PINDARO (Πίνδαρος, Pindărus)
Fu dagli antichi comunemente giudicato come il maggiore dei lirici greci; il primo nel canone dei "nove lirici" composto dai grammatici alessandrini. La tradizione lo ha poi anche favorito di conseguenza, conservando buona parte dell'opera sua. Infatti (a prescindere dal suo coetaneo Bacchilide, cui hanno eccezionalmente giovato le scoperte papirologiche), egli è l'unico tra i lirici greci di cui si possegga, oltre a molti frammenti, un considerevole numero di composizioni intere, cioè i quattro libri di Epinici, divisi a seconda della destinazione alle diverse feste panelleniche, Olimpiche, Pitiche, Istmiche, Nemee.
Nacque a Cinoscefale, villaggio di Tebe in Beozia, durante la 65ª olimpiade (520-517 a. C.); anzi, ci è forse possibile precisare maggiormente la data, poiché in un carme di cui si conserva un frammento (fr. 193 Schr.) egli stesso si gloriava d'essere venuto alla luce mentre si svolgevano i giuochi Pitici: il che porterebbe all'agosto del 518 a. C. Apparteneva a nobile famiglia; e probabilmente (se dobbiamo prendere alla lettera un'allusione contenuta nella Pitica, V, 76) si riattaccava al ceppo d'una delle più illustri stirpi doriche, gli Egidi: i quali, secondo la tradizione, avevano preso parte all'invasione dei Dori, e più tardi alla colonizzazione di Tera e di Cirene, e vantavano diramazioni in parecchie città del Peloponneso. Certo, egli respirò per tutta la vita l'atmosfera ideale delle ricche famiglie aristocratiche (con la trepidazione di chi, nel medesimo tempo, assisteva alla loro inevitabile decadenza), e fu il più puro interprete, quasi si direbbe il profeta, della cultura dorica, cioè d'una cultura la quale aveva carattere essenzialmente aristocratico e conservatore, in antitesi con la crescente cultura attica.
La prima istruzione musicale e letteraria egli la ricevette in patria. La Beozia, veramente, non godeva buona fama nei riguardi della cultura; ma pure era stata il centro della scuola esiodea, di cui si conservavano senza dubbio gl'influssi (come può vedersi in Pindaro stesso, che attinge molta parte della sua materia di miti dalla poesia dei Καῖάλογοι); e vi fiorivano proprio allora, sulla fine del sec. VI a. C., taluni poeti lirici, e specialmente poetesse, come Mirtide e Corinna (la tradizione dorico-eolica, in contrasto con quella degli ionico-attici, consentiva, anzi affidava volentieri alle donne l'esercizio delle arti belle). Si racconta che Corinna, ammaestrando il giovane principiante, gli rimproverasse di trascurare troppo l'elemento mitologico, e avendo egli allora composto un inno con gran cumulo di miti, lo rimproverasse di nuovo dicendo: "con la mano bisogna seminare e non con tutto il sacco". A ogni modo, P. non si limitò agl'insegnamenti che poteva trovare in patria; e, nonostante le differenze politiche che dividevano la Beozia dall'Attica dopo la cacciata dei Pisistratidi, passò ad Atene, dove cominciavano a convergere gl'interessi della cultura, e dove certamente si svolgeva in quegli anni, verso il 500 a. C., il più vivo movimento di scuole e di manifestazioni poetico-musicali (nel 534 si erano iniziati gli agoni tragici; nel 508 si aprivano gli agoni ditirambici). Quivi egli fu discepolo del maestro di cori Agatocle (secondo altri, di Apollodoro); e forse anche del celebre Laso d'Ermione, il quale, uscito da Atene per la cacciata dei Pisistratidi suoi protettori nel 511, vi era probabilmente ritornato qualche anno dopo. Laso, senza essere poeta di prim'ordine, ebbe grandissima importanza come riformatore della musica corale; sicché è da credere che P., direttamente o indirettamente, ne ricevesse i precetti.
Questo per ciò che riguarda gli elementi della tecnica. Quanto alle idee e all'orientamento spirituale, Atene non era ancora sede di filosofi; ma vi giungevano gli echi della fisica ionica, vi fermentavano principî contrarî alle credenze e alle istituzioni tradizionali, quei principî ch'erano destinati a sboccare, durante il secolo successivo, nel movimento illuministico della sofistica.
P., per sua natura, non era semplicemente un'anima sensibile d'artista, amante d'immagini e di suoni; era anche, come si manifesterà nel pieno vigore della poesia, un uomo completo, un intelletto ricco di qualità morali e meditative, bramoso di sapienza. Quindi egli non dovette restare del tutto chiuso ed estraneo ai fermenti d'idee nuove che nella capitale dell'Attica lo attorniavano; piuttosto, dalla conoscenza che fin d'allora ne fece, egli trasse motivo per disapprovarli, per respingerli, per guardare con sospetto quei fisici "i quali coglievano l'imperfetto frutto della sapienza" (fr. 209). Da Atene non portò altro con sé, di positivo, fuorché le esperienze della tecnica musico-letteraria. La sua educazione morale e intellettuale, la sua "sapienza", egli se la foggiò in patria, attingendola dalle idee della sua famiglia e della sua gente dorica: idee che avevano le loro radici nel passato, nella lettura degli antichi poeti come Omero ed Esiodo, e i loro depositarî nei teologi e nei sacerdoti dei grandi santuarî, in particolare del santuario di Apollo in Delfi; idee che insegnavano a credere negli dei e nei miti degli dei (opportunamente interpretati e corretti, qualche volta, secondo il progresso dei tempi), a considerare la nobiltà della schiatta e il benessere come doni divini, ad esaltare il valore fisico come indissolubile dal valore morale, ecc.
