PIO IX, papa, beato
PIO IX, papa, beato. – Giovanni Maria Mastai Ferretti nacque a Senigallia il 13 maggio 1792, ultimo dei nove figli del conte Girolamo e di Caterina Solazzi, una famiglia di agiati proprietari agrari della piccola nobiltà locale che contava due vescovi, Andrea, ordinario di Pesaro, e Paolino, curiale a Roma. Verso i dieci anni il ragazzo fu colpito da una grave forma di epilessia che, fra alti e bassi, lo tormentò fino ai trent’anni, cessando solo nei primi anni di sacerdozio (per l’ordinazione fu necessaria una speciale dispensa e l’obbligo di un assistente alla messa), e gli impedì studi regolari. Nel 1816, a Roma, il giovane maturò la decisione di farsi sacerdote, non aspirando a una carriera, ma per motivi ascetici e pastorali. Dopo tre anni di studi al Collegio romano, nel 1819 Mastai venne ordinato e si dedicò all’assistenza in un collegio per giovani poveri detto Ospizio di Tata Giovanni e in missioni popolari nel Lazio e nelle Marche. Il giovane prete, sentito parlare di una spedizione per il Cile, interpretata ingenuamente come un’iniziativa missionaria più che diplomatica, ottenne di esservi aggregato come segretario del principale responsabile, monsignor Muzi. La missione partì da Genova nell’ottobre 1823, e, attraverso le Ande, giunse a Santiago nel marzo 1824, ma fallì interamente per il giurisdizionalismo delle autorità cilene e per l’intransigenza di Muzi, che fece ritorno a Roma nel luglio 1825. Muzi venne sostanzialmente messo da parte, mentre Mastai conservò la fiducia della S. Sede per la prudenza e la serietà mostrate in quei mesi. Venne così nominato nell’autunno 1825 presidente dell’Istituto S. Michele, la più importante opera assistenziale dell’Urbe, nel 1827 vescovo di Spoleto, nel 1832 arcivescovo di Imola, alla fine del 1840 cardinale. Nel periodo romagnolo Mastai si guadagnò la simpatia di molti, anche dei liberali moderati, per il suo carattere affabile e per le sue convinzioni sull’inefficienza dell’amministrazione gregoriana e sulle esigenze oggettive di un cambiamento di indirizzo. Mastai era inoltre ben informato del dibattito politico in corso e aveva letto o scorso alcune delle opere fondamentali del momento, come Il Primato morale e civile degli italiani (1843) di Vincenzo Gioberti, Le Speranze d’Italia (1844) di Cesare Balbo o Degli ultimi casi di Romagna (1846) di Massimo d’Azeglio.
Nel conclave, aperto la sera del 14 giugno 1846 dopo tredici giorni di sede vacante, fra i cinquanta cardinali presenti (su sessantadue) emersero subito due correnti: i ‘gregoriani’, che miravano a Lambruschini, segretario di Stato del papa defunto e notoriamente conservatore, e i fautori di un indirizzo più conciliante, con a capo il cardinale Polidori, amico di Mastai da decenni, e il cardinale Micara, capo riconosciuto dell’opposizione a Lambruschini. Nei giorni di attesa, Polidori aveva avuto contatti e raccolto adesioni in favore di Mastai, ancora assente. Mancavano del resto altri candidati possibili. Così in due giorni si arrivò all’elezione del vescovo di Imola. Il nuovo papa, relativamente giovane, abbastanza esperto nell’amministrazione e nella cura pastorale, di pietà sincera e profonda, mancava però di preparazione politica e teologica. Sarebbe stato capace di trovare l’equilibrio necessario per realizzare la svolta aspettata e desiderata?
L’incerta attesa dei primi giorni durò sino al 16 luglio, quando venne proclamata l’amnistia ai condannati politici. Il provvedimento, in sé di modeste proporzioni, costituì l’inizio di un tragico equivoco, in parte spontaneo, in parte artificiosamente montato da radicali e moderati. Pio IX intendeva muoversi nella linea di un dispotismo illuminato, che prevedeva concessioni limitate e ottriate, riforme amministrative, innovazioni (come le ferrovie che si diceva che il predecessore, Gregorio XVI, avesse definito strumento del demonio), senza tuttavia intaccare la forma di governo. Papa Mastai probabilmente non pensava a una costituzione, né, tanto meno, a mettersi a capo del movimento liberale e nazionale italiano. Tuttavia, l’entusiasmo della base salutò i primi atti del nuovo pontefice come l’inizio di una nuova era. L’equivoco crebbe per l’incapacità di Mastai di formulare e chiarire al pubblico un preciso programma che dissipasse subito le illusioni, e anche a causa di alcuni gravi errori da lui commessi sotto l’influenza delle passioni e degli entusiasmi di quei giorni, come quei gesti e quelle frasi clamorose che, interpretate al di là della loro portata, finirono per rafforzare il mito di un papa liberale e nazionale. Famosa l’allocuzione del 10 febbraio 1848, «Benedite, gran Dio, l’Italia!», che sembrò incoraggiare la lotta contro la dominazione austriaca. Nel 1847 si realizzarono alcune riforme importanti: moderata libertà di stampa (15 marzo), un Consiglio dei ministri (giugno), guardia civica (inizio luglio), inaugurazione della Consulta di Stato (novembre), Consiglio comunale di Roma (novembre), come pure si avviarono le trattative per una lega doganale con gli Stati italiani, che apparve come la premessa per un’unificazione federale sul modello giobertiano.
Con il 1848 gli eventi incalzarono scelte spesso affrettate. Davanti alle rivoluzioni di Palermo (gennaio), Parigi (febbraio), Berlino, Vienna, Milano, Venezia (marzo), Ungheria (mesi seguenti), dove si accavallavano e fondevano istanze nazionalistiche e sociali insieme a fattori politici, davanti alla caduta di Metternich, l’Europa intera fu scossa e per Pio IX tutto apparve come una manifestazione della volontà di Dio, che abbatte i superbi ed esalta gli umili. Il papa si sentì chiamato a interpretare e mediare questa volontà (proclama del 30 marzo, segno dell’intensa partecipazione del papa alla passione nazionale di quei giorni, ma anche della sua immaturità storica, politica, pastorale). Contemporaneamente, sotto l’impressione degli ultimi avvenimenti, l’opinione pubblica non si contentava più di organi consultivi, ma chiedeva la trasformazione del regime assoluto in un sistema costituzionale. Il pontefice comprese la portata della domanda, tentò di frenare o impedire il cambiamento negli Stati italiani, ma finì per seguire gli studi fatti in proposito nell’Urbe dal febbraio al marzo, in vista di uno Statuto, finalmente promulgato il 14 marzo.
