PIRRO
. Re di Epiro, appartenente alla famiglia reale degli Eacidi. Nacque nel 319 o 318 a. C. da Eacida, figlio di Aribba, che allora regnava in Epiro. Eacida, che nella lotta tra Olimpiade e Cassandro per il predominio in Macedonia aveva preso parte per Olimpiade, dopo che Cassandro ebbe il sopravvento, fu dagli Epiroti deposto e fuggì in Etolia (317-6). Il figlio P. bambino fu salvato con una fuga romanzesca nell'Illiria. Eacida perì in un tentativo di ricuperare il regno, il quale invece fu occupato dal fratello maggiore di lui Alceta, che era stato diseredato dal padre Aribba. Alceta regnò d'intesa evidentemente con Cassandro e però quando Demetrio figlio di Antigono, detto poi Poliorcete, intervenne in Grecia contro l'egemonia macedonica (307-306), gli Epiroti si ribellarono contro Alceta mettendolo a morte, e P. in età di 11 o 12 anni con l'aiuto del re illirico Glaucia gli fu sostituito nel regno. Ma le fortune del giovanetto P. durarono quanto quelle di Demetrio. Quando questi dovette abbandonare la Grecia per aiutare il padre nella lotta decisiva contro i governatori coalizzati, anche P. fu cacciato dal regno e prese poi parte a fianco di Demetrio, segnalandovisi, alla decisiva battaglia d'Ipso (301) in cui Antigono fu sconfitto e ucciso. Rimase fedele a Demetrio dopo la sconfitta e fu da questo mandato a governare i suoi possessi greci e poi, quando Demetrio fece pace con Tolomeo di Lago, inviato in ostaggio in Egitto. Quivi egli si acquistò la benevolenza del re e la protezione della regina Berenice, sposò la figlia di lei di primo letto, Antigone, e poi fu mandato con aiuti egiziani in Epiro, dove regnava Neottolemo, d'intesa col re di Macedonia Cassandro. La morte di Cassandro (aprile 297) fu probabilmente l'occasione del ritorno di P. in Epiro, dove egli sulle prime divise il regno con Neottolemo, poi, ucciso a tradimento il collega in un banchetto, regnò da solo (probabilmente 297). Le discordie tra i due figli di Cassandro, Alessandro e Antipatro, che dopo la morte del primogenito Filippo si erano divisi il regno di Macedonia, diede occasione a un intervento di P. a favore del più giovane, Alessandro, minacciato dal fratello. P. si fece pagare il suo intervento con la cessione della Paravea e della Tinfea, dell'Amfilochia, di Ambracia e dell'Acarnania, che annesse al suo regno, e poi costrinse Antipatro a lasciare ad Alessandro il resto della parte che gli era stata assegnata. Ma poco dopo (294) Demetrio Poliorcete, che era tornato in Grecia e si era impadronito di Atene, intervenne in Macedonia e, ucciso Alessandro e scacciato Antipatro, s'impadronì del regno. Da questo momento le relazioni tra P. e Demetrio si cominciarono a turbare, e quando, auspici gli Etoli, si formò in Grecia una lega contro Demetrio, P. vi partecipò. Demetrio invase l'Etolia (289) e, lasciandovi con un forte reparto di truppe il suo generale Pantauco, mosse contro l'Epiro. Ma P., invasa l'Etolia, riportò su Pantauco una grande e decisiva vittoria in cui fece prigionieri 5000 Macedoni. Questa vittoria non solo liberò gli Etoli dal pericolo, ma indusse Demetrio a ritirarsi dall'Epiro, ripiegando in Macedonia. Qui una grave malattia da cui fu colpito diede a P., animato dal successo in Etolia, l'occasione di penetrare nel cuore del paese fino presso Edessa, ma si dovette poi ritirare quando Demetrio, risanato, mosse contro di lui; e si venne infine tra i due re a una pace sulla base dell'uti possidetis. Demetrio ne profittò per fare grandi preparativi militari per la conquista dell'Asia. Il pericolo indusse Lisimaco e Tolomeo a stringersi in lega contro di lui e a questa lega accedette subito P., rompendo la pace conclusa con Demetrio. Demetrio, mal visto dai suoi sudditi, fu abbandonato dall'esercito che aveva condotto contro P., il quale si divise con Lisimaco il regno di Macedonia (288), dopo di che, cercando Demetrio di riordinare le sue forze in Grecia e stando sul punto di assediare Atene che si era ribellata, P. comparve alle sue spalle e lo costrinse a lasciare l'assedio, onde fu poi accolto in Atene e festeggiato. Fece anche pace con Demetrio, ma la violò non appena Demetrio, passato in Asia, ebbe la peggio anche colà.
