Pitagora e i pitagorici
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il filone di pensiero che fa capo a Pitagora rappresenta un caso esemplare nella problematica della relazione fra mythos e logos nell’età dei presocratici. Esso è un sicuro cavallo di battaglia per gli studiosi più attenti alla presenza di elementi di sapienza religiosa nel pensiero greco arcaico, e alla loro possibile derivazione dalle culture del Vicino Oriente (valga per tutti il nome illustre di Walter Burkert), ed è comunque innegabile che componente religiosa e componente scientifica vi trovino un singolare intreccio: di entrambe le componenti, e di tale singolarità, si cerca qui di dar di conto.
Pitagora di Samo parte intorno ai 40 anni dall’isola in cui è nato (forse per ostilità verso la tirannide di Policrate da poco instaurata) e si stabilisce, intorno al 520 a.C., a Crotone.
Impossibile dire se prima di approdare in Magna Grecia abbia effettivamente viaggiato in Egitto, Mesopotamia e Fenicia, come le fonti antiche raccontano, ma non è da escludersi che in tali viaggi sia venuto a contatto vuoi con credenze religiose vuoi con elementi di sapere astronomico-matematico che hanno poi influenzato la sua attività filosofica. In ogni caso, le coordinate principali della sua biografia sono segnate con nettezza dai due poli del mondo ionico, nel quale può già essere venuto a conoscenza dei progressi compiuti dal sapere scientifico (geografico, matematico, astronomico) dei Milesii, e del mondo italico, caratterizzato da fermenti di religiosità che si manifestano anche, per esempio, nella diffusione di credenze orfiche. A Crotone Pitagora raccoglie intorno a sé una comunità di discepoli che per un verso prefigura i caratteri di una scuola filosofica (come sarà l’Accademia di Platone dedita a un’attività squisitamente conoscitiva, per l’altro appare organizzata come una “setta” religiosa, con diversi livelli di iniziazione all’insegnamento del maestro, obbligo del silenzio sui suoi più importanti contenuti, regolari incontri collettivi, nonché osservanza di determinati riti.
La comunità pitagorica di Crotone, come probabilmente le altre che germinano presto in altri centri della Magna Grecia (come Metaponto e Taranto) giunge a influenzare la politica della città in direzione presumibilmente aristocratica, coerentemente con il carattere di una scuola strutturata gerarchicamente secondo diversi gradi di accesso alla rivelazione della conoscenza dispensata dal maestro. È possibile che Pitagora giochi un ruolo personale nella guerra con Sibari (conclusasi con la sconfitta e distruzione della rivale nel 510 a.C. ca.), forse fomentandola in nome di una rigenerazione morale di Crotone, antagonista rispetto a Sibari, percepita come un luogo di empietà e lussuria.
I pitagorici appaiono comunque fare gli interessi di un regime oligarchico contro una Sibari democratica, e deve avere carattere popolare la sommossa suscitata contro di loro fra VI e V secolo a.C., occasionata da una scontentezza generale per la spartizione del territorio di Sibari. Dopo la fuga e morte di Pitagora a Metaponto, intorno al 450 a.C., una nuova e più violenta sommossa cagiona l’incendio delle sedi delle comunità pitagoriche in tutta la Magna Grecia. L’attività dei pitagorici non si conclude del tutto, ma molti fuggono in Grecia, come Filolao di Crotone, che a Tebe sarà maestro di Simmia e Cebete, interlocutori di Socrate nel Fedone platonico, e l’esodo si può dire definitivo agli inizi del secolo successivo. Solo al matematico e musicologo Archita di Taranto, l’amico di Platone, riuscirà un esperimento isolato di governo “pitagorico”, aggiustato probabilmente secondo modalità “democratiche”. Ma nella prima metà del V secolo a.C. si è ormai giocata e persa la scommessa dei pitagorici sulla possibilità di investire la filosofia di una funzione direttiva rispetto alla politica: tentativo che sarà notoriamente ripetuto da Platone, per concludersi con altrettanto notorio fallimento.