Il documento mostrava lo sforzo di conciliare il riconoscimento abbastanza largo delle libertà politiche con la tutela della libertà del papa nel governo della Chiesa e nelle decisioni religioso-politiche relative al suo Stato. Si tentava un compromesso fra i regimi assoluti e quelli costituzionali, mantenendo indirettamente, ma chiaramente, il carattere confessionale dello Stato e varie discriminazioni religiose, subordinando il potere legislativo delle due Camere al Concistoro.
Lo sforzo sincero, ma inadeguato di conciliare moderazione e autorità, fedeltà alla propria missione pastorale e sincera partecipazione alle aspirazioni italiane verso l’indipendenza, si mostrò drammaticamente davanti allo scoppio della prima guerra di indipendenza contro l’Austria. Pio IX, dopo aver in un primo momento inviato le proprie truppe a sostegno del Regno di Sardegna, fu costretto a dissipare gli equivoci con l’allocuzione chiarificatrice del 29 aprile 1848. Il documento mostrava il dramma interiore del papa e il controllo esercitato su di lui dalla Curia, in quel caso probabilmente dal cardinale Giacomo Antonelli. Sparivano nel testo ufficiale le affermazioni che rivelavano la sua partecipazione alle passioni del 1848, analoghe a quelle del proclama del 30 marzo, sostituite dalla dichiarazione di non potere intervenire in una guerra contro un popolo cattolico e dalla condanna del progetto neoguelfo di mettere il papa a capo di uno Stato italiano. Tuttavia Pio IX ammetteva di non poter impedire ai propri sudditi di partecipare come volontari alla lotta ingaggiata da Carlo Alberto. L’allocuzione mostrava quindi il travaglio del papa, ma anche una linea politica inadeguata e destinata a fallire. I mesi seguenti, con lo sterile sforzo di tenere in vita un governo costituzionale salvando i principi essenziali della democrazia, l’ordine pubblico, l’indipendenza del papa, non raggiunsero l’obiettivo. L’esperienza liberale di Pio IX si chiuse con l’assassinio del nuovo presidente del Consiglio, Pellegrino Rossi, il 15 novembre, con la rivoluzione del 16, con la fuga a Gaeta la notte del 24. Seguì a Roma nel febbraio 1849 la proclamazione della fine del potere temporale e l’avvento della Repubblica Romana.
L’amara conclusione del triennio 1846-48 influì in modo decisivo su Pio IX, il quale, insieme all’amarezza e alla delusione, maturò in quei mesi di esilio le convinzioni che ispirarono il resto del lungo pontificato. Rassegnatosi presto a chiedere l’intervento straniero per il ristabilimento del suo potere a Roma e risoluto nel restaurare nel suo Stato un governo assoluto, il papa, dopo il fallimento dello Statuto, si persuase soprattutto che il regime costituzionale, il sistema parlamentare, la libertà di stampa, fossero intrinsecamente cattivi.
Accolto con rispetto, ma senza gli entusiasmi di una volta, Pio IX tornò a Roma nell’aprile 1850. L’amministrazione dello Stato nell’insieme restò discreta, con il pareggio del bilancio raggiunto nel 1859, ma con una forte arretratezza nei lavori pubblici, il latifondo incolto intorno a Roma, la cronica assenza di una industrializzazione. Non mancarono episodi che rivelavano una situazione tesa, come il caso Mortara (un ragazzo ebreo di Bologna, battezzato clandestinamente dalla domestica cristiana e per questo nel 1858 sottratto alla famiglia per ricevere un’educazione cattolica coerente con il battesimo ricevuto). L’indirizzo conservatore, ormai chiaro a Gaeta, come pure l’influenza e le pressioni esercitate dalla Curia su un Pio IX emotivo, stanco e amareggiato, apparvero netti nella condanna di Delle cinque piaghe della S. Chiesa di Antonio Rosmini, che pure aveva goduto della stima del pontefice, e de Il gesuita moderno, di Vincenzo Gioberti, condanna quest’ultima che segnò il cambio di passo del pontificato e l’inizio dell’assoggettamento dell’ambiente romano alla potente influenza e all’intransigentismo dei gesuiti, di cui La civiltà cattolica, nata proprio negli anni dell’esilio del pontefice, divenne organo di diffusione.
Sulle pagine della rivista si consumava anche lo scontro, condotto a nome della S. Sede, contro la modernità e tutte le politiche giurisdizionaliste. In Piemonte, davanti al progetto e poi al varo delle leggi Siccardi per l’abolizione del foro ecclesiastico, Pio IX rispose con la rottura delle relazioni diplomatiche e la scomunica ai fautori delle leggi, misura a cui il governo piemontese replicò con l’esilio nel 1850 dell’intransigente arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni.
Quella con Giacomo Antonelli, prosegretario di Stato dal 6 dicembre 1848 e segretario di Stato dal 1852 alla morte nel 1876, fu una collaborazione davvero singolare e quasi trentennale, sviluppatasi nello strano connubio fra un papa religiosissimo e di profonda preghiera e un uomo privo di ogni autentico spirito di pietà che non ricevette mai il sacerdozio, pur rimanendo sostanzialmente fedele ai propri doveri religiosi essenziali di cardinale, compreso il celibato. Incapace di condividere le preoccupazioni apostoliche del suo sovrano e assistendo da lontano all’opera riformatrice del papa nei settori strettamente religiosi, Antonelli si rivelò buon economista, discreto diplomatico, efficace strumento negli altri campi del governo della Chiesa (orientamenti economici, amministrazione quotidiana, concordati, difesa dell’indipendenza della S. Sede, questione romana), ma conservatore, ambizioso, avido, portato ad allontanare chiunque potesse contrastare la sua autorità, sicuro della propria abilità, incapace di cogliere gli astuti disegni di Cavour.
