PITALKHORĀ
Monastero rupestre buddhista nel Maharashtra (India), situato all'inizio di una stretta valle, circa 70 km a NO di Aurangabad. Gli ambienti rupestri vennero scavati tra il II e il I sec. a.C., e sono pertanto tra i più antichi del Deccan. Il nome P. corrisponde forse a Pītangalaya (la Petìrgala di Tolemeo, Geog., VII, ι, 83), di cui era protettore lo yakṣa Śaṅkārin. Una statua a tutto tondo rinvenuta sul luogo è forse la sua immagine. Benché nella regione non sia stato identificato alcun insediamento urbano, è probabile che la comunità monastica facesse capo, come nella maggior parte dei casi che conosciamo, a un abitato. Nella fitta rete di vie di comunicazione che nel Deccan occidentale collegavano città e monasteri, P. si trovava lungo quella che da Sopara, sulla costa a Ν di Bombay, risaliva verso Nāsik (v.) per proseguire poi verso Ν o discendere verso Paithan.
Lo scavo degli ambienti rupestri trovò sin dall'inizio un ostacolo nella natura friabile della roccia. Si manifestarono presto crepe e fessure che obbligarono a restauri e ad accorgimenti già in antico, intesi soprattutto a canalizzare le acque (in un caso esse furono fatte fluire sulle spire di un nāga scolpito). Dopo l'abbandono del sito nell'Alto Medioevo, il distacco di grossi blocchi della parete rocciosa causò la scomparsa delle facciate degli ambienti, i cui frammenti scolpiti furono in parte rinvenuti nel corso del restauro curato dall'Archeological Survey of India negli anni '50.
Nel primo e maggiore gruppo di grotte è totalmente crollata, in particolare, la facciata del caityagṛha, il principale ambiente cultuale che rispondeva al tipico modello absidato a tre navate diffuso in tutto il Deccan, dove si sviluppò dai primi, arcaici modelli di Kondivte (v.) e Guṇṭupalle. Lungo circa 24 m, al suo interno erano trentasette pilastri ottagonali, due dei quali, come ricordano le iscrizioni, dono di due famiglie di Paithan. I lunghi e profondi incassi sulla volta dell'ambiente mostrano come vi aderissero costolature in legno, imitanti i prototipi architettonici lignei, come a Bhājā e a Kārlī. Il tamburo del caitya, o stūpa, in fondo all'ambiente, è ricavato dalla roccia, ma l’aṇḍa (elemento emisferico) era strutturale. In alcune ben sigillate cavità del tamburo vennero ritrovati dei reliquiari in cristallo contenenti reliquie; quelle principali dovevano trovarsi nella cavità posta sotto l’aṇḍa. Al caityagṛha si accedeva per mezzo di una scalinata di undici gradini, affiancata da pannelli scolpiti. In quello superstite sono raffigurati due yakṣa dai visi grotteschi e con le braccia alzate seguiti da un cavallo alato, prototipi di quelli della grotta 3 di Nāsik.
Ai lati dell'ambiente di culto si aprono sette ambienti monastici, formati da celle che danno su una corte centrale. Quello meglio conservato, che ci permette di giudicare il livello, spesso alto, della produzione scultorea, è il vihāra 4, concepito come una struttura sostenuta da elefanti, rappresentati frontalmente. La porta d'entrata al monastero, posta a sinistra al livello di questo singolare plinto, ha ai lati due dvārapāla (guardiani) che vestono una dhotī e una pesante tunica, insolita nell'arte indiana, e reggono lancia e scudo. Al sommo della porta era un rilievo, ritrovato tra i crolli, con Śrī, divinità femminile dalla complessa simbologia. È seduta su un loto, regge due steli con boccioli di loto, e viene aspersa da due elefanti, anch'essi su loti. Si tratta della ben nota iconografia conosciuta, in ambito visnuita, come Gaja-Lakṣmī. Un'iscrizione nel vihāra menziona la città di Dhenukākata, non identificata con certezza.
Tra le sculture recuperate nei crolli va ricordata la già citata figura di yakṣa, ora conservata al Museo Nazionale di Delhi. Lavorata a tutto tondo, come le più antiche statue indiane, ha le braccia alzate a reggere una ciotola sulla testa e indossa una collana adorna di amuleti con volti umani. Sempre nel museo di Delhi si trovano un rilievo raffigurante la Grande Partenza di Siddhārtha e un frammento con coppia reale: il re siede su un podio ricoperto da una pelle di animale e la regina, che gli siede accanto, prende un oggetto da uno scrigno che le porge un'ancella. La resa delle stoffe, delle capigliature, dei gioielli, mostra una delicata attenzione per i particolari, e le vivaci pose dei personaggi, da cui discendono gli stilemi dell'arte di Amarāvatī e Nāgārjunakonda (v.), conservano un felice equilibrio. Vanno segnalati anche i numerosi frammenti con coppie amorose (mithuna), la cui presenza in un contesto monastico buddhista antico non trova ancora una persuasiva spiegazione.
Il secondo, piccolo gruppo di ambienti comprende due piccoli caityagṛha (nn. 12-13), posti l'uno di fianco all'altro. Il primo conserva uno stūpa la cui harmikā, decorata con balaustre e finestre «a caitya», è caratterizzata dalla presenza delle teste di un mithuna. Il secondo ambiente è pilastrato.
Anche a P., come in altri monasteri rupestri del Deccan, vi sono i chiari segni di un'occupazione monastica risalente al VI sec. d.C.: a quell'epoca sono infatti databili le pitture di Buddha e Bodhisattva sui pilastri ottagonali del grande caityagṛha. Se davvero si deve supporre una cesura nell'occupazione del luogo, la ripresa va collocata dopo il lungo periodo (IV-V sec.) che vide, con la supremazia gupta, l'egemonia in quasi tutta l'India centro- settentrionale del potere brahmanico.
Bibl.: J. Fergusson, J. Burgess, The Cave Temples of India, Londra 1880 (rist. Delhi 1969), pp. 242-246; M. G. Dikshit, Fresh Light on the Pitalkhora Caves, in Journal of the Bombay Historical Society, VI, 1941, pp. 112-121; M. N. Deshpande, The Rock-Cut Caves of Pitalkhora in the Deccan, in Ancient India, XV, 1959, pp. 66-93; V. Dehejia, Early Buddhist Rock Temples. A Chronological Study, Londra 1972, in part. pp. 155-157; S. Nagaraju, Buddhist Architecture of Western India (c. 250 B.C.-c. A.D. 300), Delhi 1981, in part. pp. 283-293.