Attorno a Pitagora, che presenta molti tratti in comune con altre figure di sapienti (sophoi) visionari e maghi dell’età arcaica quali Aristea, Epimenide o Ermotimo di Clazomene, si forma ben presto una ricca tradizione di aneddoti, volti a sottolinearne la statura divina.
Alcuni frammenti rimasti degli scritti, oggi perduti, dedicati da Aristotele al pitagorismo testimoniano che già nel IV secolo a.C. si raccontava che Pitagora, morso una volta da un serpente, l’aveva egli stesso morso e ucciso; sapeva prevedere il futuro; era capace di rendersi invisibile; era apparso in due luoghi nello stesso tempo; un giorno infine, levatosi in piedi in un teatro, aveva esibito ai presenti una coscia d’oro (sicuro segno di origine divina). La letteratura successiva non ha fatto che sviluppare questa tendenza, da cui sono germogliate fra l’altro un buon numero di Vite di Pitagora (ci sono rimaste quelle di Diogene Laerzio, Porfirio e Giamblico), il cui rigoglio è direttamente proporzionale alla difficoltà di estrarne qualche dato sicuro. Non c’è forse nella letteratura greca terreno più spinoso: parallelamente infatti, sul piano dottrinale, la tendenza costante della scuola ad attribuire ogni scoperta al suo fondatore ha condizionato pesantemente i resoconti antichi, rendendo arduo e talora impossibile sceverare il nucleo di idee originario dall’elaborazione dei successori, nonché l’apporto di ciascuno di questi. Qualche dato significativo si può tuttavia ricavare da alcuni incisivi riferimenti di autori dell’età presocratica, dettati da interesse ora polemico, ora ammirativo verso un rappresentante esemplare della sophia arcaica.
Ecco dunque Senofane di Colofone, un altro migratoemigrato, nello stesso giro di anni, dalla Ionia in Magna Grecia, che gustosamente ritrae Pitagora mentre interviene in difesa di un animale battuto, mosso dall’idea che l’anima umana trasmigri attraverso diverse forme di vita (è notevole che sia questa probabilmente l’attestazione più antica della presenza in terra magnogreca, derivata o no che sia da culture non greche, di una credenza nella metempsicosi).
Senofane
Pitagora interviene in difesa di un piccolo cane
21 B 7 DK
Trovandosi una volta a passare mentre percuotevano un cagnolino,
dicono che se ne impietosisse e proferisse queste parole:
“smettila di battere, perché l’anima di un uomo amico
ho riconosciuto nel sentirne la voce”.
Ed è da identificarsi con Pitagora, probabilmente, il personaggio celebrato da Empedocle di Agrigento, il quale per conto suo aderisce all’idea della metempsicosi, per la capacità di recuperare memoria delle ripetute reincarnazioni.
Empedocle
Un uomo saggio e di grande cultura
Fr. 31 B 129 DK
Vi era fra quelli un uomo che sapeva cose eccezionali,
dotato di immensa ricchezza d’ingegno,
e capace d’ogni sorta di sapienti azioni;
e quando si tendeva con tutte le forze della mente
facilmente vedeva una per una tutte le cose esistenti
nel corso di dieci e anche venti vite umane.
Le concezioni che si possono attribuire con maggiore sicurezza al fondatore del pitagorismo sono precisamente quelle che ruotano attorno all’idea dell’immortalità dell’anima e della sua trasmigrazione in diversi corpi mortali, con connesse regole di astinenza alimentare e teorizzazione di uno stile di vita atto ad assicurare la purificazione morale del sapiente e il suo ritorno, oltre la morte, alla propria origine divina (è notevole la vicinanza, su questi punti, fra pitagorismo e orfismo). Ma un’altra testimonianza molto vicina ai tempi di Pitagora invita a considerare la possibilità che il suo insegnamento si estendesse al di là di una problematica religiosa e morale. Eraclito di Efeso, infatti, si scaglia contro la vana “conoscenza di molte cose” e l’“indagine” empirica travestita da sapienza, che egli trova esibita tanto da Pitagora quanto da Esiodo nei suoi poemi didascalici, dal logografo e geografo Ecateo di Mileto, da Senofane, che dalla conoscenza di altre culture ricava elementi per polemizzare contro l’antropomorfismo della religione greca.