Lasciata la gestione delle relazioni politiche e del confronto Chiesa-Stato ad Antonelli, il papa concentrò i propri sforzi sulla riforma del clero, che avvertiva come dovere gravissimo. Moltiplicò le sue ammonizioni ai vescovi delle varie regioni italiane, rimaste più volte poco efficaci, istituì a Roma vari seminari per le diverse nazioni (Francia, 1853; America Latina, 1858; Stati Uniti, 1859; Lombardia, 1860), per migliorare il livello culturale del clero, ma anche per formare un buon numero di sacerdoti educati direttamente a quello spirito «romano» che il papa vagheggiava come ideale. Riguardo ai religiosi, con il valido appoggio di Giuseppe Andrea Bizzarri, poi creato cardinale, dopo la costituzione nel 1846 della congregazione «de statu regularium ordinum», si arrivò ai vari decreti del 1848 e del 1857, che sollecitavano una più severa selezione dei candidati, l’osservanza della vita comune e l’introduzione dei voti semplici prima di quelli solenni, onde facilitare eventuali dimissioni. Si deve certamente agli interventi dei vari dicasteri pontifici, seguiti sempre attentamente dal papa, se dopo le dispersioni dei religiosi (1855 e soprattutto 1866) questi riuscirono sostanzialmente a superare la dura prova. Riguardo ai nuovi istituti femminili, il papa si dimostrò favorevole, pur non ritenendo opportuna in quel momento l’introduzione di voti solenni, e contemporaneamente diffidente ed estremamente severo davanti a pretesi fenomeni soprannaturali ostentati da qualche suora.
Devotissimo a Maria, sin dagli inizi del pontificato Mastai si adoperò per la definizione dell’Immacolata Concezione. Gli interventi si moltiplicarono dal 1847, con elogi a Giovanni Perrone, del Collegio romano, per un’opera su questo tema, e, paradossalmente, proprio a Gaeta fra il 1848 e il 1849, quando, nell’imminenza della proclamazione della Repubblica Romana, l’episcopato venne interpellato, non sul modo più opportuno di resistere alla neonata repubblica, del resto effimera, ma sulla definizione del dogma. Davanti al parere positivo della maggioranza delle risposte ricevute, i lavori preparatori continuarono a Roma, con l’intervento di teologi come Perrone, Carlo Passaglia e altri, portando l’8 dicembre 1854 alla definizione con la bolla Ineffabilis Deus. La definizione costituì quasi un’anteprima dell’infallibilità pontificia, date le modalità di proclamazione del dogma che solo limitatamente avevano coinvolto l’episcopato.
Sul piano diplomatico, dal 1846 al 1878 vennero conclusi diciotto concordati. Possiamo distinguerli in quattro gruppi. Al primo appartengono i concordati in difesa della libertà della Chiesa, come quello con la Russia del 1847. Si trattava di uno sforzo sincero per salvare il salvabile davanti all’autocrazia e all’intolleranza russa, con scarsi risultati, che non impedirono nuovi soprusi, come il passaggio forzato alla Chiesa russa nel 1875 di un discreto gruppo di fedeli a Chełm (Polonia sudorientale). Il concordato fu praticamente revocato nel 1866. Al secondo i concordati in difesa di una società ufficialmente cristiana: con la Toscana e la Spagna nel 1851, e varie Repubbliche latino-americane, fra le quali l’Ecuador di García Moreno, nel 1862. Si riaffermavano i principi tipici della cristianità, la religione di Stato e l’intolleranza, il controllo della gerarchia sulla scuola, l’appoggio statale all’attività pastorale e, dove era possibile, la censura preventiva episcopale sui libri religiosi, il riconoscimento delle immunità, affidando però la nomina dei vescovi allo Stato. La durata di questi accordi variava secondo i casi: quasi effimera in America Latina, più stabile in Spagna, dove però non impedì la diffusione di un vivo anticlericalismo, subendo una dura sconfitta. Al terzo gruppo appartiene il concordato con l’Austria nel 1855. Pio IX sperava di fare dell’Austria uno Stato cattolico, ma all’impero tipicamente giuseppinista succedeva ormai gradualmente, fra pressioni di Vienna e resistenze di Roma, la monarchia austroungarica, tipicamente liberale. Il concordato cadde nel 1870, dopo la proclamazione dell’infallibilità pontificia al Concilio Vaticano I. Al quarto gruppo appartiene il concordato sul patronato portoghese del 1857, un compromesso, nel contrasto tra Propaganda Fide e Lisbona, che non venne mai applicato e che non ottenne i frutti sperati.
Pio IX personalmente non aveva nessuna simpatia per Francesco Giuseppe, che appena salito al trono nel dicembre 1848 gli aveva rimproverato la sua politica apparentemente liberale degli anni 1846-48; guardava invece con benevolenza a Vittorio Emanuele II, mentre con Napoleone III si realizzò un’intesa delicata e difficile. Tuttavia in Francia più gravi comunque erano i dissensi cronici con i cattolici liberali, come Montalembert, de Falloux, Broglie, monsignor Dupanloup. Le simpatie del papa andavano all’intransigente Veuillot e alla sua scuola della rivista L’Univers, come del resto, anni più tardi, in Italia, sarebbero andate a don Davide Albertario e al suo L’Osservatore cattolico. Il pontefice non era troppo caldo verso l’arcivescovo di Parigi, Sibour, a causa della sua rigidità nei confronti di Veuillot e dei suoi tentativi di indipendenza nei confronti di Roma, mentre era piuttosto ostile verso Darboy, che sarebbe deceduto fra gli ostaggi della Comune del 1870. I gesuiti redattori di Études erano seguiti con sospetto nelle loro dichiarazioni, mentre il laicato cattolico era considerato solo in funzione strumentale, come nuovo braccio secolare della Chiesa. Lo stesso capitò del resto in Gran Bretagna anche a Newman, che si era convertito nel 1845 e di cui Pio IX non comprese mai l’efficace discreto apostolato e la visione ecclesiale.
In questo clima di restaurazione maturò l’idea di una condanna degli errori moderni più diffusi. Il suggerimento della conferenza episcopale umbra di Spoleto, del 1849, fu ben visto dalla S. Sede, provocando in varie riprese dal 1850 una consultazione presso teologi italiani, francesi, belgi, spagnoli. Il progetto portò a una redazione presentata nel 1862 all’assemblea di vescovi convocati a Roma in vista di alcune canonizzazioni, ma tutto rimase sospeso. Il discorso pronunziato da Montalembert alla fine dell’agosto 1863 a Malines al congresso cattolico belga affrettò i lavori ancora lontani dalla fine. L’oratore aveva affermato che l’unica via per salvare la Chiesa era quella della libertà generale, rivendicando cioè alla Chiesa la libertà di coscienza che il liberalismo prometteva a tutti, e ritenendola conciliabile con il cattolicesimo. Per Montalembert, lo Stato, pur essendo obbligato a difendere la libertà religiosa del singolo individuo, non ha né diritto né competenza per imporre verità di fede. In seno al S. Uffizio il discorso fu confutato dal giovane barnabita Luigi Maria Bilio, che, apprezzato dal papa, divenne il principale estensore del Sillabo.
