PINTO y MENDOZA, Francesco
PINTO y MENDOZA, Francesco. – Nacque a Napoli l’8 agosto 1788 da Pasquale, principe di Ischitella, e da Antonia Maria Loffredo, figlia di Carlo, principe di Migliano e marchese di Trevico.
Nel 1824, in qualità di unico figlio maschio sopravvissuto alla morte del padre, ereditò il titolo, acquistato alla fine del Seicento dai suoi antenati, mercanti castigliani di probabile origine portoghese, immigrati a Napoli all’inizio del secolo.
Nel 1805 Francesco sposò Teresa Serra dei principi di Gerace e nel marzo 1808 ebbe il suo primo incarico pubblico come ciambellano del re di Napoli Giuseppe Buonaparte. Pochi mesi dopo, sotto re Gioacchino Murat, entrò nell’esercito con il grado di tenente dei Veliti della guardia reale e l’anno dopo fu promosso capitano. Iniziò così nell’età napoleonica una brillante carriera militare, arricchita da alcune importanti onorificenze (Legion d’honneur, Ordine Reale delle Due Sicilie), in cui si distinse come fedelissimo di Murat; ciò avrebbe in seguito condizionato i suoi rapporti con la dinastia borbonica.
Nell’estate del 1810 fu con Murat nella infruttuosa spedizione in Sicilia; nel 1812 fu nominato caposquadrone negli ussari della guardia e partecipò alla campagna di Russia come aiutante di campo del re; all’inizio di settembre, ferito all’addome presso Smolensk, fu promosso colonnello. L’anno dopo nella campagna napoleonica di Lipsia rimase ferito di striscio alla schiena. Nel 1815 ebbe il grado di maresciallo di campo e il comando della II brigata della Guardia e di reggimenti di lancieri e corazzieri nella campagna finita con la sconfitta di Murat a Tolentino. Fedele fino all’estremo al suo sovrano lo seguì nella fuga in Francia, ma, quando Murat partì per la Corsica, decise di tornare a Napoli. Avendo appreso tuttavia di essere stato condannato all’esilio (a differenza degli altri ufficiali murattiani, subito reintegrati), si rifugiò in Inghilterra.
Nel 1818 poté rientrare a Napoli e venne reintegrato nell’esercito. Nella guerra contro l’Austria, che pose fine alla rivoluzione del 1820-21, fu al comando della riserva di cavalleria del corpo d’armata del generale Michele Carrascosa, che non fu coinvolto nei combattimenti; all’indomani della sconfitta, con gli altri ufficiali ex murattiani, fu privato del grado. Allora si dedicò agli affari e alla cura del proprio patrimonio, in condizioni non floride a causa degli ingenti debiti ereditati dal nonno, grande collezionista d’arte, che avrebbero portato nel 1828 al sequestro di molte proprietà napoletane.
In particolare, curò la bonifica delle sue terre in Vico di Pantano (odierna Villa Literno), per la quale nel 1823 costituì una società con Pasquale Serra principe di Gerace, patrigno della moglie, che ne fu il finanziatore. Sulla base di questa esperienza, quando negli anni Quaranta fu varato il piano di bonifica dell’intera area del basso Volturno, intervenne nel dibattito sulle tecniche da adottare e criticò le scelte degli ingegneri del corpo di Ponti e Strade, ritenendo che il modo di procedere più economico e funzionale fosse quello da lui adoperato, basato sulla corretta canalizzazione delle acque piuttosto che sulla dispendiosa colmata dei terreni.
Dopo la salita al trono di Ferdinando II aveva sperato di poter riprendere posto nell’esercito, ma dato il suo passato di fedelissimo di Murat non gli fu concesso e nel 1840 gli venne riconosciuto soltanto il grado di maresciallo di campo onorario, senza incarichi, ma con il diritto di vestire l’uniforme. Stimato tuttavia dal re per le sue opere di bonifica e per le sue posizioni moderate, nel 1848, dopo la concessione della costituzione, fu reintegrato nel grado effettivo e nominato aiutante generale del sovrano. Il 15 maggio 1848 comandò le truppe che presidiavano Palazzo Reale e fu tra coloro che convinsero il re ad attaccare le barricate. Il giorno dopo fu nominato ministro di Guerra e Marina nel nuovo governo che subentrava a quello liberal-costituzionale e richiamò l’esercito napoletano in guerra in alta Italia, allo scopo di rinforzare la difesa interna e affrontare le rivolte scoppiate in Calabria e il moto secessionista siciliano. In quella circostanza, come in seguito, emersero il suo pieno rispetto delle istituzioni e le sue posizioni moderate, critiche sia dei rivoluzionari costituzionalisti sia dei nostalgici dell’antico regime, tutti inclini, nella sua visione, ad abusare del potere.