Il genio della poesia si risvegliò presto in P., ben prima ch'egli fosse ventenne, e subito lo condusse ad abbracciare, come una vocazione, anzi come una missione, l'ufficio di poeta corale; il che voleva dire rivolgere la propria musa, principalmente, alla celebrazione degli dei e degli uomini insigni, in "inni", in "encomî", in "canti funebri", in "epinici", ecc. Per antica consuetudine la poesia corale era inseparabile dalle grandi solennità della vita civile e religiosa; ma nel sec. VI a. C. essa aveva trovato nuovo lustro e nuove applicazioni nella vita delle famiglie aristocratiche, nelle corti dei principi e specialmente nei grandi agoni ginnici (poiché negli agoni ginnici avevano occasione di segnalarsi i rappresentanti delle famiglie aristocratiche e dei principi). Su questa via, e in questo genere di produzione, l'esempio più brillante era dato da Simonide di Ceo, il quale era di qualche decennio più anziano e, quando Pindaro sorgeva, si trovava già al colmo della fama e degli onori. Dalla morte dei Pisistratidi, dopo l'uccisione d'Ipparco, egli era passato a quella degli Scopadi in Tessaglia, e poi, dopo caduti gli Scopadi, a quella degli Alevadi, pure in Tessaglia; e così di corte in corte, di famiglia in famiglia, soleva portare un po' dappertutto la sua cetra di volubile cantore ionico. Fino a qual punto l'esempio dell'illustre predecessore abbia influito sul giovane principiante e abbia eventualmente servito ad attirarlo per lo splendido cammino della poesia corale, è difficile stabilire. Ma certo, prima o poi, una manifesta rivalità si determinò in lui verso Simoníde, e verso il nipote di Simonide stesso, Bacchilide, il quale sulle orme dello zio stava movendo, contemporaneamente a Pindaro, i primi passi in quella medesima direzione. Pareva a Pindaro di poter portare nell'arte, a prescindere dalle maggiori o minori qualità dell'ingegno, un più decoroso atteggiamento, una più sincera corrispondenza fra le parole e le idee. Le idee, che nel suo ulficio gli toccava esprimere, erano le sue idee, patrimonio della sua famiglia, della sua città, della sua stirpe; gli aspetti di vita nobile ed eroica, che si apprestava a celebrare, concordavano appieno col suo stato e con la sua educazione. La nobiltà dei natali, le agiate condizioni lo predisponevano a entrare negli ambienti aristocratici e principeschi come un amico e un consigliere, non semplicemente come un adulatore, ricercatore di benefizî e di compensi (quantunque anche a benefizî e compensi egli non fosse insensibile, poiché la poesia corale, specialmente quella degli "encomî" e degli "epinicî", era poesia d'occasione, di cui gl'interessati davano "ordinazione" al poeta). Per questo egli sentiva altamente di sé e riteneva di distinguersi in modo assoluto dagli altri cultori del medesimo genere; per questo era indotto a sviluppare alquanto nella sua poesia l'elemento politico-morale, i sentimenti di cittadino tebano, di ottimate, di discendente da antica schiatta dorica, di credente, di conservatore, insomma tutto ciò che, essendo in armonia non solo con le circostanze esterne del canto, ma con le interne condizioni del suo animo gli dava modo di attingere alle fonti della vera poesia.
Forse non è puro caso se la più antica ode di P. a noi pervenuta, la Pitica X, composta nel 498 quando l'autore era appena ventenne, è rivolta a celebrare il tessalico Ippocle, appartenente a quella famiglia degli Alevadi presso i quali Simonide aveva trovato speciale accoglienza. Ciò dimostra che fin d'allora P. era disposto a cercare i favori delle dinastie principesche e a mettersi in gara col celebre predecessore. Nelle idee e nella tecnica si possono già qui ravv isare taluni segni caratteristici del nostro poeta. Vi è libertà di ordinamento nelle parti fondamentali dell'epinicio, e soprattutto rapidità di trapassi, anzi, si trova già qui espressamente affermata dall'autore stesso, come segno di originalità, la tendenza a volare di pensiero in pensiero: "il fiore degli inni si lancia com'ape dall'uno all'altro argomentu", (v. 53). Vi è poi lo spirito aristocratico ("i buoni governi sono, per diritto ereditario, nelle mani dei nobili", v. 70), l'orgoglio di razza, l'esaltazione delle idealità doriche rappresentate dalla Tessaglia, da Sparta, da Eracle, ecc. L'ode si chiude con l'elogio, non solamente del giovinetto Ippocle, ma di Torace, dinaste della Tessaglia; per la cui autorità il poeta si augura di avere a cantare ancora altri della medesima famiglia. A noi non risulta che quest'augurio si sia poi avverato (le nostre conoscenze sono in ogni caso incomplete); ma verso gli Alevadi egli era sinceramente portato da simpatia politica, simpatia che stava per rivelarsi, in qualche modo, anche un poco più tardi, in occasione d'uno dei più gravi avvenimenti della storia ellenica, cioè l'invasione persiana.