Mentre a Roma arrivavano lettere dalla Francia (Pie e, in senso opposto, Dupanloup), dal Belgio (Adolphe Dechamps, lo stesso sovrano Leopoldo I), e Antonelli scriveva nel marzo 1864 una lettera ufficiale, ma riservata a Montalembert, con varie critiche al suo discorso, augurandosi che potesse riparare il male fatto, Bilio lavorava indefessamente, stendendo integralmente la Quanta cura e redigendo l’elenco finale degli errori condannati, desunti da precedenti documenti di Pio IX. Tra la fine di novembre e la metà di dicembre 1864 i due testi erano pronti. L’enciclica Quanta cura, nel recuperare dichiarazioni precedenti del papa, sottolineava le derive giuseppiniste, ripeteva la condanna della Mirari vos sulla libertà di coscienza e vi aggiungeva il rifiuto di una legislazione che non riservasse un trattamento giuridico speciale al cattolicesimo. Maggior eco ebbe l’elenco di ottanta errori, passati alla storia con il nome di Sillabo. L’elenco era molto, forse troppo, lungo: giustapponendo questioni secondarie ed essenziali, adottava una forma sintetica che finiva per deformare in molti casi il pensiero esatto di Pio IX, che si doveva desumere dal documento originario. Il papa infatti non aveva mai negato la possibilità di salvezza eterna per quanti, pur «extra ecclesiam», fossero in buona fede e aveva condannato non la civiltà moderna in genere, ma la società liberale, per la sua frequente violazione dei secolari diritti della Chiesa. Tuttavia restavano molti dubbi di interpretazione. Gli intransigenti giudicarono il documento una condanna del liberalismo cattolico, mentre i radicali vi scorsero invece il rifiuto della civiltà moderna in se stessa. Ebbe notevole risonanza l’opuscolo di Dupanloup, La convention du 15 septembre et l’encyclique du 8 décembre, uscito alla fine di gennaio 1865, cui rispose l’anno successivo L’illusion libérale di Veuillot. Per Dupanloup, la tolleranza, la libertà di culto, lo Stato aconfessionale non erano condannati dal Sillabo in modo assoluto, introducendo la celebre distinzione tra «tesi» (non esiste un diritto teorico di seguire l’errore) e «ipotesi» (attuazione imposta dalle circostanze e, quindi, male minore) che, elogiata da Pio IX che pure dava ragione ad ambedue le parti del dissidio Montalembert-Bilio che si riproponeva nel confronto Dupanloup-Veuillot, rimase uno dei punti fermi dell’insegnamento cattolico sino al Vaticano II.
L’opposizione alle tesi del cattolicesimo liberale implicava ovviamente anche un intransigentismo sul piano della questione romana e del mantenimento del potere temporale. All’inizio della guerra contro l’Austria del 1859, il papa e Antonelli sembrarono non rendersi conto della portata degli eventi. Nel settembre 1860 prestarono fede a equivoche dichiarazioni francesi e con una larga dose di ingenuità si illusero sulla sterilità della spedizione garibaldina nel Mezzogiorno, rimanendo convinti che l’esercito piemontese non avrebbe invaso le Marche. Invece vennero la sconfitta dell’esercito pontificio a Castelfidardo, la conseguente riduzione dello Stato pontificio al solo Lazio, l’assunzione il 17 marzo 1861 da parte di Vittorio Emanuele del titolo di re d’Italia, nonché i noti discorsi su Roma capitale d’Italia rivolti da Cavour al parlamento (il ministro morì improvvisamente il 6 giugno, assistito in punto di morte dal francescano Giacomo da Poirino, che venne sospeso da Pio IX dalla facoltà di ascoltare confessioni per aver impartito l’assoluzione non avendo chiesto al morente nessuna ritrattazione). Intanto, il 18 marzo 1861, l’allocuzione Jamdudum cernimus ribadiva la necessità del potere temporale del papa, riproponendo del resto la posizione che già dal 1850 era espressa nei documenti ufficiali e nei dispacci ai nunzi.
Si discusse a lungo sulla legittimità di partecipare alle elezioni, oscillando fra la posizione negativa del 1864-65 e quella abbastanza favorevole del 1866, sino alle reiterate dichiarazioni sempre più contrarie del «non expedit» del 1867-78. I cattolici italiani restavano comunque estraniati dalla politica ufficiale e, in larga misura, dalla vita pubblica, mentre il nuovo Stato italiano attuava la sua legislazione ecclesiastica (1866, 1867) contro i religiosi e il patrimonio della Chiesa, introduceva il matrimonio civile, sottraeva la scuola al clero. Vari cardinali vennero allontanati dalle loro sedi; un largo numero di vescovi meridionali, prevalentemente filoborbonici, fu esiliato; si susseguì un irritante stillicidio in molte questioni ecclesiastiche, dall’«exequatur» per la nomina ai benefici all’imposizione di cerimonie religiose per feste politiche.
Fra intransigenti più papalini del pontefice, le masse popolari devote al papa e una classe dirigente, espressione della borghesia liberale, spesso sinceramente cattolica, ma avvezza ormai a non tener conto delle direttive politiche della S. Sede, il papa rimaneva isolato, ‘prigioniero’ della questione romana come del Palazzo Vaticano, da cui dopo il 20 settembre 1870 si rifiutò di uscire.
Intanto, nonostante l’incerta situazione politica, negli anni dopo il 1860 lentamente maturò in Pio IX il progetto di un nuovo concilio ecumenico. L’idea era esclusiva del papa: Antonelli vi rimase del tutto estraneo. Mastai pensava di sviluppare con la collaborazione dei vescovi l’opera iniziata con la definizione del 1854 e proseguita con il Sillabo. Per il pontefice, l’Immacolata, il Sillabo, il Concilio Vaticano dovevano costituire tre momenti successivi di una stessa campagna, il richiamo, per gli individui e per la società, dei valori soprannaturali, il rafforzamento dell’autorità pontificia in risposta agli attacchi del momento. Annunziato ufficialmente nel 1867, indetto nel 1868, il concilio si aprì l’8 dicembre 1869.