Circa questo tempo, il dominio di P. in Grecia raggiunse la massima estensione. Egli possedeva l'Epiro, i distretti montuosi confinanti a oriente, la Tinfea e la Paravea, inoltre tutta la Macedonia propriamente detta fino al fiume Assio, la massima parte della Tessaglia esclusa Demetriade e, delle regioni greche a sud dell'Epiro, Ambracia di cui fece la sua capitale, l'Amfilochia e l'Acarnania, con Leucade, a nord un tratto dell'Illiria meridionale comprendente Apollonia, se non forse anche Durazzo, e alcune isole dell'Adriatico e dello Ionio, tra cui principale Corcira, che aveva acquistata prima come dote di Lanassa, la figlia di Agatocle e poi, dopo che Lanassa divorziando da lui l'aveva consegnata al suo nuovo marito Demetrio Poliorcete, ricuperata con le armi in un momento non bene precisabile tra la partenza di Demetrio dalla Grecia e la guerra con Roma. Pareva un dominio assai vasto, ma non era una formazione organica attorno a un saldo nucleo centrale, sì un semplice conglomerato di territorî tenuti insieme non da un legame d'interessi o d'idealità comuni, ma dal valore guerriero del principe che li aveva conquistati; sicché questo conglomerato cominciò a sgretolarsi nella parte sua più importante e nello stesso tempo più vulnerabile alla prima occasione. Il disastro, con cui la spedizione di Demetrio in Asia terminò, permise a Lisimaco, che aveva rassodata la sua potenza in Tracia e in Asia, di rompere l'accordo fatto con P. Accolto favorevolmente dai Macedoni come vecchio ufficiale di Alessandro, Lisimaco riunì tutta la Macedonia e ricacciò P. nell'Epiro togliendogli anche la Tessaglia. Alla guerra che scoppiò poi tra Lisimaco e Seleuco, P. non partecipò, attendendone l'esito e sentendosi troppo inferiore a entrambi i contendenti. E anche dopo che Seleuco, vincitore di Lisimaco a Corupedio 1282), passò in Europa per raccoglierne l'eredità e fu assassinato da Tolomeo Cerauno, il figlio esule di Tolomeo di Lago che aveva accolto benevolmente presso di sé, e questi, tratto a sé l'esercito, s'apprestò a regnare sulla Macedonia, P. non fu tra quelli che gliela contesero, sebbene in quel momento potesse avere non lievi speranze di riconquistarla.
Ma maggiori speranze gli offriva l'Italia, dove i Tarentini in guerra con Roma lo chiamavano: quivi egli sperava, evidentemente con l'appoggio dei Greci d' Italia e con quello degl'Italici avversi ai Romani, Sanniti, Lucani, e Bruzî, di costituirsi, vincendo Roma, un vasto principato. Non è qui il luogo di narrare le vicende di questa guerra (per la quale v. roma: Storia). In essa le forze dei contendenti, da una parte Roma coi suoi alleati latini e italici, dall'altra P. col suo stato epirotico, Taranto e altre città greche d'Italia e gli avversarî italici di Roma, a un dipresso si bilanciavano, e gli Epiroti avevano il vantaggio dell'ordinamento tattico più perfezionato che allora si conoscesse e un generale che i contemporanei e i posteri giudicarono concordemente per valore e perizia uno dei primi tra gli uomini di guerra ellenici. Ma i Romani e la loro federazione formavano una saldissima compagine, stretta insieme da vincoli di fratellanza militare, di consanguineità, d'interessi, d'affinità di costumi. Le genti che P. stringeva attorno a sé erano diversissime per costumi, nazionalità, condizioni sociali e ordinamenti, i loro interessi erano diversi e cozzanti, e gli stessi Epiroti non avevano nella campagna italica altro interesse che quello di conquistare gloria e bottino, perché è difficilissimo che fosse tra loro diffuso il pensiero di difendere la comune nazionalità greca, ed è persino molto incerto se lo stesso P. si sentisse e si rappresentasse quale protettore e vendicatore dei Greci, così come si era sentito e atteggiato