si deduce che la spelonca era dedicata alle ninfe, il culto delle quali, come è noto, era spesso congiunto con quello di Dioniso (Strab., p. 468; Plut., Lys., 28; Athen., 465a; Farnell, Cults of the States, v, 425), di cui le ninfe erano state nutrici. È tuttavia verosimile che vi si venerassero insieme anche altre divinità, soprattutto ctonie (Demetra, Kore, ecc.); probabilmente anche Ilizia, a giudicare da alcune figurine di donne incinte, o sdraiate. Bisogna notare, al proposito che anche le ninfe erano caratterizzate come divinità γενεϑλιάδες (iscrizione di un altare del Falero: Homolle, in Rev. Arch., xi, 1920, 5) e secondo Artemidoro (Onirocr., 2, 38) erano ἀγαϑαὶ πρὸς παίδων γονήν.
Accanto a figurine primitive o xoaniche, se ne hanno altre insieme a idoletti, appartenenti per stile al principio o alla metà del sec. V; non mancano tipi della prima metà del sec. IV, con strana copertura del capo circondata da fiori di papavero; altri della prima età ellenistica e del sec. III o II a. C. con la caratteristica acconciatura a melone (Melonenfrisur). Oltre alle figurine qui ricordate si rinvennero alcune composizioni, raffiguranti, per esempio un chòros, un carro tirato da sfingi, ecc.; figure di animali a tutto tondo o a rilievo (galli, colombe, cani, pecore, cavalli, tartarughe, porci, istrici, cicale, sfingi). Si trovarono anche pesi da tessitore, frutti, coni di pino, e un aröballos smaltato (faïence).
b) Vasi: si trovarono molti frammenti di vasi tra i quali uno dell'Elladico Tardo III; parecchi di stile orientalizzante. I più tuttavia sono comuni vasi (in particolare aröballoi) di produzione corinzia, della seconda metà del sec. VI a. C., tra i quali è degna di menzione una grande pisside (della prima metà del sec. VI) con un fregio rappresentante una danza di donne. Ci sono anche lèkythoi attiche a figure nere, una delle quali porta la singolare rappresentazione di un centauro che combatte con un eroe (Eracle?) sopra un pìthos, fra due donne. Restano anche pezzi di anfore e crateri a figure rosse e alàbastra alcuni dei quali di tipo cosiddetto fenicio, e infine molti piccoli sköphoi, dei cosiddetti ἔμβρνα.
c) Furono trovati anche oggetti di bronzo come vasi, dischi di specchi, braccialetti serpentiformi, anelli, un piccolo carro, un gallo, un löchnos, un'ascia, accessori varî e infine monete, soprattutto di Corinto e Sicione; una anche beotica. Di legno sono piccole pissidi con ornamenti incisi e un gruppo a tutto tondo, rappresentante una figura seduta, a sinistra, presso una stante, acefala: forse Demetra e Persefone (altezza m 0,10). Statue di legno non erano rare nei santuarî antichi (cfr. Paus., i, 27, 1; 25, 2; viii, 25, 4; 42, 3; 53, 4) e sono attestate da iscrizioni, per esempio a Delo (Inscr. de Délos, 1417 A, i col. 159). Di osso si sono trovati molti dadi. Si è rinvenuta anche una piccola base per statua, di marmo, nella parte più alta della spelonca; e dagli strati più profondi dello scavo si è tratto un pezzo di stoffa tinto di porpora.
d) Ma il più importante ritrovamento, unico nel suo genere, sono le tavole votive in legno, dipinte, preziosi esemplari di pittura arcaica, i cui colori conservano ancora il loro splendore: soprattutto in quello di cui diamo qui una riproduzione a colori. Se ne trovarono quattro esemplari: due interi, delle dimensioni di circa cm 15 × 30 (spessore 5 mm) e due frammentari, di dimensioni minori. Alla eccezionale conservazione del legno deve aver molto giovato lo strato cristallino depositatovi dall'acqua stillante.