La raccolta degli Epinici, a cui s'aggiungono qua e là frammenti più o meno ampî di altre composizioni, specialmente di Peani, ci permette di ricostruire in modo abbastanza continuativo le relazioni tra il poeta e l'ambiente storico in cui venne svolgendosi la sua vita. Non sempre P. assisteva di persona ai giuochi e alle feste da cui avevano occasione i suoi canti, tanto più che, per difetto di voce o per altre ragioni, non si assumeva il compito d'istruire e dirigere i cori. Nei primi anni, naturalmente, le sue relazioni erano limitate alla Beozia e alle regioni più vicine; e soltanto a poco a poco si estesero a gran parte della Grecia. Non è strano, quindi, se fra gli Epinici, quelli che sono o paiono più antichi, appartengono, come l'ode per il tessalico Ippocle, al gruppo delle Pitiche: ossia si riferiscono ai giuochi che si celebravano nel santuario di Apollo in Delfi. Il potente santuario, che sorgeva non lontano da Tebe ed era centro della religione apollinea, esercitò su Pindaro le prime e più profonde attrattive. Il giovane autore, per l'austerità del suo temperamento e della sua arte, non mancava d'incontrare favore in quegli ambienti sacerdotali; ai quali infatti si unì in manifesta corrispondenza di pensieri, di sentimenti, di aspirazioni religiose, politiche e morali. Del periodo giovanile, cioè probabilmente del 490 a. C., è il peana VI, composto per far piacere ai sacerdoti delfici, cui occorreva un inno da essere cantato nella processione delle Teossenie: "di buon animo, come un figlio obbediente alla cara madre, io scendo qui al bosco sacro di Apollo" (v. 13). In questo inno ci accade di osservare per la prima volta una correzione moraleggiante ad elementi volgari del mito: correzione la quale è evidentemente suggerita dallo spirito della religione apollinea. E c'è i anche qualche spunto politico, ben distinguibile attraverso ai simboli del mito: l'esaltazione di Egina, patria degli Eacidi, roccaforte dell'aristocrazia e della civiltà dorica contro le minacce crescenti della sua rivale Atene. Per Egina P. ebbe sempre una speciale affezione.
Quell'anno 490 era grave di avvenimenti. Incombeva la seconda guerra persiana, nella quale, com'è noto, vario fu l'atteggiamento delle città e dei principi greci. In generale, le città governate dall'aristocrazia, come la patria di Pindaro, Tebe (ed Egina) e i principi della Grecia settentrionale, come gli Alevadi, e i grandi sacerdoti del santuario di Delfi, si schierarono per la neutralità, in favore della Persia, lasciando alla democratica Atene, cui s'aggiunse all'ultimo momento Sparta, il compito glorioso di organizzare la la resistenza nazionale e salvare le sorti dell'Ellenismo, vale a dire, della civiltà europea. Anche P., legato com'era agl'interessi e alle tendenze del suo partito, non comprese le ragioni superiori che avrebbero consigliato d'impugnare le armi per la salvezza comune; e nelle discussioni e nei dissidî ch'erano intervenuti fra i suoi concittadini, così si espresse con parole abbastanza esplicite: "Dolce è la guerra per chi non ne ha fatta la prova; ma chi la conosce, trema stranamente in cuore al suo avvicinarsi... Si rassereni la città, si cerchi la fulgida luce della pace, che dà conforto all'uomo, dagli animi cacciando la vendicativa discordia, apportatrice di miseria, funesta alla vita dei figli". Questi sono frammenti di un "iporchema" (fr. 109-110), citati da Polibio (e dallo Stobeo) per dimostrare la debolezza del patriottismo di Pindaro e la sua tendenza filopersiana. Il biasimo contro il poeta è ripetuto anche da altri nell'antichità ed è, fino a un certo punto, giustificato. Ma non bisogna dimenticare che, per quanto Pindaro mirasse ad assolvere un'alta funzione etica e civile, per quanto si proponesse la celebrazione di tutto ciò ch'è bello e grande ed eroico, tuttavia, non poteva sottrarsi alle impressioni e alle vedute dell'ambiente a cui apparteneva. Le idealità eroiche, che per vocazione e per professione egli illustrava, erano essenzialmente proprie d'una casta, d'una tradizione gentilizia, fondata sul passato; non s'identificavano ancora con quelle di tutta la nazione levantesi in armi per la difesa e per il progresso comune. Quindi egli, il più vigoroso, il più austero cantore dei valori fisici e morali, era inevitabilmente condannato a non intendere la grandezza vera dei tempi in cui viveva; era destinato a essere alquanto in ritardo rispetto agli sviluppi del sentimento nazionale e patriottico, nonché del progresso ideale, che s'incentrava in Atene. È notevole che, anche sotto questo rispetto, egli venne a trovarsi in assoluta antitesi con Simonide; il quale, essendo di origine ionica, di più modesti natali, di temperamento spregiudicato, di spirito duttile e curioso d'ogni esperienza, sentì più facilmente le necessità e le tendenze dell'epoca, e da Maratona alle Termopile, a Platea, s'affermò come il cantore delle vittorie elleniche, il suscitatore e l'interprete ispirato della nazione.