All’apertura, i circa settecento vescovi presenti (su un totale di un migliaio) erano ormai divisi in due gruppi. La minoranza, poco più di un quarto, composta di vescovi tedeschi, austriaci, ungheresi, di parecchi francesi, per motivi storici (i casi di Liberio e di Onorio), teologici (mancanza di una chiara idea sull’evoluzione del dogma, insistenza sulla dignità e l’autorità dell’episcopato), pastorali (timore di irritare protestanti, ortodossi, gran parte della mentalità moderna), era contraria alla definizione dell’infallibilità come inopportuna e soggetta a serie difficoltà di sostanza. La maggioranza, circa i tre quarti, raccoglieva quasi tutti i vescovi di lingua spagnola, quelli provenienti dalle missioni, i pastori belgi, svizzeri, italiani, la maggioranza dei francesi, due terzi dei vescovi statunitensi. Essa appoggiava energicamente la definizione proposta, ritenendola fondata su una lunga tradizione, esplicitamente condivisa dalla maggioranza dei fedeli, rispondente all’urgente bisogno di dare una risposta all’assalto contro il papato. Pio IX vide con simpatia il movimento favorevole alla definizione, e lo appoggiò con tutte le sue forze, specialmente negli ultimi giorni del concilio. Non si può tuttavia affermare che questa corrente sia sorta per suo impulso e, contrariamente alle tesi difese specialmente dallo svizzero August Bernhard Hasler e dal tedesco Hans Küng, non si può affermare che egli abbia imposto di proprio arbitrio questo dogma a una Chiesa riluttante e contraria.
Alle prime discussioni sul progetto intorno agli errori del razionalismo, opera del gesuita Joannes Baptista Franzelin, il testo fu giudicato negativamente, non per il suo contenuto, ma per il modo in cui esso era esposto, prolisso, oscuro, polemico. La commissione competente venne incaricata di preparare un’altra redazione. Fu un colpo per il papa: il concilio si avviava per una via diversa da quella da lui immaginata, le sue speranze di una rapida approvazione degli schemi si stavano dileguando. Egli non volle però limitare la libertà di discussione, con viva soddisfazione dei vescovi presenti. Lo schema venne largamente rifatto, mentre il regolamento conciliare si adattava alla situazione, per combinare la libertà di discussione e la rapidità dei lavori. La costituzione Dei Filius venne così approvata definitivamente alla fine di aprile. Erano respinti il razionalismo, ma anche il tradizionalismo, che svalutava eccessivamente la ragione, e il fideismo, che separava radicalmente ragione e fede, negando che la ragione, sorretta dalla grazia, prepari l’uomo alla fede. Si ribadiva la conciliabilità tra fede e scienza e l’autonomia specifica di quest’ultima. Il documento conciliare, frutto della collaborazione fra papato ed episcopato, a differenza dei testi pontifici di quegli anni, si manteneva sereno, equilibrato, ottimista, e da allora sarebbe rimasto uno dei documenti fondamentali del magistero ecclesiastico. Si compiva un forte passo in avanti rispetto alla Quanta cura.
Dalla metà di maggio alla metà di luglio si discusse il progetto sul primato di giurisdizione del papa sulla Chiesa e sulla sua infallibilità personale. Gli infallibilisti pensavano di poter raggiungere con quella definizione una vittoria definitiva sulle tendenze autonomistiche di alcune Chiese, specie in Francia, dove, secondo Pio IX, il gallicanesimo manteneva ancora molti aderenti, ostili a una stretta dipendenza dalla S. Sede. Gli antinfallibilisti ricordavano invece il ruolo che l’episcopato aveva avuto e aveva nella storia e nella struttura della Chiesa, e soprattutto sottolineavano che il papa nell’insegnare solennemente una dottrina non faceva che dare maggior autorità a tesi comuni da tempo a tutta la Chiesa, di cui era l’organo. La discussione assunse talora toni accesi, il papa, specie negli ultimi giorni, intervenne in modo pesante, sia lamentandosi della pretesa moderazione di Bilio, presidente della commissione che dirigeva le discussioni e preparava i testi da sottoporre all’assemblea, sia trattando in modo talora duro alcuni vescovi, specie orientali. Famoso il caso del bacio della pantofola del vescovo melchita apostrofato come «Gregorio testa dura» o la frase urlata spazientito al cardinal Guidi «La Tradizione sono io» (Martina, 1974-90, III, pp. 187, 555 ss.). Gli ultimi tre giorni, il 15-17 luglio, il papa respinse con fermezza le ultime pressioni contrarie, avanzate da vescovi tedeschi e francesi, fra cui Darboy e Dupanloup.
La costituzione Pastor aeternus, approvata definitivamente il 18 luglio dopo la significativa partenza alla vigilia di cinquantacinque vescovi antinfallibilisti, francesi, tedeschi e qualche raro italiano, sancì il primato di giurisdizione del papa su tutta la Chiesa. Essa riportava alla lettera la definizione del Concilio di Firenze del 1439, ricordando però anche che l’autorità suprema del papa non annulla quella dell’episcopato. Inoltre il documento conciliare definiva l’infallibilità personale del papa nell’insegnare ex cathedra, cioè con la pienezza della sua autorità, in modo solenne e irreformabile, verità di fede e di morale, e ricordava che l’infallibilità così descritta non deriva dal consenso dell’episcopato, costituendo una prerogativa del potere papale. Pio IX ordinò che si inserissero le parole «ex sese, non autem ex consensu ecclesiae», che indicavano la fonte ultima dell’infallibilità, l’autorità papale, ma supponevano sempre che il capo della Chiesa non avrebbe insegnato e definito se non quanto fa parte della tradizione rivelata, cioè quanto è di fatto già ammesso e creduto da essa.
I vescovi partiti il 17 luglio in seguito aderirono uno dopo l’altro alla definizione. Soltanto uno sparuto gruppo di discepoli di Döllinger, scavalcando il maestro e risoluti nel voler respingere il dogma, dette vita, ancora vivo Pio IX, a una comunità divisa sostanzialmente da Roma, i veterocattolici.