Pinax A. - Sul migliore dei dipinti conservatoci, è rappresentato un sacrificio a cui partecipano più persone (probabilmente un'intera famiglia). L'altare è visibile all'estremità destra, e il fuoco vi è acceso (le fiamme non si distinguono nella riproduzione fotografica, ma sono visibili nell'originale). È un altare di un solo blocco, di forma rettangolare (C. Yavis, Greek Altars, 1949, p. 91), con le pareti esterne ingubbiate e dipinte ai bordi con rettangoli neri in aspetto di triglifi; la parte centrale è di colore giallastro, e su di essa sono dipinte macchie di sangue (macchie di sangue appaiono dipinte sulla raffigurazione di molti altari, soprattutto in vasi a figure rosse: cfr. Gardner, Greek Vases in the Ashmolean Museum, tav. iia; Gerhard, Auserlesene Vasenbilder, tavv. 224 e 226; Furtwängler, Beschreib. der Vasen, n. 2990, pp. 581-4; Beazley, Red-fig., p. 245; Furtwàngler-Reichhold, Griech. Vasen, i, tav. 8; i, 34; ecc.). L'altare presenta da una parte e dall'altra un alare rettangolare di pietra, senza ornamenti, nell' interno del quale è raffigurato il fornello. Simili alari di pietra (κρατευταί: cfr. Hom., Il., i, 214; Etym. M., p. 535, 20; Hesych., s. v.) sono rappresentati in un vaso a figure nere, contemporaneo alla nostra pittura (550-540), di Olinto (D. M. Robinson, Olynthus, v, p. 69, fig. 2 e tav. 46 b), su una pisside a figure nere di Cuma (E. Gabrici, in Röm. Mitt., 1912, tav. 27; A. B. Cook, Zeus, i, fig. 179) e su un vaso del museo di Copenaghen (C. V. A., Danmark, fasc. 4, tav. 150, 2 b); più tardi lo incontriamo in anfore àpule di Ruvo (Heydemann, Vasensammlung von Neapel, p. 547, n. 3223; Cook, Zeus, i, p. 511, fig. 380). Immediatamente presso l'altare sta, rivolta verso di esso, una fanciulla, che porta lo stretto peplo dorico senza maniche, di colore azzurro chiaro (cobalto), con bordature bianche ornate da meandri, e sopra un lungo himàtion rosso, senza ornamenti. La fanciulla, coronata con un ramo di mirto, regge nella sinistra un largo disco di terracotta con bordi rialzati, entro il quale sono collocati simmetricamente gli oggetti necessarî al sacrificio, cioè una grande pisside cilindrica nel mezzo e ai lati due oinochòai con lungo collo; nella destra tiene la prochòos per le libagioni. A lato di essa un po' indietro sta un fanciullo, coronato anch'esso, vestito solo di un himàtion rosso che lascia nuda la spalla e il braccio destro. Il fanciullo porta, legata con una corda rossa, una pecora, la vittima, il cui pelame è rappresentato schematicamente con triangoli o rombi piccoli e fitti. Seguono due altri giovani, che portano lo himàtion allo stesso modo del fanciullo e sono ugualmente coronati con rami. Sono questi i musici che accompagnano la cerimonia: il primo di essi, infatti, porta e tocca la lyra a sette corde, l'altro suona il doppio flauto, legato alle guance con la phorbeià. I musici sono seguiti da tre donne in fila, che hanno appena fermato la marcia lenta e ritmica verso l'altare, perché il sacrificio cominci. Le due prime, coronate con rami, indossano lo stretto abito dorico, azzurro con bordatura bianca semplice o ornata di greca, e su di esso un himàtion rosso. Con la destra portano rami fronzuti, stretti da bende, e tendono in alto, in segno di venerazione, la mano sinistra con le dita piccolissime e unite. La terza ed ultima figura, mancante della testa, è tutta avvolta nello himàtion azzurro; porta tuttavia anch'essa un ramo nella sinistra coperta, e ha la destra leggermente protesa al disotto dello himàtion. Sopra ciascuna figura, secondo l'uso tanto frequente nei vasi corinzî, è scritto il nome, in dialetto dorico, ma nell'antico alfabeto corinzio, come nei pìnakes fittili corinzî di Berlino. Il nome della donna che sta in piedi a sinistra, probabilmente la madre, non si legge più; la seguente si chiama Euthydika, e l'altra Eukolls. Infine il nome della donna che sta vicino all'altare si deve leggere probabilmente: Ethelonche.
Dopo il nome della seconda fra le donne che stanno a sinistra si legge la frase... ἀνέϑεκε ταῖς νύμϕαις, mancante della prima parte che doveva contenere il nome dell'offerente, probabilmente una donna. Infine un'altra iscrizione, anch'essa mutila, nell'angolo superiore destro del quadro, dice.... o Κορίνϑιος; conteneva probabilmente il nome del pittore (v. Tavola a colori).
