PIO VI papa
Giannangelo Braschi nacque il 25 dicembre 1717 a Cesena da Marco Aurelio e Anna Teresa Bandi; suo padre discendeva da antica nobiltà. A diciassette anni conseguì la laurea in utroque iure. Dopo essere stato segretario e uditore del card. Ruffo, fu segretario di Benedetto XIV; nel 1773 ebbe la porpora. Il 15 febbraio 1775 fu eletto papa, dopo avere preso impegno di non ricostituire la Compagnia di Gesù.
Con lui risorse il nepotismo. Chiamò infatti a Roma il nipote Luigi, primogenito di sua sorella Giulia Francesca moglie di Girolamo Onesti, e gli diede in sposa Costanza Falconieri; il dono per le nozze, che il papa volle celebrare personalmente nella cappella Sistina (giugno 1781) e che furono cantate dal Monti, consistette in diecimila doppie d'oro; ma ben presto Luigi fu messo in condizione di prendersi i beni posseduti dai gesuiti a Tivoli per un canone di 85 mila scudi e di acquistare il ducato di Nemi; inoltre, con grave scandalo, fu nominato erede d'un dignitario dell'ordine di Malta, Amanzio Lepri.
Come sovrano temporale P. mirò a valorizzare il territorio con la bonifica del terreno paludoso tra Cisterna e Terracina: l'impresa, nella quale furono impiegati 3500 operai e che egli non volle abbandonare nonostante le critiche, ebbe un successo soltanto parziale, ma fece impressione ai contemporanei. Molta cura dedicò alle comunicazioni: costruì la strada da Velletri a Terracina e quella da Subiaco a Tivoli; compì lavori di dragaggio nel Tevere e lavori idraulici nelle legazioni. L'amministrazione statale, nonostante le buone intenzioni di P., non fu buona; l'ingordigia del nipote influì sul disordine delle finanze. Incremento notevole ebbero gli studî; il mecenatismo fu una passione di P. La passione per l'antichità spinse il papa a completare il museo, della cui costruzione era stato animatore Clemente XIV, e a promuovere scavi che diedero risultati splendidi: basti ricordare il rinvenimento dell'Apollo citaredo e del sepolcro degli Scipioni. I tesori artistici insieme col fasto delle cerimonie diedero un'inusitata grandiosità alla Roma di P., illuminata dal risorto classicismo.
Artisti italiani, fra cui il Canova, francesi, fra cui il David, tedeschi, fra cui il Goethe, davano a Roma un fascino insuperabile, mentre nelle cerimonie il papa, nella sua solennità, s'imponeva ai cattolici e agli eretici. Roma fu meta di viaggi di personalità appartenenti alle più insigni case principesche d'Europa.
Tuttavia i rapporti con gli stati erano irti di difficoltà. A Napoli il governo continuò a demolire le vecchie posizioni della Chiesa: il concordato del 1741 divenne lettera morta. La mitezza di Pio VI incoraggiò il governo a sopprimere la secolare forma di vassallaggio dalla Santa Sede. Il papa protestò, ma il governo non tornò indietro. L'umiliazione di Pio VI fu clamorosa, quando il nunzio fu invitato a lasciare il regno per avere consegnato senza il regio exequatur i due brevi sulla causa dell'annullamento del matrimonio del duca di Maddaloni (29 settembre 1788). Non meno grave il dissidio col granduca di Toscana, la cui politica ecclesiastica era ispirata da Scipione de' Ricci. Pio VI commise l'errore di approvare la nomina del Ricci a vescovo di Pistoia e di permettere che i conventi femminili fossero messi sotto la giurisdizione del vescovo. L'attività giansenistica del Ricci divenne più intensa per la moderazione dimostrata dal papa; soltanto per la fermezza dell'episcopato toscano fu mandato a vuoto il tentativo della convocazione d'un concilio nazionale. Soltanto dopo il passaggio di Leopoldo I sul trono imperiale, Pio VI pubblicò la bolla Auctorem Fideli non senza avere tentato una conciliazione col Ricci.
Nella bolla del 28 agosto 1794, 85 proposizioni del sinodo di Pistoia vennero colpite una per una da particolare censura, ma la diffusione della bolla stessa non fu permessa né in Toscana, né a Napoli, né a Venezia, né nella Spagna, né nell'impero.
Una questione gravissima Pio VI dovette risolvere con Federico II e con Caterina di Russia: la soppressione della Compagnia di Gesù nella Prussia e nella Russia. Il papa, nonostante l'incitamento di Federico II a ribellarsi alle corti borboniche, concesse al sovrano l'impiego dei gesuiti nella cura delle anime e nella scuola ma considerò la Compagnia disciolta.
Più drammatica si presentò la questione con la zarina, la quale era fermamente decisa a conservare l'ordine per i bisogni culturali. Anche in Russia Pio VI considerò la Compagnia disciolta e concesse ai gesuiti l'ordinazione, ma semplicemente come individui. Ma la zarina volle fosse istituito un noviziato per i gesuiti e il vescovo di Mogilev, Stanisław Siestrzeńcewicz nella pastorale ad esso relativa affermò che Pio VI non aveva ordinato l'esecuzione del breve di Clemente XIV nella Russia. Di fronte a fatti così gravi, Pio VI si limitò a protestare, perché, mentre era preoccupato delle corti borboniche, non voleva scontentare Caterina, che minacciava rappresaglie contro i cattolici.