Nel cuore di P. la battaglia di Maratona non sollevò nessuna eco. Delle sue disposizioni egli diede la prova nel 486, componendo una breve ode, la Pitica VII, per un Ateniese, Megacle. Questi era un aristocratico della famiglia degli Alcmeonidi esiliato da Atene, uno di quegli aristocratici che per il loro ritorno facevano assegnamento sulla Persia, e l'Atene che Pindaro nel contesto del carme elogiava, non era quella recentemente cintasi di gloria per opera dei Maratonomachi, bensì quella che gli Alcmeonidi avevano resa famosa in tempi lontani. Similmente le altre parecchie e importanti odi composte nel medesimo periodo, fra la prima e la seconda guerra persiana (come l'Olimpica XIV, per Asopico di Orcomeno, la Nemea II, per Timodemo di Acarne, la Nemea VII, per Sogene di Egina, la Nemea V, per Pitea pure di Egina), non contengono traccia dei grandiosi avvenimenti contemporanei, anzi, qua e là confermano l'atteggiamento del poeta, irrigidito nella sua devozione alle idealità aristocratiche, nella sua predilezione per Egina rivale di Atene, ecc. Ancora, sul principio della seconda aerra persiana (quando pure gli Egineti entravano a fare parte della coalizione attieo-spartana), P. fu tra coloro che propugnavano la neutralità, d'accordo col governo della propria patria Tebe e con l'oracolo di Delfi. La condotta di Tebe in quelle circostanze fu considerata come un tradimento; e la città stava per soccombere alle vendette di Atene e di Sparta vittoriose.
Furono, tra il 480 e il 478, dopo Salamina e dopo Platea, momenti gravi per P., il quale probabilmente aveva in qualche modo condivisa la responsabilità del governo tebano. Perciò nell'Istmica VIII, per Cleandro d'Egina, composta nel 478, quando la guerra era finita, e quando, per intercessione degli Egineti, erano dissipate le minacce gravanti su Tebe, egli esprimeva con vivo cuore il suo sollievo, celebrando il ritorno della tranquillità e ringraziando iddio "che allontanò dal capo dei cittadini la pietra di Tantalo, tormento insopportabile per l'Ellade" (v. 9). Del resto, in mezzo alle dure esperienze, il poeta incominciava ad apprezzare il significato glorioso delle vittorie conseguite dagli alleati: nell'Istmica V, scritta fra il 478 e il 477, inseriva l'elogio dei marinai egineti che s'erano segnalati a Salamina nella distruzione della flotta persiana (v. 49); e in altro componimento, di cui non s'è conservato che un brano, scritto dopo la battaglia dell'Artemisio, non esitava a riconoscere che "i figli degli Ateniesi avevano gettato le gloriose fondamenta della libertà" (fr. 77). Per Atene egli dettava anche un famoso "ditirambo": "Tu splendida, tu incoronata di viole, baluardo dell'Ellade, Atene gloriosa, divina città" (fr. 76); il quale però, nell'intenzione dell'autore, doveva più che altro servire a mitigare la città vincitrice nelle sue ostili disposizioni contro i Tebani.
La tradizione vuole che gli Ateniesi onorassero P. con un lauto compenso e con la prossenia; e che i Tebani, per parte loro, gli applicassero una multa.