Esaminiamo ora la tecnica e lo stile: il fondo è interamente bianco (ora leggermente ingiallito), ottenuto con gesso sciolto in una sostanza collosa. Su questo fondo, con mano sicura e perfetta conoscenza delle proporzioni del corpo umano, furono disegnati prima i sottili contorni delle figure, rossi per le carni femminili, neri per i vestiti, come nelle metope di Thermos. Le superfici, internamente ai contorni, furono riempite poi con uno strato di colore unito, bianco per le parti nude delle donne, rosa per quelle dei fanciulli. I chitoni e gli himàtia sono tinti rispettivamente in azzurro e rosso cupo, in nero le capigliature degli uomini e delle donne, in verde (ora giallo) i rami dei supplici e le corone di foglie. Infine gli alari dell'altare sono colorati in violetto scuro, le lastre della base e del coronamento in azzurro; il corpo centrale porta alle estremità due triglifi neri; mentre la superficie tra questi fu lasciata giallastra. Abbiamo dunque in complesso sei o sette colori; una vera e propria policromia, a confronto dei quattro colori che incontriamo nei pìnakes di terracotta e nei vasi. I colori, minerali, conservano meravigliosamente la loro lucentezza.
Come nelle contemporanee opere di ceramica, anche qui le figure sono allineate sul fondo senza alcun tentativo di rendere la profondità. La rappresentazione è lineare e piana, senza rilievo di particolari anatomici, con l'occhio di prospetto, senza gradazione di toni che valga a creare una distinzione di valori tra le varie superfici. In altre parole i corpi sono rappresentati senza plasticità, dominando una concezione strettamente decorativa; soltanto l'accentuazione delle curve del coro dà in qualche modo il senso del suo volume (si veda in particolare la figura femminile di mezzo). Analoghe condizioni incontriamo in alcuni vasi calcidesi arcaici (vaso B 155 del British Museum: cfr. A. Rumpf, Chalkidische Vasen, tav. xv; vaso n. 315 di Würzburg: ibid., tav. xxxi; hydrìa n. 41 del Fitzwilliam Museum: ibid., tav. xvii).
Nel nostro quadro peraltro si osserva già un piccolo progresso: sono timidamente rappresentate, negli himàtia, le estremità raddoppiate delle pieghe. Tale raddoppiamento non è visibile nelle opere di ceramica del primo venticinquennio del sec. VI (cratere con simposio di Eurytios: Buschor, Griech. Vasen, fig. 75; cratere corinzio con la partenza di Anfiarao: Buschor, tav. 82), né in quelle del secondo venticinquennio (vaso con il corteo nuziale di Peleo: Furtwängler-Reichhold, Griech. Vasenmal., tav. I; Buschor, fig. 117) si incontra invece in opere di Exekias, del terzo venticinquennio del sec. VI, come per esempio nell'anfora del Vaticano (Buschor, fig. 117) rappresentante il ritorno dei Dioscuri; più chiaramente ancora nell'ultimo venticinquennio del sec. VI, nell'anfora a figure rosse di Parigi di stile severo, di Oltos e Pamphaios (Buschor, fig. 137: cfr. E. Langlotz, Zur Zeitbestimmung der strengrotfigurigen Vasenmalerei, 32). In generale, come grado di sviluppo tecnico, le figure più vicine alle nostre sono quelle del secondo Lydos, di Amasis e di Exekias.
Il tipo della kòre ionica non ha ancora influenzato le nostre figure come le corrispondenti dei vasi calcidesi (ad esempio quelle del cratere di Würzburg con l'addio di Ettore); ma la naturalezza con cui lo himàtion lascia apparire il seno al di sotto del peplo è senza dubbio caratteristica di una sensibilità "dorica" quale è rappresentata dalle kòrai con lo himàtion trasverso. Tenuto conto delle differenze con la grande plasticà, le nostre figure sono molto vicine alla Kòre con peplo dell'Acropoli (Payne-Young, Archaic Sculpture from the Acropolis, p. 18, fig. 29; U. Schrader, Die archaischen Marmorbildwerke der Akropolis, tav. 3).