Alessandro nel passare in Asia contro i Persiani. Il sentimento di nazionalità non giocava in questa guerra una parte se non assai debole e quasi inconsapevole. P. l'assunse, a preferenza della riconquista della Macedonia perché gli parve, date le forze di cui avrebbe disposto, più agevole e promettente risultati più grandiosi. In ciò s'ingannava, come l'evento ha dimostrato: e tutta la sua genialità e il sangue dei suoi Epiroti non valsero che a ritardare di pochi anni la sottomissione dei Greci d'Italia a Roma e a rendere più duro il trattamento che i Romani fecero ai vinti. Sicché non è dubbio che egli avrebbe potuto impiegare le forze di cui disponeva con maggiore vantaggio per gli Epiroti, per i Greci in generale e per sé stesso, combattendo in Macedonia e intervenendo nel momento del pericolo contro le orde celtiche che proprio, mentre egli pugnava contro i Romani, si riversavano in Macedonia, in Tracia e in Grecia. Ma questa invasione egli non poteva prevedere, né le occasioni che essa gli avrebbe offerto, come non poteva neppure valutare la validità delle forze di cui Roma disponeva e la salda compagine della federazione che le si stringeva attorno. Non tardò però ad avvedersene dopo la prima vittoria del Siri o di Eraclea (280) e soprattutto dopo l'audace marcia che lo condusse ad Anagni, a 60 miglia da Roma, marcia militarmente mirabile, ma destituita di qualsiasi effetto. E dovette riconoscere la piena fallacia delle sue speranze dopo la seconda vittoria, quella presso Ascoli di Puglia (279), che lasciò intatto il grosso delle forze romane e non gli permise neppure di tentare un'altra avanzata nel territorio nemico, come quella, del resto inutile, dell'anno precedente. Perciò egli cercò di concludere coi Romani una pace che garantisse l'indipendenza dei Tarentini e dei suoi alleati italici. Ma i Romani, a cui le stesse sue vittorie avevano dimostrato quanto poco avessero da temere da lui, rifiutarono, tanto più che offersero a loro l'alleanza contro P. i Cartaginesi, i quali temevano il suo intervento in Sicilia e desideravano che fosse trattenuto in Italia.
E tuttavia la certezza che la guerra sarebbe continuata in sua assenza, e quindi con danno inevitabile dei Greci e dei suoi alleati italici, non valse a trattenervelo. E si può dire che tanto il suo proprio interesse quanto quello dell'ellenismo lo indussero e quasi lo costrinsero a intervenire in Sicilia. Dopo la morte di Agatocle (289) le lotte intestine tra i Greci e quelle tra i Greci e i mercenarî italici del tiranno, i Mamertini, che si erano stabiliti in Messina impadronendosene a tradimento e facendo strage della popolazione, avevano causato la disgregazione dell'impero di Agatocle e dato agio ai Cartaginesi di riprendere i loro tentativi di conquista della Sicilia greca. Ora essi erano sul punto di vedere coronata dal successo questa loro aspirazione circa due secoli dopo la prima loro grande spedizione contro la Sicilia greca, quella che si era chiusa con la rotta d'Imera (480). Profittando infatti della lotta fra Tenone e Sosistrato per il possesso di Siracusa, che essi conducevano nella stessa città, dominando l'uno nella rocca dell'Ortigia, l'altro nei quartieri di terraferma, i Cartaginesi avevano assediato Siracusa per terra e per mare, e la resa della città pareva inevitabile. In questi frangenti tanto Tenone quanto Sosistrato si rivolsero a P., il quale intervenne nella speranza giustificata che avrebbe potuto vincere i Cartaginesi assai più facilmente dei Romani, e dopo la vittoria riprendere con maggiori forze e maggiore prestigio la guerra con Roma. Questo calcolo era in buona parte fondato; soltanto, tutta la storia precedente mostrava che quanto era facile vincere i Cartaginesi, altrettanto