Comunque sia di ciò, è naturale che un carattere austero e poco disposto a piegare non si trovasse a suo agio in patria, negli anni che immediatamente seguirono alla seconda guerra persiana. Perciò colse volentieri l'occasione di allontanarsi dal continente ellenico, recandosi in Sicilia, dove s'erano costituite fastose corti di principi. Già nel 490 egli aveva stretto relazione con la famiglia degli Emmenidi di Agrigento, componendo la Pitica VI per Senocrate, fratello del tiranno Terone, e dedicando al giovinetto Trasibulo, nipote di Terone stesso, da lui personalmente conosciuto in Delfi, un canto convivale, "skolion", di felice fattura, che servì di modello a Bacchilide (fr. 123). Ma soltanto dopo la seconda guerra persiana, nel 476, il poeta salpava alla volta di Agrigento, ospite di Terone, per il quale scriveva uno dei più magnifici ed elevati epinici, l'Olimpica II, nonché l'Olimpica III, e alcuni canti funebri o consolatori - Treni (Θρῆνοι) - di cui abbiamo frammenti (fr. 129-130; fr. 131). Terone, animo duramente provato dai pericoli del potere e dalle disgrazie familiari, era incline alla meditazione dei problemi religiosi e morali. Perciò P. poté unirsi a lui intimamente, assumendosi il compito di consigliarlo o assisterlo nelle sue più profonde aspirazioni mistiche. Forse egli stesso, il poeta, nella corte di Terone, o in generale negli ambienti colti della Sicilia e della Magna Grecia, i quali erano nutriti di pitagorismo, ebbe occasione d'imparare nuovi principî e confortarsi con nuove esperienze; onde ai dogmi della religione delfica, che gli erano proprî, aggiunse elementi di fede più schiettamente mistica, o misteriosofica, sull'immortalità dell'anima, sulla metempsicosi, sulle pene d'oltretomba, ecc. Minore amatamento egli doveva trovare alla corte di Geerone di Siracusa, quantunque anche ai familiari di Geerone, al genero Cromio (Nemee I e IX), e a Geerone stesso, che era d'indole autoritaria e violenta, abbia consacrato, in diversi momenti, alcuni carmi nobilissimi, come l'Olimpica I, e specialmente le Pitiche I, II e III, nelle quali, al principe malato o afflitto, si avvicina con ricchezza di sentimenti e con profondità d'idee, come un amico, un consigliere, un consolatore. Tanto a Siracusa quanto ad Agrigento, P. s'incontrò coi suoi rivali Simonide e Bacchilide. Le maniere più insinuanti e pieghevoli di Simonide (il quale si rese utile nei dissidî fra Geerone e Terone, conciliando con la sua diplomazia i due tiranni) finirono forse per trovare maggior favore in quegli ambienti cortigiani. Certo, Pindaro in qualche passo dei suoi carmi ebbe a lagnarsi della concorrenza, di cui aspramente soffriva. E non rimase a lungo in Sicilia; tornò presto in patria, a Tebe, a Delfi, a Egina, pur conservando di lontano le sue buone relazioni con quei principi e continuando a onorarli coi suoi canti (infatti, se il soggiorno colà durò al massimo dal 476 al 474, qualcuna delle odi testé ricordate è posteriore di qualche anno).
Il soggiorno siciliano contribuì a dare all'arte di P. un più largo respiro. Non solo egli arricchì la sua fede indirizzandola sulla via dei misteri, ma alimentò nel suo spirito il senso poetico della grandezza, ispirandosi alla visione di terre più feconde e opulente che quelle del continente ellenico, di città più popolose, più ricche, più monumentali, d'interessi e di passioni più ardenti. Probabilmente anche la visione del pericolo cartaginese, l'ammirazione per le lotte sostenute da Terone e da Geerone in difesa dell'ellenismo (battaglia d'Imera, contemporanea a quella di Salamina), giovò a suscitargli nell'animo le vibrazioni del sentimento nazionale facendogli comprendere in unica glorificazione le vittorie dell'Oriente e quelle dell'Occidente: Salamina, Platea, Imera. Affini ai più splendidi epinici composti per i principi siciliani sono pure quelli che Pindaro destinò a glorificazione d'un altro tiranno, Arcesilao IV di Cirene, della dinastia dei Battiadi. Già nel 472 circa, con la Pitica IX per Telesicrate di Cirene, egli si era aperto, in certo modo, l'accesso alla capitale della Libia, cantando con grazia incomparabile il mito della ninfa eponima, Cirene, amata da Apollo, e la fondazione della città. Perciò nel 462 riceveva l'incarico di scrivere l'ode ufficiale per la vittoria riportata dal giovane Carroto, genero del tiranno: è questa la Pitica V, in cui alle lodi per Arcesilao s'intrecciano quelle per il giovane atleta. Ma ad Arcesilao stesso dedicava tosto il più ampio dei suoi canti, la Pitica IV; una specie di poemetto (sul tipo di quelli, caratteristici, di Stesicoro), in cui meravigliosamente si svolge la storia mitica di Cirene, collegata con la spedizione degli Argonauti e con le profezie di Medea. E nel poemetto l'autore non ha mancato d'inserire ugualmente la sua voce ammonitrice, suaditrice e qualche volta severa, per sostenere la legittimità del dominio dei Battiadi; ch'era allora combattuto da partiti avversi, e nel medesimo tempo per suggerire al re la clemenza verso i nemici e il richiamo d'un capo dei fuorusciti, Damofilo (poco dopo infatti Arcesilao cadeva ucciso).