Eraclito
Il sapere molte cose può essere inutile
Sulla natura, fr. 40 DK
Il sapere molte cose (polymathìe) non insegna ad avere buon senso: altrimenti l’avrebbe insegnato ad Esiodo e Pitagora, e pure a Senofane ed Ecateo.
Eraclito
Il troppo sapere è nocivo
Sulla natura, fr. 129 DK
Pitagora, figlio di Mnesarco, ha praticato la ricerca (historìe) più di tutti quanti gli uomini... e si è fatto una sapienza (sophìe) sua propria: una conoscenza di molte cose (polymathèie), un’arte cattiva (kakotechnìe).
Vediamo ora quali possano essere, oltre la conoscenza della propria immortalità, le “molte cose” che compongono il sapere di Pitagora.
Fra le tante scoperte matematiche attribuite a Pitagora, a lui può risalire quella che gli intervalli concordi di una scala musicale si possono esprimere nei termini di semplici rapporti fra i primi quattro numeri interi: 2:1 (ottava), 3:2 (quinta), 4:3 (quarta). Pitagora può esservi giunto infatti attraverso una misurazione molto semplice dei suoni sulle corde di un monocordo.
Lo spunto è fondamentale non solo perché consente l’avvio di ricerche specificamente matematiche sulla media proporzionale (nelle tre forme aritmetica, geometrica, armonica), ma perché l’intuizione che la varietà dei suoni musicali si può ordinare in serie esprimibili numericamente viene adibita a modello interpretativo della realtà tutta. Potrebbe risalire a Pitagora nel proprio nucleo sostanziale anche una dottrina di lunga e memorabile fortuna come quella dell’armonia delle sfere, ovvero dei suoni consonanti prodotti dalla rotazione degli astri, che non udremmo solo perché sin dalla nascita vi abbiamo fatto l’abitudine, o la valorizzazione della decade come quintessenza del numero in quanto, risultando dalla somma dei primi quattro numeri interi (1 + 2 + 3 + 4 = 10) riunisce in sé le proprietà della scala musicale e, ancora, della realtà tutta. La rappresentazione della decade in forma triangolare ci ricorda che i pitagorici amano seguire l’uso arcaico di rappresentare i numeri concretamente, con sistemi di punti simili a quelli che ancora vediamo sui dadi o le tessere del domino: segno che la qualità matematica non è concepita con un livello di astrazione maggiore di altre qualità, e in tal senso può essere identificata con le cose stesse. Su questa base abbastanza elementare si sviluppa tuttavia un complesso di ricerche importanti per la storia della matematica antica. Qui ricordiamo soltanto che è probabilmente Ippaso di Metaponto, uno dei pitagorici più antichi, a scoprire l’incommensurabilità fra lato e diagonale del quadrato, che presuppone la conoscenza del cosiddetto teorema di Pitagora (in realtà già noto, benché non dimostrato teoricamente, ai Babilonesi), e ciò determina una crisi grave ma stimolante nell’ambito della matematica greca, centrata fino ad allora su rapporti numerici razionali.
La dottrina che “tutte le cose sono numeri” trova d’altronde importanti sviluppi in una direzione che si può definire a buon diritto ontologica, in un lavoro che si svolge nella scuola lungo tutto il V secolo a.C. e da cui emergono diversi modelli teorici, nessuno dei quali è ascrivibile con sicurezza a questo o quel pitagorico. Aristotele, che già parla genericamente di “italici” o “pitagorici” o “cosiddetti pitagorici”, riporta alcune varianti della dottrina dell’equivalenza cose-numeri nel quinto capitolo del primo libro della Metafisica: le cose imitano i numeri (punto sul quale i pitagorici anticiperebbero addirittura Platone, per cui c’è rapporto di imitazione fra i sensibili e le idee); gli elementi dei numeri, pari e dispari, in quanto corrispondenti a limite e illimitato sono elementi delle cose; la realtà è strutturata in coppie di contrari, riuniti in una lista che comprende sia concetti matematici simbolicamente connotati (limite e illimitato, pari e dispari), sia coppie oppositive di più evidente matrice simbolica (luce e tenebre, buono e cattivo).