era difficile discacciarli dall'isola, e che non cacciati dall'isola essi erano sempre pronti a rinnovare i loro tentativi di conquista, sicché una guerra anche vittoriosa in Sicilia avrebbe difficilmente prodotto un accrescimento effettivo delle forze di cui P. disponeva contro i Romani. Ingannando la sorveglianza della squadra cartaginese che incrociava nello stretto di Messina, P. sbarcò felicemente presso Tauromenio e di lì procedette in direzione di Catania e di Siracusa: aveva con sé circa 10.000 uomini e navi da guerra e da trasporto. La flotta cartaginese che bloccava Siracusa non osò tagliare la via alle sue navi; egli entrò nella città ed ebbe da Tenone e Sosistrato la consegna dei quartieri che ciascuno di essi teneva, mentre i Cartaginesi toglievano il blocco per terra e per mare. Riconosciuto dai Sicelioti duce e re (ἡγεμὼν καὶ βασιλεύς), P. non solo poté liberare dai Cartaginesi tutto il territorio che essi occupavano nella Sicilia greca, ma condusse poi una campagna fortunata nella provincia cartaginese prendendo d'assalto la fortissima Erice e riducendo i Cartaginesi al possesso della sola Lilibeo. Lilibeo non poteva conquistarsi che assediandola per terra e per mare, e ad assediarla per mare occorreva la superiorità marittima che P. era ben lontano dal possedere. Sicché sarebbe stato prudente accettare la pace che Cargine offriva sulla base dell'uti possidetis, conservando in Sicilia la sola Lilibeo. P. avrebbe conseguito così ciò che nessuno dei tiranni di Siracusa aveva mai potuto ottenere. Certo questa pace sarebhe stata soltanto una tregua, ma della tregua si poteva approfittare sia per intervenire in Grecia prima che essa, dopo il turbamento provocato dall'invasione gallica, ritrovasse un assetto stabile, sia per risollevare le sorti della guerra in Italia con gli aiuti della vicina Sicilia greca, procedendo anche qui sulle tracce di Dionisio il Vecchio e di Agatocle. Ma i Sicelioti pensavano che sarebbe stato facile ora con un piccolo sforzo liberarsi per sempre dal pericolo cartaginese, e a P. arrideva la speranza di una guerra a fondo con Cartagine. Perciò egli non seppe resistere alle richieste dei suoi alleati e la guerra continuò. Sennonché dopo due mesi di vani tentativi egli dovette definitivamente convincersi che non era possibile conquistare Lilibeo attaccandola solo dalla parte di terra e s'apprestò a costruire una grande flotta per sbarcare in Africa e rinnovare ivi con migliore preparazione e maggiore speranza di successo l'audace tentativo di Agatocle. Ma per un tale miraggio egli perdette di vista i compiti più urgenti che l'attendevano in Grecia e in Italia, e inoltre non pensava che l'impresa avrebbe richiesto una tale tensione delle forze militari e finanziarie dell'isola quale era assai dubbio se i Sicelioti, esausti e depressi dal periodo di guerra e d'anarchia dopo la morte di Agatocle, avrebbero sopportato. D'altronde siffatti apprestamenti richiedevano concordia e severa disciplina, e P., principe straniero di consuetudini soldatesche, si guastò presto coi nuovi sudditi e volendosi assicurare l'ubbidienza con la forza suscitò dappertutto ire e ribellioni. Ciò lo indusse a incrudelire: mise a morte Tenone, mentre Sosistrato, temendo la stessa sorte, si salvò con la fuga ad Agrigento, ribellandosi. In tali condizioni non solo P. non poteva guadagnare terreno sui Cartaginesi, ma la stessa Sicilia non era più che un peso morto per lui, poiché per riconquistarla o anche solo per tenerne saldamente una parte avrebbe dovuto impegnare senza risultato forze anche più considerevoli di quelle di cui disponeva. Di tutto ciò approfittarono i Cartaginesi per ricuperare terreno e inviarono un nuovo esercito nell'isola. P. lo sbaragliò in battaglia