Del resto, il periodo dal 480 al 460 circa fu il più fecondo e il più complesso dell'attività di Pindaro. La sua fama era al culmine; le sue relazioni si allargavano un po' dappertutto per il mondo ellenico, pur avendo sempre come centro principale Tebe, Delfi, Egina, Orcomeno, Corinto. L'amicizia che godeva presso i tiranni gli era qualche volta rimproverata in Tebe e in Delfi, ond'egli, per difendersi (ad esempio, nella Pitica XI, per il tebano Trasideo), era tratto ad assimilare idealmente il governo monarchico di quei principi all'aristocrazia della madrepatria. Nel medesimo tempo, contro i flutti democratici incalzanti d'ogni parte, tendeva a riaffermare più che mai la sua antica fede nei valori morali e politici della tradizione dorica. Il progresso degli avvenimenti e delle idee contrarie, il crescere della potenza ateniese, particolarmente la caduta di Egina, che nel 457 veniva da Atene privata della sua libertà e della sua flotta: tutto ciò amareggiava il poeta e lo conduceva piuttosto a rinchiudersi in sé stesso che a mutare sentimenti e indirizzo spirituale.
La sua vita si prolungò molto, sino al 438 a. C. circa; si prolungò in piena età periclea, senza ch'egli si lasciasse affatto conquistare o toccare dalle nuove correnti. Il ventennio che precede la morte, 460-438, non è dei più produttivi. I carmi appartenenti a questo periodo sono ancora ricchi di potenza fantastica, ma risuonano d'una certa tristezza sia per la contrarietà dei tempi, sia per il rimpianto del passato e per l'impressione della vecchiaia incombente. Forse intorno al 450 o al 445, quando scriveva la Nemea X per Theaios Argivo, il poeta aveva lasciato Tebe e s'era trasferito nel Peloponneso, in Argo, ove, ottantenne, doveva chiudere i suoi giorni. L'ultimo epinicio a noi pervenuto è la Pitica VIII, del 446, per il nobile adolescente Aristomene di Egina; e si chiude in maniera assai significativa, con un commosso saluto all'isola da lui sempre diletta, abbattuta da Atene: "Effimeri noi siamo: che è mai la vita? che è la morte? Sogno d'un'ombra è l'uomo. Quando però su lui scenda un raggio divino, allora anche la luce mortale è fulgida, e dolce è la vita sua. O Egina, madre mia, proteggi questa città, rendila libera con l'aiuto di Zeus e di Eaco", ecc.. Ma oltre a questo abbiamo poi, del 438 circa, un frammento di encomio (fr. 123) composto per il giovinetto Teosseno, a cui il poeta in quegli anni era particolarmente legato dai vincoli dell'amicizia dorica. La tradizione vuole ch'egli si spegnesse dolcemente nella palestra di Argo, piegando il capo sul petto dell'amato Teosseno.
La poesia di P. è, nel complesso, lo specchio fedele della sua vita e del suo spirito. Dai fatti contingenti e dalle umili vicende della realtà quotidiana essa si eleva a sfere superiori, verso le più alte vette della sublimità ideale, morale e fantastica. In essa e per essa non vivono se non divinità ed eroi, a cui vengono assimilati i principi, i potenti, gli atleti, coloro che il poeta fa degni di essere innalzati col canto. L'occasione materiale delle feste e dei giuochi ha scarsa importanza per chi guarda così in alto. Del resto, non il gusto di P. solamente, ma una consuetudine tecnica, da tutti seguita, voleva che gli "epinici", e in generale anche gli altri tipi di poesia corale, fossero per gran parte occupati dall'esposizione di qualche mito, vale a dire dall'esposizione del divino, del soprannaturale, del meraviglioso. Il mito stava di solito nel centro, ed era semplicemente contornato o messo in rilievo dagli altri elementi, cioè da rapidi cenni all'occasione della festa e al personaggio da celebrare, e dalle sentenze morali e dai suggerimenti che l'autore credesse di impartire. Spesso la parte pratica non era neanche bene collegata con la parte occasionale e con quella sentenziosa, e sembrava quasi fine a se stessa.
In che cosa, sotto l'aspetto tecnico, P. si distingguesse dai suoi predecessori è impossibile stabilire, poiché né di Simonide né degli altri ci è giunto alcun componimento intero; e Bacchilide, di cui abbiamo, per le scoperte papirologiche, epinici, peani e ditirambi quasi completi, non influì sul poeta tebano, ma piuttosto ne ricevette egli stesso l'influsso. Tuttavia possiamo con ogni probabilità ritenere che sotto questo riguardo, cioè nella costituzione materiale ed esteriore degli "epinici", dei "peani", dei "ditirambi", ecc., anche Pindaro si conformasse supergiù agli usi comuni. Invece la sua originalità è da cercare in quei valori che toccano la natura intrinseca del pensiero e dell'arte. Fra tutti i poeti corali P. è quello il quale nella sfera meravigliosa del mito si muove maggiormente a suo agio, perché ivi non trova soltanto una soddisfazione della fantasia, ma anche del pensiero e della fede; trova la migliore corrispondenza coi suoi proprî principî, con le sue proprie inclinazioni religiose, morali, intellettuali, insegnategli o instillategli dalla nobile e austera tradizione dei Dori. Naturalmente, per ottenere una tale corrispondenza, egli al mondo dei miti applica una forte impronta di idealizzazione; non lo ripete tal e quale come gli è fornito da Omero o dal ciclo epico o dalla scuola esiodea (che sono le grandi fonti a cui più largamente attinge), ma lo sublima, e lo corregge anche, qua e là, secondo le tendenze d'una morale e di un'intelligenza più evoluta; lo rivive con schietto sentimento religioso e talvolta con devozione quasi mistica; lo propone e lo inculca come vera norma di vita, come emblema fulgente di sapienza e di bellezza.