Il concilio godette di una libertà sufficiente per la validità delle sue decisioni. È anche vero che il pontefice dopo i primi mesi divenne teso e preoccupato, deciso a portare il concilio alle mete che si era prefisso. Il consiglio di presidenza fu ridotto a uno strumento esecutivo, si accentuarono le diffidenze persino nei confronti di fedelissimi come Antonelli e Bilio, crebbe il sospetto verso la minoranza. Eppure proprio questa portò un utile contributo, eliminando le tesi eccessive e conducendo a un certo equilibrio. Pio IX dovette moderare le sue pretese. Nel concilio non trionfarono le tesi massimalistiche della Civiltà cattolica, ma opinioni più moderate, largamente accettate dalla stessa minoranza. Il papa stesso, poco dopo la fine del concilio, in varie occasioni (1871, 1875) distinse esplicitamente la dottrina sull’infallibilità proclamata dal Vaticano I, relativa all’insegnamento sulla fede e la morale, dalle dichiarazioni emesse durante il Medioevo intorno ai rapporti fra papa e principi. Le due definizioni del 18 luglio costituiscono la conclusione logica di un processo secolare, da Firenze (1439) in poi, di una lotta contro il gallicanesimo con i suoi quattro articoli del 1682, e contro il febronianesimo. Per Pio IX, poi, esse rappresentavano il coronamento di una linea costante del suo governo, con gli sforzi rivolti a limitare e indebolire le ultime tracce del gallicanesimo e a rafforzare l’ultramontanesimo, cioè il movimento favorevole a un’unione sempre più stretta della Chiesa intera attorno al papa. Lo scoppio della guerra franco-prussiana, il ritiro dell’ultimo presidio francese a Roma, la rapida evoluzione della situazione generale, indussero presto il governo italiano alla decisione di occupare Roma, comunicata alle varie potenze. In quelle settimane Pio IX e Antonelli rimasero inerti nell’attesa. Influirono su quest’atteggiamento un’ingenua e antistorica fiducia in Dio, dovuta anche ai risultati del concilio e alle vittorie del 1867 sugli ultimi tentativi garibaldini di prendere Roma. Non vanno dimenticati però altri fattori: una innegabile stanchezza, uno scarso senso politico-storico, un certo romanticismo, abbastanza diffuso anche fra gli ecclesiastici romani. Il segretario di Stato non prese neppure i provvedimenti suggeriti dal buon senso, cioè di trasportare dal Quirinale in Vaticano l’archivio della segreteria di Stato o di raccogliere nelle sue mani le somme dell’obolo di S. Pietro. Il 14 settembre, il generale Kanzler, comandante dell’esiguo esercito pontificio, ricevette l’ordine autografo del papa «di aprire le trattative per la resa ai primi colpi di cannone». La sera del 19 le pressioni di Kanzler, fermo nella sua visione dell’onore militare, indussero il papa a modificare l’ordine del 14 e a permettere di prolungare la resistenza, cioè di «aprire le trattative per la resa appena aperta la breccia».
Dopo la capitolazione, in seguito a un messaggio di Kanzler voluto da Antonelli, Cadorna occupò la città leonina (Marotta, 2010). Il pontefice, consultati vari cardinali presenti in città, decise di rimanere a Roma, proclamò interrotto, non chiuso, il Concilio Vaticano I e si dichiarò «prigioniero» del palazzo vaticano. Seguì una politica intransigente, talora irrealistica: l’apertura di un’università pontificia contrapposta a quella statale, esperienza conclusasi presto; i vari documenti di protesta e di scomunica; la condanna della legge delle guarentigie. Eppure il papa, dopo quella legge, era libero di agire nella nomina dei vescovi: così un centinaio circa venne nominato fra il 1871 e il 1878. Si verificò in tale maniera un rinnovamento dell’episcopato italiano, per circa la metà, con la prevalenza di intransigenti. Restava però il problema dell’«exequatur», cioè l’obbligo per i vescovi appena nominati di far domanda alle autorità italiane per l’attribuzione dei benefici (tra cui anche l’uso del palazzo episcopale), obbligo che la legge confermava e che invece la S. Sede censurava. Solo dopo la morte di Antonelli, alla fine del 1876, Pio IX autorizzò i nuovi vescovi a presentare al governo italiano le bolle di nomina e a chiedere l’«exequatur».
Intanto, con il trasferimento della capitale italiana a Roma, erano stati incamerati parecchi edifici, sino allora sedi di conventi, come quello delle carmelitane, ben noto con il nome di Regina Coeli. Si era poi estesa a Roma, il 19 giugno 1873, la legge contro i religiosi del 1866, e di conseguenza i gesuiti erano stati espulsi dal Collegio romano. All’antica scuola confessionale si tentava di sostituire anche nell’Urbe una scuola statale, laica. Dopo il 20 settembre 1870, se da un lato cominciava il processo di normalizzazione della situazione italiana, dall’altro il papa, come riflesso nei discorsi rivolti nelle udienze a gruppi di fedeli, mantenne un atteggiamento di forte opposizione e amarezza condannando tutto il Risorgimento e coinvolgendo nell’atto di accusa anche i cattolici liberali.
Nel novembre 1876 Antonelli, con cui il papa non aveva mai avuto un’autentica amicizia, morì. Pio IX nominò subito un successore di transizione, il cardinale Giovanni Simeoni, sentendo ormai prossima la fine del pontificato.
Anche in quegli anni, Pio IX continuò a preoccuparsi degli orientali. Nel 1848, con la lettera In suprema Petri Apostoli sede e l’erezione di un patriarcato latino a Gerusalemme, era prevalsa una certa polemica con gli orientali separati, invitati semplicemente a sottomettersi, in un’ottica tipicamente romana. Dal 1850 al 1862, si avvertì un maggior rispetto, manifesto nell’erezione della sede metropolita greco-cattolica di Alba Julia, in Transilvania, annunziata nella bolla Ecclesiam Christi, del 1853, e della sezione orientale della congregazione de Propaganda Fide. Dopo il 1862, invece, sembrò prevalere una certa tendenza alla latinizzazione, se non nei riti, certo nella disciplina. Il papa tentò più volte di frustrare i tentativi del patriarca caldeo Audo di estendere la sua autorità sui cattolici del Malabar (che nei primi secoli avevano ricevuto il cattolicesimo dalla Caldea), e impose la necessaria conferma romana all’elezione del patriarca caldeo (1869). Ci furono momenti di forte tensione, minacce di scomunica, drammatiche udienze di Audo con il papa. Analoghe controversie si ebbero con gli armeni, molto contrariati dalla bolla Reversurus, del 1867, che imponeva la conferma romana alle nomine dei vescovi e dei patriarchi armeni. Solo l’equilibrio e la fedeltà del patriarca armeno Hassun riuscirono a evitare il peggio. La stessa tendenza alla latinizzazione degli orientali, appoggiata anche dal cardinale Barnabò, dinamico prefetto di Propaganda dal 1856 al 1874, appare in alcuni schemi di decreti preparati per il Vaticano I, mai approvati solo per mancanza di tempo.