e così, salvo il suo onore militare, poté evacuare interamente la Sicilia imbarcandosi con tutto il suo esercito per l'Italia. Da questa impresa pertanto egli non ricavò per sé, per lo stato epirota, per i suoi alleati d'Italia nessun vantaggio, anzi vi perdette uomini e denari. Ciò peraltro non fu invano per la causa dell'ellenismo, anzi per la causa della civiltà in generale, perché al suo intervento si deve se, più tardi, i Romani intervenendo in Sicilia non la trovarono trasformata interamente in una provincia cartaginese, ciò che avrebbe reso a loro assai più difficile la conquista dell'isola e avrebbe rese assai più dubbie le sorti del grande conflitto per il dominio del Mediterraneo occidentale. Ma queste non erano cose a cui P. potesse pensare, e allo stesso consolidamento dell'ellenismo in Sicilia è assai difficile che egli pensasse, se non in linea secondaria e come elemento sussidiario ai suoi piani d'impero. Nel tornare in Italia, P. non fu così fortunato come nell'andata e la sua flotta subì gravi perdite per opera della squadra cartaginese che incrociava nello stretto. Altre perdite il suo esercito toccò, dopo sbarcato, ad opera dei Campani di Reggio e dei loro alleati, i Mamertini. Tuttavia egli riuscì a disimpegnarsi, a ricuperare Locri che durante la sua assenza era venuta in potere del nemico e a raggiungere felicemente con le truppe il suo quartiere generale di Taranto. Qui riordinò l'esercito e si apprestò alla nuova campagna. Occorreva che egli riportasse qualche successo militare per rianimare i suoi alleati italici che molto avevano sofferto durante la sua assenza per la pressione dei Romani. I due consoli del 275, M. Curio Dentato e L. Cornelio Lentulo, operavano separatamente ciascuno con due legioni contro gli alleati italici di P. Il re si propose di attaccare l'uno di essi, Curio, che era a campo presso Maluento (la posteriore Benevento), prima che l'altro collega potesse raggiungerlo. Ma Curio attendendo il collega si teneva chiuso nelle fortificazioni del suo accampamento. Onde P. deliberò di assalirvelo per sorpresa. Il tentativo non riuscì e ne nacque un combattimento presso il campo romano in cui gli Epiroti ebbero la peggio e il re, riconoscendo fallita la sorpresa, ripiegò nel proprio campo. I Romani si ascrissero la vittoria e non a torto, sebbene il grosso delle forze nemiche fosse rimasto intatto, perché avvicinandosi l'altro console e non credendo il re di poter dare battaglia contro le forze riunite di entrambi, dovette chiudere la campagna tornando indietro. Con le truppe di cui disponeva egli si sarebbe potuto sostenere indefinitamente in Italia, come più tardi Annibale; ma Annibale non pensava che ad avvantaggiare la sua patria tenendo impegnati quanto più a lungo poteva i Romani lontano dall'Africa, P. non aveva nessun interesse né per sé stesso né come principe epirota a logorare le sue forze in una guerra che non gli dava una speranza di successo, mentre l'Epiro non correva alcun pericolo dalla parte dei Romani e poteva invece correrne per parte dei Macedoni. Sicché, dopo avere fatto un vano tentativo per indurre Antigono Gonata e Antioco Sotere di Siria a inviargli soccorsi coi quali riprendere con nuove forze la guerra contro Roma, s'imbarcò per l'Epiro con la maggior parte degli Epiroti sopravvissuti a tante battaglie, lasciando a Taranto fortemente presidiata il figlio Eleno. Questo mostra che non intendeva abbandonare Taranto alla sua sorte, ma non mostra ancora che avesse serie intenzioni di ritornare in Italia a riprendere una guerra in cui egli aveva dovuto riconoscere che le speranze di conquistarsi un impero erano scarse, e che la stessa difesa dei suoi alleati italici non si poteva effettuare senza sacrifizî assai gravi.