Ora appunto, sapienza e bellezza sono in Pindaro due termini inseparabili; essenziale entrambi per intendere la sua poesia. Egli si considera, ed è, ministro delle Muse e di Apollo, consigliere, guida, educatore della sua gente. Anima meditativa, intelletto robusto, ha molte cose da insegnare. Ma tali insegnamenti di dottrina, di religione, di educazione, ch'egli abbondantemente versa nei suoi carmi, non restano mai materia arida e astratta; si fondono nel crogiuolo dell'entusiasmo poetico; si trasformano in figurazioni fantastiche d'insuperabile efficacia rappresentativa; si presentano, per così dire, in azione: nell'azione che è di volta in volta incarnata dal mito. La poesia di P. non è per nulla ricca di svolgimento psicologico; non è destinata a commuovere, a suscitare sentimenti e passioni. È invece sommamente plastica: ha lo scopo di metterci sotto gli occhi, con la maggiore evidenza possibile, i fatti mitici nel loro significato etico e ideale.
E poiché l'esposizione dei fatti, considerati in serie regolare e continua, sarebbe di per sé cosa pesante, monotona, antilirica, perciò P. procede in maniera estremamente saltuaria, per via di sintesi, cogliendo solo qua e là quei punti che più gli paiono vivi e brillanti.
Con rapidità fulminea egli si attacca ai gesti, ai passaggi, ai tratti che più hanno valore pittorico; balza da una rappresentazione a un'altra rappresentazione, senza curarsi del nesso e senza indugiarsi nel particolare. Questi sono i famosi "voli pindarici", che costituiscono davvero il segreto della sua arte e il segno più manifesto della sua speciale grandezza. Essi sconcertano il lettore comune; non si adattano al gusto degli spiriti imbelli. Per questo le odi di P. appaiono spesso slegate e prive di unità, soprattutto quando si pretende di considerarle e interpretarle alla stregua dei procedimenti normali. La loro unità non consiste in legami logici che possano eventualmente intercedere fra le varie parti del mito o fra il mito e l'occasione e le sentenze, bensì nell'ardore fantastico che muove e illumina il tutto; nello slancio per cui il poeta, dalle molteplici immagini balenanti al suo spirito, trae un'unica fiamma d'idealità mitica e morale.
Dotato di così originali caratteristiche, P. non ha avuto seguaci che lo potessero efficacemente imitare. Nessuno gli è simile nella forza della sintesi, nell'audacia dell'immaginazione, nella fierezza dell'accento.
Fonti, edizioni: Le testimonianze sulla vita sono costituite da alcune biografie di origine alessandrina, ma compilate e riassunte dai Bizantini che ce le hanno trasmesse. Principali sono la cosiddetta Vita Ambrosiana (premessa al testo degli Epinici nel codice Ambrosiano A) e l'articolo di Suida. Gli elementi più fondati si desumono dall'opera stessa del poeta.
I grammatici alessandrini suddivisero le poesie di P. in 17 libri: 11 religiosi, ossia destinati a cerimonie essenzialmente sacre (i libro di Inni per gli dei; 1 di Peani; 2 di Ditirambi; 2 di Prosodî; 2 di Partenî; i di altri Partenî uniti a canti Dafneforici; 2 di Iporchemi) e 6 profani (i di Encomî; 1 di Treni; 4 di Epinici). Soltanto i 4 libri degli Epinici, i quali erano specialmente celebrati e letti nelle scuole, ci sono conservati per intero; degli altri abbiamo frammenti, tra cui sono assai più ampî e importanti quelli dei Peani, scoperti in papiri d'Ossirinco. I codici degli Epinici si distribuiscono in due classi principali, rappresentate rispettivamente dall'Ambros. C 222 inf. del sec. XIII, e dal Vaticano, gr. 1312 del sec. XII; in alcuni di essi sono contenuti utili scolî.
Fra le moderne edizioni del testo, fondamentale è anzitutto quella di A. Boeckh, Berlino 1811-21, in 2 voll. (con scolî, e con commentario di A. Boeckh e di L. Dissen); seguono, specialmente notevoli, quelle di Tycho Mommsen, Berlino 1864, di W. Christ, Lipsia 1869 (del medesimo, con prolegomeni e commenti, Lipsia 1896), di O. Schroeder (2ª ediz. maggiore, Lipsia 1923; 2ª ed. minore, Lipsia 1930), di A. Puech, Parigi 1923 in 4 voll. (con commento e traduzione francese). Edizione degli scolî antichi (oltre a quella del Boeckh già citata): di A. Drachmann, Lipsia 1903, 1910, 1927 (in 3 voll.).