Alla datazione del nostro dipinto può dare aiuto anche la forma dei vasi usati per il sacrificio, non tanto il disco stesso, quanto gli oggetti in esso contenuti, cioè la grande pisside cilindrica e le due oinochòai a base conica e lungo collo, che s'incontrano già nel periodo corinzio antico (625-6oo) e di mezzo (600-575 a. C.; cfr. Payne, Necrocorinthia, per la pisside p. 294, fig. 131, n. 672; per le oinochòai p. 299, fig. 136, n. 758; per il disco p. 312, fig. 154); e così la prochòos o oinochòe che tiene la sacrificante. La singolare forma di questo vaso, simile alla oinochòe che il Payne (op. cit., n. 1472, p. 326, tav. 542, nn. 2 e 3) data al secondo venticinquennio del sec. VI, si presenta qui più snella: sembrerebbe dunque alquanto più recente, da ascriversi al terzo venticinquennio del sec. VI. Negli ultimi decenni dello stesso secolo, questa forma appare anche in Attica (Pfuhl, Malerei und Zeichnung, iii, fig. 788; Th. Lau, Die griech. Vasen, tav. 15; Beazley, Black-fig., p. 440, Pittore del Louvre F 118), con la sola differenza che ivi la base è la consueta. La forma della base nella nostra prochòos è assolutamente caratteristica e s'incontra più frequentemente in hydrìai laconiche (Buschor, op. cit., fig. 88), soprattutto in quelle di Caere (Lane, Greek Pottery, figg. 58 e 59) che appartengono al terzo venticinquennio del VI sec. a. C.
In base agli elementi fin qui esaminati, il nostro quadro appare databile al terzo venticinquennio del sec. VI, probabilmente agli anni tra il 540 e il 530 a. C.; e con questa datazione si accorda perfettamente la forma delle lettere delle iscrizioni.
Pinax B. - Sopra una tavola larga m 0,093, alta m 9,152, sono rappresentate tre donne stanti, volte verso destra: ne resta soltanto il corpo e le estremità nude dei piedi, sulle quali si distinguono le corregge che tengono ferme le suole dei sandali. Tutte e tre le figure portano il chitone podères, e sono avvolte in un unico himàtion purpureo: rappresentazione di significato rituale che si incontra spesso in vasi arcaici (gli esempî relativi sono raccolti da M. Guarducci, in Ath. Mitt., iii, 1928, p. 52 ss.); lo himàtion, trapunto di stelle chiare, termina lateralmente con la caratteristica curva parabolica che troviamo spesso nelle pitture vascolari arcaiche (per esempio nel cratere di Eurytos, del principio del sec. VI: cfr. Buschor, Griech. Vasen, fig. 74; nell'hydrìa calcidese n. 45 del Fitzwilliam Museum; cfr. Rumpf, Chalkidische Vasen, tav. xvii; nello psyktèr della raccolta Castellani in Roma: cfr. Rumpf, op. cit., tav. cxviii, n. 111). Questa curva dello himàtion è ornata di una bordatura con meandro e stretta striscia, mentre sulla superficie dello himàtion stesso, con evidente influsso orientale (Fr. v. Lorenz, in Röm. Mitt., lii, 1937, p. 199) è ricamato, in colore bianco, un grosso animale, del quale si conservano solo i piedi anteriori; mentre negli esempî noti finora di pitture vascolari in cui sono rappresentati vestiti adorni con figure di animali, queste sono sempre di piccole proporzioni e in composizione su strisce orizzontali sovrapposte (per esempio, nel cratere attico di Kleitias ed Ergotimos, della prima metà del sec. VI: cfr. Furtwängler-Reichhold, i, tav. 1; nel cratere corinzio del Vaticano, del secondo venticinquennio del sec. VI; cfr. Lane, Greek Pottery, tav. 37 c; nella hydrìa calcidese di Monaco: cfr. Furtwängler-Reichhold, tav. 31; nello sköphos di Gerone in Londra: cfr. Furtwängler-Reichhold, tav. 161; nell'anfora di Napoli: .cfr. Furtwängler-Reichhold, tav. 143;. ecc.), i chitoni che appaiono di sotto allo himàtion sono ornati sul davanti con una bordatura larga e sotto con una più stretta, ricamata con punti e greche di vario disegno.