In Grecia nessuno allora minacciava l'Epiro. Antigono Gonata, il figlio di Demetrio Poliorcete, aveva fatto pace con Antioco Sotere rinunciando a ogni pretesa sull'Asia Minore, aveva acquistato prestigio con una grande vittoria sui Galli presso Lisimachia, e poi, invasa la Macedonia, aveva ricuperato il regno paterno e posto fine all'anarchia. Il solo pretendente che avrebbe potuto impedirgli la conquista, P., era allora impegnato nell'Occidente, sicché egli aveva potuto iniziare la riorganizzazione dello stato macedonico dando al paese respiro dopo tanti guai. Anche le condizioni della Grecia erano assai migliorate. Respinta l'invasione celtica, gli Etoli erano divenuti la potenza preponderante della Grecia settentrionale, la Beozia e l'Attica erano indipendenti, sebbene deboli e sebbene Antigono avesse conservato il possesso del Pireo. Nel Peloponneso si equilibravano gli Spartani, che avevano ripreso alquanto vigore sotto il governo energico di re Areo, e gli alleati della Macedonia, e qualche conato di rinnovata libertà repubblicana si cominciava ad attuare in Acaia. In tali condizioni un tentativo di dare alla penisola unità politica quale era riuscito a Filippo di Aminta, e non era riuscito più tardi a Demetrio Poliorcete, non aveva una seria speranza di successo, fatto su basi assai meno salde di quelle onde era partito Filippo, e per di più contrastato dalla Macedonia. L'occasione favorevole dell'invasione gallica e della successiva anarchia in Macedonia era trascorsa e ne avevano approfittato gli altri. Sicché un intervento di P., se poteva dargli, grazie alla permanente instabilità delle condizioni e al suo genio militare, qualche successo, doveva in sostanza giocare come elemento perturbatore, non come elemento unificatore. Certo, se si consolidava nuovamente la Macedonia, l'Epiro non poteva non trovarsi ridotto di nuovo in quella condizione di potenza di second'ordine, in cui era stato sempre prima di P. e anche sotto P., quando Lisimaco aveva conquistato la Macedonia. Ma questo non era se non la conseguenza inevitabile della misura effettiva della potenza epirotica, la quale dalle campagne di P. in Occidente non aveva avuto nessun incremento utile. Perciò, senza nessuna vera necessità e senza nessuna seria speranza di restaurazione e d'unificazione, P. iniziò la sua ultima avventura con un'ardita avanzata in Macedonia (274). Dopo un'avvisaglia fortunata contro Antigono, riuscì a ottenere che defezionasse a lui la falange macedonica. Antigono infatti non aveva ancora potuto radicare saldamente il suo dominio e i Macedoni non avevano ancora appreso quella fedeltà verso la sua casa che poi dimostrarono inconcussa per oltre cento anni fino alla battaglia di Pidna. Con ciò tutta l'alta Macedonia venne in mano di P., mentre Antigono conservò la Macedonia marittima e quella ad oriente dell'Assio. Era chiaro che questo smembramento della Macedonia non poteva essere stabile e che unificarla sotto il suo dominio P. non poteva, perché Antigono, padrone del mare, teneva saldamente le piazze marittime. Rimaneva da combattere Antigono nel Peloponneso dove egli conservava largo dominio. Ma qui, per ottenere risultati di qualche conto, bisognava abbattere la potenza spartana con rischio evidente che Areo e Antigono, fino allora rivali, unissero le forze contro il nuovo nemico. Anche qui P. agì di sorpresa. Con grande rapidità di mosse, attraverso l'Etolia che gli era amica, condusse l'esercito sulle sponde del golfo corinzio e lo tragittò nel Peloponneso. Qui fu accolto a braccia aperte dagli Achei, dagli Elei e da parte degli Arcadi che speravano in lui il tutore della propria libertà. Gli si diede perfino Megalopoli, che da tempo era come la cittadella del dominio macedonico nel Peloponneso; e P. invase senz'altro la Laconia portando con sé un pretendente di sangue reale, Cleonimo, che voleva sostituire ad Areo. L'attacco era stato così impreveduto che Areo era lontano e prendeva parte a una guerriglia in Creta. Ma la sorpresa di Sparta non riuscì a lui come non era riuscita