Anche con Vienna i rapporti erano divenuti sempre meno cordiali, per la penetrazione delle correnti antiecclesiastiche nella corte e nel ministero. Il 26 marzo 1781 l'obbligo del placet fu esteso a tutte le bolle, ai brevi e a tutte le ordinanze di Roma e agli ordini fu vietato di dipendere dai loro superiori generali; la provvista dei vescovati e delle abbazie del Milanese fu avocata all'imperatore; il 20 ottobre fu pubblicato l'editto di tolleranza e annunziata la soppressione dei conventi. Era una vera minaccia di rottura con Roma. Il papa decise di trattare verbalmente con Giuseppe II. Il 27 febbraio 1782, egli iniziò il viaggio, tra la più viva emozione del collegio cardinalizio e del mondo cattolico. A Vienna fu accolto con grandi onori e ospitato nella Hofburg; ma non mancarono manifestazioni antiecclesiastiche, come la pubblicazione del libello Che cos'è il Papa? dell'Eybel.
Le conferenze si svolsero con la partecipazione del Kaunitz e del Kobenzl, secondo un disegno già preparato dalla corte; il papa espose le sue obiezioni in un documento che era una critica severa di tutta la legislazione giuseppina. Dopo alcune cerimonie religiose, il 22 aprile il papa ripartì. Il viaggio nel quale il "pellegrino apostolico" aveva tanto sperato, non modificò affatto la situazione; anzi, altri provvedimenti antiecclesiastici furono emanati dall'imperatore durante il soggiorno di Pio VI a Vienna e dopo la sua partenza: per es., l'istituzione della commissione aulica ecclesiastica, che portò al passaggio dell'intero patrimonio ecclesiastico sotto la direzione dello stato. Pio VI non elevò protesta. Una rottura parve inevitabile con l'aspra protesta del papa contro la nomina ad arcivescovo di Milano del canonico Filippo Visconti, fatta dall'imperatore. Giuseppe II si recò a Roma per evitare una rottura (23 dicembre 1783). Ancora una volta il papa si piegò, rinunciando a favore di Giuseppe II, come duca di Milano, al diritto di nomina per i vescovati, le abbazie e altri istituti dei ducati di Milano e di Mantova. Pio VI pensò di guadagnarsi l'appoggio del duca di Baviera contro l'Austria, istituendo la nunziatura a Monaco; ma il 7 novembre 1785, su richiesta degli arcivescovi tedeschi, Giuseppe II soppresse i tribunali di nunziatura in Germania. Ma contro la pretesa degli arcivescovi, protetti dall'imperatore da essi chiamato "amministratore della chiesa germanica" di ristabilire gli originarî diritti archiepiscopali, Pio VI tenne duro e con la Responsio fissò i diritti della Santa Sede.
Il dissidio col papa nocque, alla fine, all'imperatore: nella rivolta del Belgio non ebbe poca parte il clero.
La tempesta più grave contro la Chiesa si scatenò con la rivoluzione francese. Di fronte alle gravi deliberazioni dell'Assemblea nazionale in materia ecclesiastica, Pio VI dimostrò mitezza, dominato dal desiderio di evitare una rottura. Le stesse notizie sulla costituzione civile del clero non lo indussero a uscire dal riserbo: indisse pubbliche preghiere per la protezione della Chiesa, ma poi volle fossero limitate alla città di Roma e non contenessero alcuna allusione alla Francia. Il 10 luglio 1790 inviò un breve a Luigi XVI, prospettandogli il pericolo d'uno scisma ove sanzionasse la costituzione civile del clero e protestando contro l'assemblea nazionale che intendeva sovvertire la dottrina e la costituzione della Chiesa. Ma il re che, il 22 luglio, aveva fatto comunicare all'Assemblea la sua decisione di sanzionare la costituzione, mise Pio VI di fronte al dilemma: o approvare la costituzione o esporre la Chiesa a uno scisma. Pio VI, titubante, affidò a una congregazione cardinalizia l'esame delle proposte d'un accordo provvisorio e deplorò la sanzione data dal re, ma non pronunciò un'esplicita condanna della legge. Credeva ancora possibile un'intesa, ma l'Assemblea nazionale gli tolse questa speranza, dando subito esecuzione alla legge. La preoccupazione che altri paesi imitassero la Francia, l'occupazione di Avignone, l'assicurazione data dal governo di aiuto in caso di conflitto, la resistenza dei vescovi e del clero francesi al giuramento civile, furono i motivi che indussero finalmente Pio VI a pubblicare la condanna dell costituzione civile del clero (10 marzo 1791) e a ribadire poi la condanna il 13 aprile 1791 con un altro breve a tutto il clero e al popolo francese.