Il successore di Gregorio XVI ovviamente si interessò a lungo della Polonia. Informato dalle Nunziature e dai vari ambasciatori, dall’emigrazione polacca a Parigi, dalla non rara corrispondenza clandestina che con grandi rischi arrivava a Roma, il papa, senza mai condannare le aspirazioni polacche all’indipendenza, si tenne lontano dai movimenti rivoluzionari e dal loro esponente, il principe Czartoryski, in esilio dorato a Parigi. Sognare una Polonia indipendente, in quegli anni, era utopistico. Pio IX incoraggiò invece in tutti i modi la lotta per l’indipendenza della Chiesa. Ebbe frequenti contatti con i migliori vescovi, come Hoùowiïski, di Mohilew, in Russia Bianca, si oppose alla nomina di candidati ambigui o filogovernativi, moltiplicò le note diplomatiche, ben documentate, scrisse più volte ad Alessandro II, proruppe in discorsi pieni di indignazione. Nel 1864 in un discorso attaccò Alessandro II, che opprimeva i suoi sudditi cattolici ed esiliava il vescovo di Varsavia, Feliïski. Seguirono encicliche e allocuzioni, e un ampio libro bianco vaticano sulle reiterate misure russe. Più tardi, lo zar aggravò la sua politica. Tentò di rafforzare l’autorità del Collegio ecclesiastico di Pietroburgo, come organo di controllo statale sulla Chiesa; soppresse varie diocesi polacche; tentò di introdurre la lingua russa nelle Chiese latine. Più clamoroso fu il «latrocinio di Chełm» (1875), il passaggio coatto alla Chiesa statale russa di un centinaio di migliaia di cattolici ruteni di Chełm, nella Polonia sudorientale: un buon gruppo di laici e di sacerdoti morì per la sua fedeltà a Roma. I duri, reiterati interventi della S. Sede non riuscirono a sbloccare la situazione.
La voce di Pio IX giunse con frequenza all’episcopato latino-americano, insistendo sugli stessi temi. L’episcopato locale, debole, isolato, osteggiato dai governi, non avrebbe potuto operare con efficacia senza il sostegno del papa, che d’altra parte mandò in qualche Paese, come Haiti, inviati straordinari. Pio IX incoraggiò Massimiliano d’Asburgo ad accettare la corona messicana, ma rimase presto deluso. In Brasile il papa intervenne in occasione della lotta sostenuta contro la massoneria da due vescovi energici, condannati per questo nel 1874 a quattro anni di carcere e liberati un anno più tardi, in seguito a interventi del pontefice, peraltro non sempre coerenti.
In Prussia, durante il Kulturkampf scatenato da Bismarck dopo il 1870, il papa divenne presto il sostegno dei vescovi. Se in Vaticano fino al 1870 non erano mancate diffidenze e tensioni fra Pio IX e l’episcopato di lingua tedesca, ora si avvertiva una forte concordia fra papa, vescovi e fedeli. La Germania cattolica si appoggiava a Roma, che comprendeva lo stato d’animo dei suoi corrispondenti, lo condivideva, ne faceva proprie le sofferenze. L’appoggio romano era riconosciuto dai cattolici tedeschi come uno dei mezzi più efficaci della propria indipendenza, tramite le lettere private inviate da Pio IX ai vescovi, cinque dei quali arrestati, tramite numerosi interventi solenni fra il 1873 e il 1875, tramite le istruzioni ai nunzi e infine la promozione a cardinale nel 1875 dell’arcivescovo di Gnesen-Posen Ledóchowski, arrestato in una fortezza a ovest di Gnesen dal 1874 e liberato solo nel 1876, dopo due anni di internamento.
La lotta si estese anche in Svizzera, con l’espulsione di due vescovi e un tentativo di riforme democratiche nella Chiesa. Anche a Vienna non mancarono difficoltà, per le nuove leggi del 1874 sul matrimonio e la scuola. Si ebbero missioni speciali a Roma e minacce da parte di Pio IX di censure ecclesiastiche verso Francesco Giuseppe. Dopo la caduta di Napoleone III, per qualche tempo Pio IX guardò con favore a Enrico di Chambord, ostile ai cattolici liberali, ma presto si rese conto dello scarso senso politico del pretendente, comprese che l’avvenire della Francia era ormai repubblicano e pensando alla sterile discussione sulla bandiera da scegliere osservò: «Tout ça pour une serviette». In Spagna, il papa, che aveva guardato con simpatia a Isabella II, nonostante tutte le sue traversie matrimoniali e il suo scarso senso politico, mantenne il suo favore per il figlio di Isabella, Alfonso XII, salito al potere alla fine del 1874. Si mostrò invece realisticamente scettico davanti ai carlisti. Del tutto sterile fu la lotta avviata nel 1876 in Spagna contro la moderata tolleranza verso i protestanti sancita dalla nuova costituzione di Alfonso XII. Ben più importanti e costruttive furono le nuove nomine episcopali, avvenute in quegli anni al di qua e al di là dei Pirenei, contemporanee a quelle che si erano realizzate in Italia dopo il 20 settembre. Le beatificazioni e le canonizzazioni di quegli anni rivelano un preciso indirizzo: riaffermazione di un ideale altissimo, di contrapposizione alla società del tempo, ma anche difesa della Chiesa, e impegno per l’unità dei fedeli. Non a caso proprio nel 1862 e nel 1867 Pio IX celebrò le canonizzazioni più significative: ventisei martiri del Giappone, diciannove dei Paesi Bassi, martiri di Gorkum, alla fine del Cinquecento, Giosafat Kunciewyicz, di Plock in Polonia, dell’inizio del Seicento, Pietro d’Arbues, inquisitore medievale ucciso nel Quattrocento.
Nei suoi trentadue anni di pontificato, Pio IX in ventitré tornate nominò centoventitré nuovi cardinali, dei quali solo sessanta sopravvissero alla sua morte. Particolarmente significative furono le nomine avvenute dopo il l870, con cinquantasette nuovi porporati. Il governo italiano considerò il fatto chiaro segno della piena libertà di cui godeva sempre il pontefice.
Nell’insieme, il Collegio cardinalizio in quegli anni presentava queste caratteristiche: scomparvero i cardinali vescovi di piccole città dello Stato pontificio, e per la prima volta apparve un vescovo degli Stati Uniti, McCloskey, di New York. Sparirono quasi i cardinali diaconi, che ebbero i loro ultimi rappresentanti in Matteucci, morto nel 1866, Antonelli, defunto nel 1876, e Mertel, scomparso nel 1899, a novantatré anni. Sparirono anche i cardinali divenuti sacerdoti solo per necessità di carriera. L’età media era piuttosto elevata, sopra i sessantacinque anni, e in molti dovevano la propria nomina alle origini familiari. Si avvertivano inoltre alcune assenze: a parte Pitra, mancavano i grandi intellettuali, come Newman e Hergenröther.
Il 9 gennaio 1878 dopo pochi giorni di malattia morì a Roma Vittorio Emanuele II, dopo aver pronunciato una generica dichiarazione di fedeltà alla Chiesa, sufficiente per i conforti religiosi. I funerali, celebrati al Pantheon il 17, divennero intenzionalmente una solenne celebrazione di Roma capitale d’Italia, quasi una nuova Porta Pia. Pio IX morì meno di un mese dopo, il 7 febbraio. Si contrapposero così a poca distanza di tempo due solenni funerali. Il pontificato romano e il Regno d’Italia, la Chiesa cattolica e il mondo moderno, si fronteggiavano ancora una volta.