Nel 1849 partecipò alla guerra contro la Repubblica Romana e il 19 maggio comandò le truppe in ritirata attaccate da Giuseppe Garibaldi a Velletri. Frattanto, rimasto vedovo, prese in moglie Margherita Dauli, vedova di Nicola Brancaccio principe di Ruffano.
Negli anni successivi si occupò della riorganizzazione dell’Esercito e della Marina e della realizzazione del bacino di raddobbo nel porto di Napoli, per la riparazione e manutenzione delle navi, inaugurato nel 1852. Per la buona riuscita dell’opera e per il contenimento dei costi, meritò la particolare «stima e affezione» (Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone, Carte di Ferdinando II, fascio 810, f. 23) del sovrano, che gli conferì l’esclusivo Ordine di S. Gennaro e fece coniare una medaglia celebrativa che portava su una delle facce l’effigie del principe.
Nel settembre 1855, nel corso della crisi diplomatica con Francia e Inghilterra generata dalla guerra di Crimea, Pinto, apertamente contrario alla politica borbonica, neutrale, ma di fatto ostile alle potenze alleate, fu destituito dalla sua carica ministeriale e compensato poi, il 22 dicembre dello stesso anno, con la nomina a tenente generale.
Favorito dal suo passato murattiano, tornò in auge a partire dal giugno 1859 in occasione della formazione del governo diretto dal generale Carlo Filangieri, nel periodo di maggiore avvicinamento alla politica della Francia imperiale da parte del nuovo sovrano Francesco II. Nominato maggiore generale, e come tale a capo dello stato maggiore dell’esercito e del Comando generale delle Armi al di qua del Faro, Pinto fu inviato presso Napoleone III a porgere le congratulazioni per la vittoria franco-piemontese sugli austriaci a Magenta; ebbe pertanto un colloquio con l’imperatore che sollecitò la concessione da parte del giovane re di riforme amministrative e istituzionali di ispirazione napoleonica, le quali tuttavia non vennero messe in atto. Di fronte all’evolversi della situazione politica italiana, Pinto, in accordo con Filangieri, era convinto che l’unica salvezza per l’autonomia del Regno fosse il sostegno francese, mentre era contrario a qualsiasi trattativa con il governo piemontese.
Fu fedele a questa linea durante la crisi del 1860, iniziata in aprile con i moti della Gancia a Palermo e la conseguente repressione. Di fronte alla chiusura del sovrano verso ogni concessione, a maggio, dopo lo sbarco di Garibaldi, rifiutò di assumere la luogotenenza in Sicilia per non rivestire i panni del boia: «Qu’est-ce que j’allais faire? Le bourreau, cela ne me convenait pas» (Mémoires et souvenirs de ma Vie, 1864, p. 53). Dopo il cambiamento della politica di Francesco II e il richiamo in vigore della costituzione del 1848, invece, il 12 luglio 1860 accettò il comando della guardia nazionale di Napoli e da quel momento ricoprì un ruolo non secondario nelle animate discussioni che precedettero la caduta del Regno.
Di fronte al precipitare della situazione in Sicilia, ad agosto propose, inascoltato, in Consiglio di Stato di distruggere le navi di Garibaldi nel porto di Messina, e si scontrò duramente con il ministro degli Esteri Giacomo de Martino, non condividendo le trattative in corso con il Piemonte. Dopo l’avanzata di Garibaldi sul continente, che l’intervento diplomatico della Francia presso il governo inglese non era riuscito a fermare, alla fine di agosto 1860 Pinto propose, ancora una volta inascoltato, di affrontare il nemico nella piana di Salerno e, quando la situazione era ormai precipitata, si oppose invano alla decisione di Francesco II di lasciare Napoli. In quella circostanza, tuttavia, la sua posizione apparve ambigua, poiché il 5 settembre firmò un documento in cui, mentre riteneva ancora possibile battersi con successo, sembrava sconsigliare lo scontro considerando le gravi ripercussioni sulla capitale in caso di sconfitta. Per questo motivo fu accusato di viltà e tradimento da Pietro Calà Ulloa, primo ministro di Francesco II in esilio, nelle Lettres napolitaines (Roma 1863), in risposta alle quali Pinto scrisse nel 1864 le sue memorie per ribaltare le accuse di tradimento contro coloro che avevano convinto il re a lasciare la capitale.
L’abbandono di Napoli da parte di Francesco II il 6 settembre 1860 segnò la netta separazione del suo destino da quello della dinastia borbonica. Il giorno successivo, infatti, anziché seguire il re verso Capua, Pinto si imbarcò per la Francia, mentre Garibaldi entrava in Napoli.
A Parigi alla fine del 1860 incontrò Napoleone III per convincerlo a intervenire in Italia per ripristinare l’autonomia dei Napoletani e scongiurare la dominazione dei piemontesi, da lui considerati stranieri al pari di francesi e inglesi e pertanto entrati nel Regno in violazione del principio di non intervento.