poco meno di un secolo prima ad Epaminonda. La città d'altronde non era più aperta. Le fortificazioni furono riattate e gli Spartani, comprese le donne, si difesero accanitamente e riuscirono a sostenersi fino al ritorno di Areo. P. si propose di sottomettere Sparta bloccandola, ma sbarcò nel Peloponneso con un esercito Antigono, ciò che indusse P. ad abbandonare il blocco, per non rischiare egli stesso di essere chiuso in Laconia tra gli eserciti di Antigono e di Areo, e a ripiegare verso nord non senza subire gravi perdite per opera di Areo che lo seguiva passo passo. In Argolide egli si trovò di fronte i due eserciti avversarî, ma invece di abbandonare l'impresa riconoscendone il fallimento e mettendo in salvo a tempo il suo esercito, tentò di giocare l'ultima carta entrando in Argo per sorpresa in presenza dei due eserciti nemici. Se anche la sorpresa fosse riuscita, la sua posizione sarebbe stata sempre strategicamente assai grave e quasi disperata, così lontano come egli era dalla sua base epirotica in presenza di forze nemiche preponderanti che avevano assai più vicine le loro basi. Ma ad ogni modo il temerario tentativo fallì. Il re vi perdette la vita (273 o 272) e l'esercito dovette arrendersi agli avversarî. Antigono si mostrò clemente non solo onorando il cadavere del nemico, ma rilasciando il figlio di P., Eleno, che era venuto dall'Italia probabilmente con gran parte delle forze ivi rimaste per accompagnare il padre nella spedizione peloponnesiaca, e facendo pace con l'altro figlio Alessandro erede del trono (il figlio maggiore Tolomeo era morto combattendo presso Sparta). La pace gli ridava naturalmente la Macedonia, ma lasciava ad Alessandro l'Epiro coi territorî acquistati dal padre in Grecia: ciò che giovava allora anche alla Macedonia, la quale aveva bisogno di un periodo di raccoglimento e di consolidamento. L'impresa d'Italia terminò ingloriosamente col tradimento della rocca tarentina ai Romani per opera del comandante epirota Milone, il quale procedette, è da credere, d'accordo col nuovo re Alessandro per cui la conservazione di Taranto, dove il partito filoromano cominciava a dare serî fastidî agli Epiroti, non era che uno sperpero inutile di energie.
L'esame attento delle vicende di P. mostra che la molla di tutte le sue imprese fu il desiderio di costituirsi un impero. Questa sua ambizione non s'incontrò che parzialmente con gl'interessi dei suoi Epiroti, le cui migliori energie egli spese nel cercar di fondare tale impero. È chiaro infatti che essi dalla conquista dell'impero non avrebbero avuto nessun vantaggío proporzionato ai loro sacrifizî e ne avrebbero profittato assai meno di quel che i Macedoni dalla conquista dell'Asia. Fu invece ventura per P. che queste sue mire ambiziose combaciassero con la difesa degl'interessi ellenici nelle sue campagne occidentali, le quali del resto non giovarono affatto a lui e giovarono solo nella ristretta misura che abbiamo precisata alla causa dell'ellenismo. Ciò in parte, specie in Italia, procedette da cause indipendenti dalla sua volontà e da lui imprevedibili, ma in parte, specie in Sicilia, dipese dal fatto che egli non intervenne con la mira disinteressata di difendere l'ellenismo, ma anche e soprattutto con quella di fondarsi un impero. In Grecia poi, sebbene astrattamente si possa dire che ogni tentativo d'unità nazionale era utile ai Greci anche se vi riluttavano, in concreto non si può non rilevare che nei mezzi relativamente ristretti e nella mancanza in P. di una vera idealità che non fosse quella del soddisfacimento della propria ambizione, era il germe dell'insuccesso per cui i suoi tentativi furono in realtà dannosi non meno alla Grecia che all'Epiro. Le forze dell'Epiro nel pieno rigoglio si sperperarono nelle lotte fratricide senza risultato, mentre si sarebbero potute adoperare assai utilmente per stendere a nord i limiti dell'ellenismo nella regione illirica, ciò che poi avrebbe permesso ai Greci di resistere con maggiore speranza di successo alla penetrazione romana nella Penisola Balcanica.