Aristotele non ignora le “derive” della concezione pitagorica, che punta su associazioni affatto simboliche di determinati numeri con concetti di vario tipo (per esempio del 4 con la giustizia, del 7 con il kairos o “momento opportuno”); né gli sfuggono i limiti impliciti in questa impostazione, come emerge nel lungo esame che dedica (ancora in Metafisica, I 5) al sistema astronomico di Filolao, chiaramente costruito secondo un principio di armonia. Filolao fa ruotare i corpi celesti attorno a un fuoco centrale chiamato “focolare” dell’universo: procedendo dal centro verso l’esterno si dispongono un’Antiterra, la Terra, la Luna, il Sole, i cinque pianeti (quelli allora noti erano Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno) e il cielo delle stelle fisse. Né l’Antiterra né il fuoco centrale sono a noi visibili, perché abitiamo sulla faccia della Terra sempre rivolta verso l’esterno; ed è la rivoluzione quotidiana della Terra attorno al fuoco centrale che produce, col variare della sua posizione rispetto al Sole, l’alternanza di giorno e notte. Questo sistema ha colpito antichi e moderni per la sua eccentricità rispetto al paradigma geocentrico prevalente nell’antichità: ma la somiglianza con l’eliocentrismo copernicano non deve trarre in inganno. Lo spostamento della terra dal centro non è dovuto, probabilmente, a una portentosa intuizione, né d’altro canto produce una spiegazione più soddisfacente del moto dei pianeti e del cielo delle stelle fisse. Secondo quanto emerge proprio da Aristotele, la scelta di Filolao sembra essere stata condizionata, piuttosto, da esigenze di coerenza sistematica: l’introduzione dell’Antiterra di fatto eleva i corpi celesti al numero di dieci, “poiché il dieci sembra che sia numero perfetto, e che comprenda in sé tutta la natura dei numeri”, dunque della realtà tutta. La costruzione del cosmo filolaico appare pertanto orientata dal presupposto di un’armonia cosmica, che si offre quale griglia in cui inquadrare l’osservazione dei fenomeni: carica di significato simbolico, in tal senso, anche la posizione di un “focolare” divino al centro del cosmo, favorita probabilmente dall’analogia col ruolo primario del calore nella generazione degli esseri viventi.
L’impostazione della cosmologia di Filolao rientra in una tendenza costante del pensiero pitagorico, che è ancora Aristotele a rilevare nel primo libro della Metafisica (cap. 8.989b 29 = 58 B 22 DK): in generale i pitagorici “si servono di principi e di elementi assai lontani da quelli dei naturalisti” (physiologoi), in quanto non li ricercano nelle cose sensibili, come la maggior parte dei predecessori di Aristotele (con l’eccezione naturalmente di Platone, ma anche degli eleati), ma nei numeri. Tale concezione ha il pregio per Aristotele di identificare una causa “formale” del divenire, segnando un passo avanti nella ricerca delle cause rispetto a quanti, dagli ionici ad Anassagora, a Empedocle, sono andati alla ricerca di principi materiali, e un passo per certi versi più significativo di quello compiuto da Platone con le idee, perché i numeri non sono ontologicamente separati, come le idee, dalla realtà naturale.
Aristotele coglie bene, dalla sua particolare prospettiva, la posizione del tutto peculiare che la riflessione pitagorica occupa nel contesto presocratico. La “teoria del numero” non manca, è vero, di rispondere all’interesse per i principi della realtà naturale che domina il pensiero dei presocratici fin dai suoi inizi, ma se ne distacca nettamente nel momento in cui, in tutte le sue versioni, i numeri sono investiti di un ruolo di strutturazione essenzialmente ideale e simbolica: un punto sul quale i pitagorici, nelle diverse fasi della propria storia, hanno tenuto viva, sapendolo, la lezione dell’antico maestro.