Qui si colloca la sua presunta adesione al movimento murattista, avvalorata da sospetti di contemporanei come Giacomo Savarese e Aurelio Saliceti nonché dagli studi di Fiorella Bartoccini (Il murattismo. Speranze, timori e contrasti nella lotta per l’unità italiana, Milano 1959), ma da lui non confermata nei Mémoires, in cui tuttavia assumeva posizioni apertamente autonomiste e dichiarava di essersi allontanato dal Regno per non essere testimone «de l’oppression e du joug» imposti al suo Paese «sous le nom de la liberté» (Mémoires, cit., 1864, p. 64).
La pubblicazione a Parigi, presso l’imprimerie Renou et Maulde, dei Mémoires rappresentò l’ultima uscita pubblica del vecchio generale.
Non si conosce la data del suo rientro a Napoli, dove tuttavia risulta presente negli ultimi anni della sua vita (1874-75), in qualità di attore in due cause civili contro gli affittuari delle tenute da lui bonificate, nuovamente impaludate, e contro l’amministrazione delle finanze perché reclamava il pagamento di stipendi e arretrati a partire dal settembre 1860 sebbene, cassato dai ruoli dell’esercito, non avesse mai chiesto di essere riammesso in servizio né avesse prestato giuramento al nuovo Stato.
Morì a Napoli il 1° aprile 1875.
Il titolo dei principi di Ischitella passò alla figlia Maria Antonia (29 luglio 1806 - 29 dicembre 1894), moglie di Giovanni Cesare del Tufo, duca di S. Demetrio.
Fonti e Bibl.: Fonte principale per la rico-struzione della vita di Francesco Pinto è l’autobiografia Mémoires et souvenirs de ma vie, Paris 1864, su cui sono prevalentemente ricalcate le poche voci biografiche successive, tra cui C. Cannarozzi, F. P., principe di Ischitella, Foggia 1962. Anteriore ai Mémoires, ma fermo all’inizio degli anni Cinquanta, è il testo di C. Politi, Il principe d’Ischitella, ministro di guerra e marina di s.m. il Re delle Due Sicilie, Napoli 1852. Sulla sua carriera militare durante il Decennio: N. Cortese, L’esercito napoletano e le guerre napoleoniche, Napoli 1928, passim; V. Ilari - P. Crociani - G. Boeri, Storia militare del Regno murattiano, I-III, Invorio 2007, ad indicem. Sulla sua situazione patrimoniale: V. Pacelli, La collezione di Francesco Emanuele Pinto, principe di Ischitella, in Storia dell’arte, 1979, vol. 36-37, pp. 165-204. Sulla bonifica di Vico del Pantano: Archivio di Stato di Napoli, Archivio Serra di Gerace, Carte, fascio 47; F. Pinto, Osservazioni e note pel diffinitivo bonificamento della Campagna Vicana, Napoli 1843; V.A. Rossi, Memoria per un piano di lavori pel definitivo bonificamento della campagna Vicana, Napoli 1843; C. Afan de Rivera, Memoria intorno al bonificamento del bacino inferiore del Volturno, Napoli 1847. Sul periodo 1848-59 si segnalano in particolare: D. Cervati, Memoria intorno al bacino da raddobbo costruito nel porto militare di Napoli, Napoli 1852; B. Quaranta, Per l’inaugurazione del bacino da raddobbo fatta nel porto militare di Napoli il di IV d’agosto del MDCCCLII, Napoli 1852; F. Sponzilli, Analisi descrittiva del bacino da raddobbo di Napoli, Napoli 1852; G. Paladino, Il quindici maggio del 1848 in Napoli, Milano-Roma-Napoli 1921, pp. 527 s.; Le relazioni diplomatiche fra l’Austria e il Regno delle Due Sicilie, s. 3, 1848-1861, a cura di R. Moscati, Roma 1964, ad ind.; E. Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861, Soveria Mannelli 2012, ad indicem. Sulla crisi del 1860: Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone, Carte di Francesco II, fascio 1143, f. Tenente generale Ischitella; F. Bartoccini, Il murattismo, Milano 1959, pp. 235, 310 s.; La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia. Carteggi di Camillo Cavour, IV, Bologna 1961, ad ind.; P. Menna, La politica di Giacomo de Martino ministro di Francesco II in alcuni documenti borbonici, in Archivio storico per le province napoletane, XCIV (1977), pp. 353-367. Sulle cause civili degli anni 1874-75: Archivio di Stato di Napoli, Corte di Appello civile di Napoli, Perizie, b. 84, f. 11; Procura generale presso la Corte di Appello, Conflitti di giurisdizione, b. 183, f. 130; b. 185, f. 187.