DE MARINI, Pileo
Figlio di Ambrogio, nacque verso il 1377 a Genova, forse nel palazzo che la sua famiglia possedeva in Carignano.
Il padre rivestì importanti cariche nella Repubblica genovese, tra cui quella di ambasciatore a Giovanni I del Portogallo (1389) e quella di governatore di Corsica (1403), e morì nell'isola nel dicembre dello stesso anno.
Non si conoscono altri dati sulla giovinezza del D.: risulta solo che nel 1394 egli era canonico a Padova, dove la sua presenza è accertata per gli anni 1396-97. Secondo il Ferretto (Lo scisma, p. 115), egli fu anche canonico palentino in Spagna, senza che la notizia sia meglio documentata. Fedele all'obbedienza romana - si era allora nel pieno del grande scisma - divenne in seguito protonotaio apostolico a Rema, dove frequentò il potente cardinale Ludovico Fieschi. Morto il 24 nov. 1400 l'arcivescovo di Genova Giacomo Fieschi, la scelta di papa Bonifacio IX cadde sul giovane D.: a lungo lontano dalla sua città e quindi non legato a fazioni politiche, su ognuna delle quali pesavano condizionamenti stranieri, egli sembrò il più adatto a riempire il pericoloso vuoto che si apriva in una città controllata dalla Francia e potenzialmente in mano ai pontefici di obbedienza avignonese. Non tenendo conto delle pressioni esercitate dal capitolo della cattedrale perché la scelta cadesse - sull'arcidiacono Domenico Fieschi, Bonifacio IX innalzò il D. alla cattedra genovese il 30 nov. 1400, concedendogli la dispensa necessaria per la sua giovane età. L'opposizione del capitolo fu per il momento superata dal papa che esentò il capitolo dalla giurisdizione arcivescovile, in cambio del giuramento di fedeltà alla Sede apostolica. Tuttavia, entrato a Genova il 27 dicembre, il D. fu costretto ad un lungo conflitto col capitolo, geloso delle proprie prerogative: la sua azione, infatti, fu subito rivolta a rivendicare un ruolo di rigido controllo sull'amministrazione economica e pastorale svolta proprio dalla curia arcivescovile.
Varie sue iniziative mirarono a tale obiettivo: egli nominò un consiglio di sapienti ecclesiastici in cui il capitolo fu rappresentato in minima parte; la cancelleria curiale fu riordinata sull'esempio romano; l'amministrazione del capitolo fu sottoposta a verifica, per tutelare le iniziative pastorali a favore dei poveri; i vicari vennero scelti in genere tra uomini estranei all'ambiente genovese. Notevole rilievo fu destinato ad assumere nelle strutture assistenziali della Repubblica di Genova l'ufficio di misericordia, incoraggiato dall'arcivescovo. Infine, per favorire un uso disinteressato dei lasciti testamentari dei privati, il D. ottenne che venisse costituita una magistratura di quattro cittadini, incaricati di provvedere ad un'equa distribuzione delle elemosine.
Assai grave fu il conflitto scoppiato tra l'arcivescovo e il governatore francese di Genova, Jean Le Meingre, sire di Boucicaut. Al di là delle occasioni contingenti di scontro (il Boucicaut si oppose alla istituzione di nuove feste religiose proposta dal D.) e delle diffidenze reciproche dovute alla loro forte personalità, la posta in gioco era lo stesso ruolo internazionale di Genova: benché gli accordi del 1396 con la Corona francese prevedessero che la città avrebbe mantenuto la sua fedeltà al papa romano, il Boucicaut si adoperò strenuamente a favore del papa di Avignone, appoggiato in questo anche dal cardinale Fieschi, capo dei guelfi genovesi. Alle pressioni, che giunsero perfino alla minaccia di espulsione, qualora egli non si fosse piegato alla volontà del governatore (11 apr. 1404), il D. finì coll'arrendersi: convocata una commissione di teologi e di autorevoli cittadini per analizzare la possibilità di un passaggio di Genova alla obbedienza avignonese (ottobre 1404) e ottenutone parere favorevole, anche il D. dichiarò la sua obbedienza a Benedetto XIII. Di conseguenza, da Innocenzo VII fu proclamato decaduto dalla dignità arcivescovile. Poco dopo, quando l'antipapa giunse a Genova il 16 maggio 1405, il D. lo accolse con un solenne corteo. Scoppiata in città la peste, il D. si allontanò per raggiungere Portovenere, lasciando l'amministrazione della curia al suo vicario, Giovanni di Godilasco (o Godiasco), canonico di S. Lorenzo.
Non si sa quale ruolo il D. abbia svolto nella complessa trattativa che avrebbe dovuto portare i due pontefici ad incontrarsi a Savona, con l'impegno di una contemporanea rinuncia alla propria dignità. Certo è che, quando Benedetto XIII annunciò con scarsa sincerità l'intenzione di deporre la tiara, il D. celebrò nella cattedrale genovese, il 12 marzo 1407, una solenne funzione religiosa per impetrare l'unione della Cristianità, alla presenza del Boucicaut; tenne l'orazione commemorativa Vincenzo Ferreri, giunto in città con l'antipapa. In seguito, il rapido mutamento della situazione politica - che finì coll'isolare Benedetto XIII, abbandonato anche dalla Francia - contribuì a far maturare un nuovo cambio di fedeltà da parte dell'arcivescovo. Probabilmente, egli non aveva interrotto mai del tutto i suoi rapporti con la Curia romana; infatti, quando, abbandonata Genova, si recò nel giugno del 1408 a Pisa, dove stava per riunirsi un concilio convocatosi contro la volontà del papa e dell'antipapa e alla cui organizzazione egli forse aveva contribuito, preferì unirsi ai cardinali di obbedienza romana.