Intellettualmente e moralmente P. non differì molto dai primi diadochi alla cui scuola egli visse e di cui condivise l'ambiente spirituale. Prode soldato, esperto ufficiale, egli non ebbe però né il genio creatore di un Epaminonda o di un Annibale, né le vaste concezioni di Annibale stesso, di Scipione o di Cesare, e la sua soverchia temerità spiega i non rari insuccessi, compreso quello in cui trovò la morte. Come politico ebbe larghezza di visuale e arditezza di concezioni, ma gli mancò il senso concreto del possibile. Non difettò di generosità magnanima, ma incrudelì quando ve lo spingeva l'interesse, e talora contro il suo interesse quando ve lo spingeva l'insofferenza d'ostacoli. Per soddisfare alla sua ambizione non esitò a ricorrere all'assassinio, come del resto fecero i suoi contemporanei, Cassandro, Demetrio Poliorcete e Tolomeo Cerauno: segno dell'inferiorità morale degli Epiroti e dei Macedoni rispetto agli altri Greci e della sfrenatezza cui apriva la via il potere illimitato e senza controlli. Anche nella vita familiare P. si comportò come la maggior parte dei diadochi. Dopo la morte di Antigone, figliastra di Tolomeo di Lago, egli sposò Lanassa, figlia di Agatocle, e nello stesso tempo si unì con una figlia di Audoleonte, re dei Peoni, e con Bircenna, figlia del re illirico Bardili, il che provocò lo sdegno e la separazione di Lanassa. Ebbe da Antigone Tolomeo, da Lanassa Alessandro, da Bircenna Eleno, e, non sappiamo se da Antigone o da una delle mogli barbare, una figlia, Olimpiade, la quale sposò il fratellastro Alessandro. Al pari di altri diadochi P. si sperimentò come scrittore. È menzionata una sua Tattica (τακτικά) e gli sono attribuite anche Memorie (ὑπομνήματα), che però non sappiamo se siano propriamente opera sua o solo scritte per sua iniziativa (gli scarsissimi frammenti in Müller, Fragm. Hist. Graec., II, p. 461).
Fonti: La storia di P., oltreché nelle Memorie dello stesso P., fu narrata in tutto o in parte da non pochi scrittori contemporanei, come Prosseno, che scrisse una storia epirotica ('Ηπειρωτικά) in cui si parlava largamente di quel re, Ieronimo di Cardia (v.), che con le sue storie giungeva almeno fino alla morte di P., Duride di Samo, che si spingeva almeno fino alla battaglia di Corupedio, e Timeo che perveniva con la sua storia siciliana fino al passaggio in Sicilia dei Romani. Per le ultime vicende di P. soccorreva anche Clitarco, le cui storie s'iniziavano appunto con la spedizione di P. nel Peloponneso. Le fonti romane sono tutte assai posteriori e fondate solo in piccola misura sulle registrazioni contemporanee dei pontefici e in particolare sui fasti trionfali, in massima su tradizioni familiari più o meno alterate dalla vanagloria e sugli stessi Greci in parte tendenziosamente alterati e travisati. Faceva solo eccezione il discorso di Appio Claudio Cieco contro la pace con P., per la cui autenticità v. claudio cieco, appio. Tutte queste fonti sono perdute. Per noi la fonte principale è la vita di P. in Plutarco, al solito di difficilissima analisi, la quale contamina fonti greche con altre, come Dionisio di Alicarnasso, che, greche o no, risentono l'influsso dell'annalistica romana. Inoltre Diodoro, purtroppo frammentario (lib. XXI-XXII), Giustino, che riassume negligentemente Trogo e ha il solo vantaggio d'essere indipendente dalle falsificazioni dell'annalistica (lib. XVI-XVIII; XXIIIXXV), Pausania il Periegeta in parecchie digressioni, le Perioche di Livio (12-15), le cui storie per questo periodo mancano, e le altre fonti da lui derivate. Infine, anch'essi in tutto o in parte sotto l'influsso romano, Dionisio (frammenti dei lib. XIX e XX), Dione Cassio (fr. 39-40 e presso Zonara, VIII, 2-6) e Appiano (Samn., 7-12).
Bibl.: Delle maggiori storie greche sia qui citata solo per i particolari intorno alla cronologia e alla genealogia la Griechische Geschichte di K. J. Beloch, IV, ii, 2ª ed., Berlino 1927, p. 147 segg. Inoltre R. v. Scala, Der pyrrhische Krieg, Berlino 1884; R. Schubert, Gesch. des Pyrrhus, Königsberg 1894; G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Torino 1907, p. 380 segg.; C. Klotzsch, Epirotische Geschichte bis zum Jahre 280 v. Chr., Berlino 1911; G. N. Cross, Epirus, a study in Greek constitutional development, Cambridge 1932. - Per le battaglie di P. cfr. anche H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I, 3ª ed., Berlino 1920, pp. 306-310. - Per la monetazione di P. in Sicilia, W. Giesecke, Sicilia numismatica, Lipsia 1923, p. 105 segg.