Il 31 maggio, il nunzio lasciò Parigi; il papa protestò presso le potenze contro l'annessione di Avignone e del Venassino; il 19 marzo 1792, mentre l'Assemblea legislativa approvava una legge contro i preti non giurati, mando brevi ai vescovi fedeli esortandoli alla resistenza e al clero costituzionale comminò la scomunica se entro centoventi giorni non si fosse ravveduto. Col rifiuto opposto da Luigi XVI a sanzionare la legge 27 maggio sulla espulsione dei preti non giurati, Pio VI fu considerato alleato del trono.
Cominciò la propaganda rivoluzionaria nello stato della Chiesa; per combatterla Pio VI adottò varî provvedimenti e espulse gli emissarî francesi ritenuti sospetti.
Tuttavia, rimase nella più rigida neutralità. Ma a Roma il Bassville divenne sempre più prepotente nell'esigere la liberazione di Francesi sospetti e il comitato esecutivo della repubblica ammoniva il papa - "il principe vescovo di Roma" - che poteva conservare lo stato a condizione che facesse professione disinteressata dei principî evangelici. Ma Pio VI si rifiutò di sostituire l'emblema della repubblica all'arma dei gigli, e respinse la richiesta li riparazioni per la morte di Bassville: gli dava coraggio l'entrata in guerra della Spagna, del Portogallo e dell'Inghilterra. Però, per la crisi finanziaria, il popolo romano, che aveva fino allora ammirato la fierezza del papa, inveiva contro il duca Braschi, accusato di losche speculazioni; nell'autunno 1794 a Bologna era scoperta la congiura di Lodovico Zamboni. Intanto, la liberale ospitalità data dal papa agli emigrati lo fece considerare un nemico del nuovo stato francese. Si fece strada perciò la convinzione che fosse necessario abbattere così il dominio spirituale come quello temporale del papa. Da Milano, il 21 maggio 1796, Napoleone annunciò la liberazione del popolo romano dalla lunga servitù. Mentre Bologna, Ferrara e Ravenna venivano conquistate, Pio VI sollecitò un armistizio che gli fu concesso, il 23 giugno 1796, a condizioni durissime. Inviò a Parigi il Pieracchi per negoziare la pace, ma compì un gesto di estrema gravità: la trasmissione al negoziatore di duemila copie d'un breve con cui esortava i cattolici francesi a riconoscere l'autorità politica voluta da Dio, a sottomettersi ad essa per non incorrere in pene temporali ed eterne. Era il riconoscimento del nuovo stato francese. Le richieste francesi furono esorbitanti e le trattative furono rotte; Pio VI respinse le nuove proposte fatte dai Francesi a Firenze, rispondendo che non avrebbe mai tollerato oltraggi alla Chiesa, neppure a prezzo della propria vita. Si preparò alla guerra, ma l'esercito al comando del generale imperiale Colli fu battuto. Col trattato di Tolentino (19 febbraio 1797) Pio VI accettò le condizioni del trattato di Bologna e cedette Avignone, il Venassino, le legazioni di Bologna, Ferrara e Romagna. Per versare il tributo di guerra, Pio VI vendette i suoi oggetti di valore e spogliò le sue vesti delle perle e degli ornamenti. Un anno dopo, l'uccisione del generale Duphot diede il pretesto al governo francese d'occupare Roma. Pio VI, sperando di risparmiare a Roma l'ultima sciagura, accettò le condizioni impostegli dal Berthier. Ma il 15 febbraio 1798, anniversario della sua elevazione al papato, Pio VI fu deposto come principe temporale e proclamata la Repubblica romana; per misura di protezione, fu dichiarato in arresto. Il 17 febbraio ebbe l'ordine di lasciare Roma; il 20, conferiti ai membri del Sacro Collegio i poteri necessarî e nominata una congregazione dei tre ordini cardinalizî, partì per l'esilio. Siena fu la prima tappa. Ivi rimase tre mesi, mantenendo il carteggio con le nunziature. I sovrani cattolici non gli diedero che belle parole. Il 1° luglio fu trasferito nella Certosa di Firenze; di lì invitò i membri del Sacro Collegio a recarsi nel Veneto; con la bolla del 13 novembre 1798 agevolò l'elezione del futuro papa, eliminando tutte le cerimonie e fissando a due terzi il numero dei voti necessarî per l'elezione. Da Firenze venne trasferito a Parma, di là a Torino, a Briançon, a Grenoble e finalmente, il 10 luglio 1799, a Valenza, dove fu dichiarato prigioniero di stato. Logoro da patimenti morali e fisici, il 29 agosto 1799 si spense. La salma, imbalsamata, rimase nella cappella del castello fino al dicembre; il 30 gennaio 1800 fu trasferita nel cimitero; la notte di Natale 1801, per disposizione di Napoleone, fu portata a Roma e posta nelle grotte del Vaticano: un grandioso monumento, opera del Canova, gli fu innalzato in San Pietro il 26 novembre 1822.
Bibl.: L. Pastor, Storia dei papi, trad. it., XVI, 3, Roma 1934 (con ampia bibliografia).