In alto, subito avanti alla prima figura femminile, si distingue la seguente iscrizione mutila, in colore nero su fondo bianco: •••••• Β???SIM-47???ΒΚΒΤΑSΜΝVΝ ••• (ἀν]έϑεκε ταῖς Νύν[ϕαις •••). Questo dipinto è probabilmente contemporaneo del precedente.
Pìnax C. - Nell'altro quadro non completamente conservato (larghezza m 0,128; altezza 0,193) si hanno i resti di tre figure femminili (perduti i piedi e la testa), volte a destra e stanti l'una dietro l'altra. Quella di sinistra porta un chitone azzurro e su di esso un himàtion rosso, cadente in ricche pieghe addoppiate, con orlo ornato di meandro e punti. Il chitone di quella di destra era bianco e lo himàtion portava un bordo scuro con punti bianchi. Le pieghe degli himàtia sono rappresentate con linee nere. Superiormente ai corpi si distinguono collane di forma ellittica, delle quali quella della donna di sinistra è fatta di fiori, alternativamente azzurri e rossi, quella della seconda di serpenti intrecciati, azzurri, rossi e bruni. Sul chitone bianco della prima donna a destra, si distingue appena una iscrizione non leggibile, scritta perpendicolarmente in color nero: probabilmente il nome della donna. La maggior ricchezza delle pieghe, ai bordi degli himàtia, fa ritenere che questo dipinto appartenga all'ultimo venticinquennio del sec. VI a. C.
Pìnax D. - Il legno dell'ultimo quadro è completo (0,323 × 0,15 m); non così il dipinto che vi è conservato solo nella metà superiore della parte destra. Era circondato da una spessa cornice rossa; aveva il fondo bianco, e rappresentava nella parte destra due gruppi, di tre ciascuno, conversanti tra loro. Del primo gruppo a destra ci restano le teste e parte del corpo; del secondo solo le teste e non intere. I volti delle donne, disegnati con linee sottili, sono bianchi, le linee di contorno rosse. Le figure del gruppo di destra hanno la chioma bionda nascosta posteriormente dallo himàtion, mentre quelle del gruppo di sinistra hanno la testa scoperta e coronata con rami fronzuti. Tra le donne del primo gruppo, l'ultima a destra guarda verso sinistra; porta un chitone podères rosso e su di esso un lungo himation, le cui pieghe sono rappresentate con colore bianco e nero. La seconda figura che guarda anch'essa verso sinistra porta, come la terza, che fronteggia invece le altre due, un himàtion bianco con ornamenti, sopra un chitone azzurro.. Del secondo gruppo, che appare collocato dietro il primo, perché nascosto in parte da esso, la prima figura di destra guarda verso sinistra, le altre due verso destra: la prima porta un chitone azzurro e un himàtion rosso; della seconda resta solo il capo coronato con un ramo, della terza un pezzo del capo ancora più piccolo. Sopra le teste delle donne sono scritti i rispettivi nomi in color nero, come qui di seguito, da destra verso sinistra:
Schema mancante
Infine, presso la prima donna a destra, nella metà inferiore del quadro perpendicolarmente vicino alla cornice, si trova l'iscrizione incompleta: ΒΓΒΜΟ???SIM-43???O (= Τελέσοιο) Telèsoio è il genitivo di Tèlesos, nome altrimenti ignoto: forse una variante dialettale di Τελέσων, che s'incontra due volte nell'Anth. Pal. (vi, 35 e 106), nella Suda e in epigrafi di Rodi (Lindos, ii, p. 1135); Telesos era probabilmente il padre della fanciulla rappresentata.
Visto il modo con cui è resa la profondità, il grazioso disegno delle teste e in generale la maggiore complessità della composizione, si può ritenere che il dipinto sia da porre verso la fine del sec. VI o al principio del V.
Particolare significato acquistano queste tavolette per essere state trovate non lontano da Sicione, in quella zona cioè che era considerata dagli antichi come la culla della pittura greca (Plin., Nat. hist., xxxv, 15-16). Si colma con esse un gran vuoto nella storia della pittura arcaica: esse ci offrono infatti una chiara immagine dello stile che dominava a Corinto e a Sicione, quando la pittura vascolare aveva cessato di rappresentare la tradizione locale. Composte con molti più colori delle pitture vascolari, esse stanno quasi come delle miniature rispetto alla contemporanea pittura monumentale, della quale purtroppo nulla ci resta.