Fonti e Bibl.: Tra i vari fondi dell’Archivio segreto Vaticano: Archivio particolare di P. IX. Oggetti vari (tra essi, l’autografo della prima redazione dell’allocuzione del 29 aprile 1848); Archivio particolare di P. IX. Sovrani e particolari; Epistolae ad principes; Epistolae Latinae. Sempre in Archivio segreto Vaticano, nel fondo Segreteria di Stato, oltre alla sezione Spogli di Cardinali e Officiali di Curia, si vedano le rubriche: 1 (Sommo Pontefice); 2 (Cardinali); 3 (arcivescovi e vescovi), 165 (notizie politiche diverse); 242 (questioni di alta diplomazia); e le rubriche 247, 248, 249, 253, 255, 256, riferite alle Nunziature di prima classe, nonché la rubrica 283 sui vescovi esteri (fra questi si intendono, dopo il 1860, anche i vescovi italiani). Si vedano ancora nell’Archivo segreto Vaticano gli archivi delle varie Nunziature e gli archivi dei dicasteri, come Congregazione del Concilio; Congregazione dei Vescovi e Regolari; Congregazione dei Regolari; Congregazione dei Riti e l’Archivio del Concilio Vaticano I.
Oltre all’Archivio segreto Vaticano sono importanti a Roma l’archivio della congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari (fondamentale per i concordati e per le controversie con i vari Stati); l’Archivio del S. Uffizio e della congregazione dell’Indice (ivi gli atti per la condanna di Rosmini nel 1849 ecc.); l’Archivio di Propaganda Fide; l’Archivio della congregazione per la Chiesa orientale.
Tra le fonti edite si citano le principali: Acta P. IX, I-IX, Roma 1846-78; A. Mercati, Raccolta di concordati su materie ecclesiastiche tra la S. Sede e le autorità civili, I, Roma 1919; I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, IL-LIII, Leipzig 1923-27. Si segnala anche, tra i diari, quello di Vincenzo Tizzani relativo al Concilio Vaticano, edito a puntate da G.M. Croce, Una fonte importante per la storia del pontificato di P. IX e del Concilio Vaticano I. I manoscritti inediti di Vincenzo Tizzani, in Archivum Historiae Pontificiae, 23 (1985), pp. 217-345; 24 (1986), pp. 273-363; 25 (1987), pp. 263-364, e successivamente pubblicato in volume anche da L. Pásztor (Il Concilio Vaticano I. Diario inedito di Vincenzo Tizzani (1869-1870), I-II, Stuttgart 1991-92). Croce ha anche cominciato la pubblicazione del manoscritto integrale del prelato, relativo agli anni precedenti e successivi al concilio. Si veda: V. Tizzani, Effemeridi romane, I: 1828-1860, a cura di G.M. Croce, Roma 2015.
Tra gli studi, ci si limita qui a citare i più notevoli, tra cui, naturalmente, R. Aubert, Il pontificato di P. IX, Torino 1970, e l’opera monumentale di G. Martina, P. IX, I-III, Roma 1974-90, la quale contiene un completo panorama bibliografico sugli studi precedenti all’opera, in parte aggiornato nella voce P. IX, a cura dello stesso autore, in Enciclopedia dei Papi, III, Roma 2000, pp. 560-575.
Sul Vaticano I: K. Schatz, Kirchenbild und päpstliche Unfehlbarkeit bei den deutschsprachigen Minoritätsbischöfen auf dem I. Vatikanum, Rom 1975; A.B. Hasler, P. IX (1846-1878), Päpstliche Unfehlbarkeit und 1. Vatikanisches Konzil. Dogmatisierung und Durchsetzung einer Ideologie, I-II, Stuttgart 1977; C.G. Patelos, Vatican I et les évêques uniates. Une tape éclairante de la politique romaine à l’égard des orientaux (1867-1870), Louvain 1981; K. Schatz, Vatikanum I., 1869-1870, I-III, Paderborn-München-Wien-Zürich 1992-94. Per gli studi relativi al concordato austriaco, al Kulturkampf, alle controversie con le Chiese armena e caldea, al patronato portoghese, alla situazione della Chiesa in Polonia e nei vari Paesi dell’America Latina, si rinvia alle indicazioni contenute nei volumi II e III su Pio IX di G. Martina e alle voci del Dictionnaire d’histoire et de geographie ecclésiastiques, Paris 1912-, (fra le altre: Audo, Bahouth, Chełm, Hassun ecc.). Sulla questione romana, tra i numerosissimi studi sull’argomento, rimandando alle voci biografiche sui diversi protagonisti contenute nel Dizionario biografico degli Italiani, si citano qui alcuni dei contributi più recenti: D. Kertzer, Prigioniero del Vaticano. P. IX e lo scontro tra la Chiesa e lo Stato italiano, Milano 2005; F. Jankowiak, La curie romaine de P. IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Eglise et la fin des etats pontificaux, Rome 2007; C. Lodolini Topputi, Sulla tacita soppressione dello Statuto di P. IX, in Rassegna storica del Risorgimento, 2007, n. 94, pp. 323-344; M. Di Gianfrancesco, Un papa federalista. P. IX propone nel 1847 la lega doganale tra gli stati italiani, in Rassegna storica del Risorgimento, 96 (2009), pp. 483-508; S. Pagano, La mancata pubblicazione dell’opera “P. IX e il Risorgimento italiano” di Giuseppe Clementi ed Edoardo Soderini, in Archivum Historiae Pontificiae, 2009, n. 47, pp. 455-467; S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città Leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, in Cristianesimo nella storia, 2010, n. 31, pp. 33-74; E. Camurani, 1810-2010: duecento anni di liberalismo. La questione liberale e la Civiltà Cattolica, liberalismo cattolico e cattolicesimo liberale, Fidenza 2011; S. Marotta, Questione romana, in Cristiani d’Italia. Chiese, Società, Stato (1860-2011), a cura di A. Melloni, Roma 2011, pp. 641-654; I Barnabiti nel Risorgimento. Atti del Convegno 2011, a cura di F.M. Lovison, Roma 2011; Cattolici e Unità d’Italia. Tappe, esperienze, problemi di un discusso percorso, a cura di M. Paiano, Assisi 2012; Il Sillabo di P. IX, a cura di L. Sandoni, Roma 2012; S. Marotta, L’evoluzione del dibattito sul «non expedit» all’interno della Curia romana tra il 1860 e il 1888, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 2014, n. 1, pp. 95-164.