Commenti principali (oltre a quelli già citati di Boeckh-Dissen, del Christ, del Puech): F. Mezger, Pindars Siegeslieder, Lipsia 1880; B.L. Gilderssleeve, 2ª ed., Londra 1890 (Olimpiche e Pitiche); J. Bury, Londra 1890, 1892 (Nemee e Istmiche). Traduzioni in italiano (dopo quella del Borghi, che è antiquata sotto ogni rispetto) sono da ricordare quelle di G. Fraccaroli, Verona 1894 (con importanti Prolegomeni; nuova edizione, Milano 1914, in 2 voll.), di L. Cerrato, Genova 1920 (in prosa, con introduzioni e commento), di E. Romagnoli, Bologna 1928; in francese, di Boissonade-Egger, Grenoble 1867, di A. Puech (già citata); in inglese di J. Sandys (già citata); in tedesco, di F. Dornseiff, Lipsia 1921. Fra i sussidî grammaticali, J. Rumpel, Lexicon Pindaricum, Lipsia 1883.
Bibl.: L. Schmidt, Pindars Leben und Dichtung, Bonn 1862; M. Villemain, Le génie de Pindare, Parigi 1859; A. Croiset, Pindare et les lois du lyrisme grec, Parigi 1880; G. Fraccaroli, Prolegomeni alla traduz. già citata; C. Gaspar, Essai de chronologie Pindarique, Bruxelles 1900; E. Romagnoli, Pindaro e le polemiche pindariche, Firenze 1910; U. von Wilamowitz-Moellendorff, Pindaros, Berlino 1922; W. Schadewaldt, Aufbau des pindarischen Epinikions, Halle a. S. 1919; G. Coppola, Introduzione a Pindaro, Roma 1932; W. Jaeger, Paideia, I, Berlino 1933, pp. 271 segg.; G. Perrotta, Saffo e Pindaro, Bari 1935.
Il pindarismo nelle letterature moderne.
Sconosciute al Medioevo (che a "Pindaro Tebano" attribuiva l'Iliade latina) e al primo Rinascimento, le odi di Pindaro, stampate nel 1511 furono subito imitate in lingua italiana (e se non altro, nella partizione delle strofe) da G. G. Trissino, Luigi Alamanni e Antonio Minturno; in latino da Benedetto Lampridio. Dal Lampridio procedono le odi latine di Jean Dorat, che fu maestro al Ronsard; le poesie dell'Alamanni, passato alla corte di Francesco I, furono pubblicate in Francia; e così è tracciata la via che fa capo alla Pléiade e alle odi pindariche del Ronsard (1550-1552), in cui il genio giovanile del poeta s'annunziò con impeto e con nobiltà d'ispirazione. Dal Ronsard, più che dai precursori italiani, mosse il Chiabrera, mntore delle glorie guerresche e marittime della sua patria, e "canzoni con strofe e con epodo" compose il papa Urbano VIII Barberini. La lirica grave e solenne del Guidi, del Filicaia, del Menzini, tentò più volte i modi pindarici; l'inglese Abraham Cowley, forse anche più "secentista" per l'enfasi e le acutezze, fu molto applaudito per le sue Pindarique Odes (1656), costrutte con grande libertà e mutazioni di ritmo; John Dryden ne diede poco dopo saggi d'un gusto più puro. Fra i seguaci del Cowley meritano ricordo John Oldham in Inghilterra e in Italia Tommaso Crudeli.
La Germania che aveva avuto ben presto dalla scuola del Melantone la traduzione latina di P., contò pure numerosi imitatori, a cominciare da Martino Opitz, fino al Gottsched e al Ramler. Il pindarismo francese vanta nel sec. XVIII il nome di Ècouchard-Lebrun, che fu detto Lebrun-Pindare; nella poesia spagnola, meritano ricordo le odi di Nic. Fernández de Moratín.
Alla storia delle imitazioni, le quali troppe volte si riducono a uno studio di congegni formali, o denunciano la finzione retorica, o l'illusione di sentimenti eroici, si deve aggiungere un pindarismo in senso più vago, e più lato, che venne di volta in volta riconosciuto nelle espressioni più elevate della lirica moderna, da Goethe a Wordsworth; e i Sepolcri del Foscolo apparvero a Giosue Carducci "la sola poesia lirica nel gran significato pindarico che abbia l'Italia". Il giovane Leopardi, come dimostrano alcuni suoi Pensieri, e soprattutto le prime canzoni, si propose, al di là dei poeti italiani del Seicento, al di là dello stesso Petrarca, l'esempio della lirica greca, e di Pindaro: ma d'una sua imitazione del Tebano non si può parlare se non in termini assai limitati, per la chiusa del canto All'Italia e l'argomento del Vincitore nel pallone.
Più diretta impronta delle Odi s'osserva, fra i poeti tedeschi, in Hölderlin e Platen; fra gl'inglesi, in Coventry Patmore.
Bibl.: A. Sommariva, La lirica pindareggiante in Italia da Orazio a Chiabrera, Genova 1904; J. Vianey, Les odes de Ronsard, Parigi 1932; E. R. Keppeler, Die pind. Ode in der deut. Poesie des 17. u. 18. Jahrh., Tubinga 1911.