In quest'anno (e non nel 1409) si dovrebbe collocare anche un suo soggiorno in Francia; secondo lo Schneyer, infatti, il D. pronunciò un discorso all'università di Parigi la vigilia di Natale, ma l'episodio non è meglio accertato (cfr. Puncuh, 1978, pp. 664 s .).
Al concilio di Pisa il D. fu uno dei testimoni a carico di Benedetto XIII che, il 10 giugno 1408, lo depose, nominando come amministratore apostolico della sede di Genova il Godilasco. L'anno seguente, tuttavia, il papa eletto dal concilio di Pisa, Alessandro V, lo reintegrò nella carica (8 ag. 1409). Nel frattempo, Genova era insorta contro il governo del Boucicaut, che era stato colto alla sprovvista dalla sommossa: rientrato nella sua città nella seconda metà di ottobre, il D. provvide a stendere, a nome dei suoi concittadini, una lettera che fu inviata al re di Francia Carlo VI e nella quale venivano addotte giustificazioni della sommossa, che sarebbe stata - vi si affermava - rivolta non contro la Francia, ma contro il Boucicaut, accusato di aver condotto una politica personale dannosa agli interessi della città e della stessa monarchia francese. Del resto, la situazione politica era tale da suggerire un riavvicinamento alla Francia, gradito anche alla Curia romana: l'appoggio al pretendente angioino al trono di Napoli trovava concordi sia il papa sia la Repubblica genovese, sempre timorosa del pericolo catalano.
Negli anni seguenti il D. si adoperò per riportare sotto il suo controllo l'amministrazione ecclesiastica della diocesi. Coi nuovo signore di Genova, Teodoro II del Monferrato, mantenne buoni rapporti, turbati solo da uno scontro di natura giurisdizionale. Nel 1413 si unì agli ambasciatori genovesi, a Lodi, per assistere all'incontro tra il papa di obbedienza pisana Giovanni XXIII e l'imperatore Sigismondo. In seguito, partecipò attivamente al concilio di Costanza, dove svolse un ruolo moderatore, benché il suo pensiero guardasse con simpatia alle posizioni di Pietro d'Ailly. Tra l'altro egli compose allora un Trattatosull'unione, andato perduto, pronunciò un notevole discorso in onore dell'imperatore Sigismondo e si occupò di varie questioni, tra cui l'esame del pensiero di J. Wycliffe. Rientrato a Genova, il 10 genn. 1421, egli celebrò un sinodo diocesano, ispirato alle decisioni maturate al concilio e volte a un più attento impegno del clero sia nell'attività pastorale sia nell'amministrazione del patrimonio ecclesiastico.
Quando, nel 1421, cadde il doge Tommaso Fregoso, il D. dovette affrontare il difficile problema interno rappresentato da un pericoloso vuoto di potere, mentre la città si trovava in balia dell'esercito visconteo e la Corsica era attaccata da Alfonso V d'Aragona. In questi frangenti il D. si fece promotore del passaggio di Genova sotto il dominio del duca di Milano Filippo Maria Visconti, nella speranza che gli interessi cittadini potessero essere comunque rispettati dal nuovo signore. Nel 1423 egli sostenne un progetto volto ad allestire una flotta per appoggiare le pretese di Luigi III d'Angiò alla corona napoletana. Nel medesimo torno di tempo, si trovò a dover far fronte alla ostilità aperta dei Fieschi, feriti nel prestigio familiare da alcuni suoi provvedimenti. Non buoni divennero ben presto anche i suoi rapporti col governo visconteo, deluso per l'insuccesso di una missione da lui amministrata nel 1423 a Firenze per la questione di Forlì.
Infatti, approfittando della morte di Giovanni degli Ordelaffi e dei successivi tumulti tra le due fazioni in cui la città era divisa, Filippo Maria Visconti aveva occupato Forlì nel marzo del 1423, provocando la dura reazione del governo fiorentino. Filippo Maria aveva allora sollecitato il D. a recarsi nella città toscana, forse confidando nei legami di amicizia che l'arcivescovo genovese vantava nei confronti di numerosi esponenti della stessa classe dirigente della Repubblica fiorentina. Il D. si presentò nel giugno alla Signoria, ufficialmente come inviato del papa Martino V, col compito di sondare la possibilità di una sua mediazione tra il Visconti e Firenze. La Signoria non accolse la proposta avanzata dal presule e respinse anche la richiesta dell'invio di un ambasciatore fiorentino al duca di Milano per ulteriori colloqui sulla situazione.
Giunto a Genova nel 1425 il nuovo commissario visconteo alla Guerra, Opizzino d'Alzate, ben presto il D. finì con l'entrare in urto con lui. In questo periodo, anche i rapporti con la Curia romana conobbero un brusco peggioramento.
Occasione dello scontro fu la nomina, voluta da Martino V, di Battistino da Rapallo a capo della collegiata di S. Maria di Castello ed a collettore apostolico per la Liguria: costui, non ancora ordinato, si vide concedere anche il potere di sciogliere dalla scomunica coloro che commerciavano con gli infedeli. Le violente proteste del D., leso nelle sue prerogative episcopali e ostile a una iniziativa papale che ai suoi occhi appariva in contrasto con lo spirito conciliare, provocarono una lunga vertenza, alimentata da sospetti reciproci e da accuse calunniose.
Il D., ormai isolato, misurò in quegli anni anche il fallimento del suo progetto di tutelare gli interessi genovesi sotto una protezione straniera. Il governo visconteo, a lui sempre più ostile, prese provvedimenti di confino che dapprima coinvolsero membri della sua famiglia e colpirono poi, nel 1426, la sua stessa persona. Costretto a lasciare la sua sede, il D. dovette recarsi a Milano e fermarsi presso Filippo Maria. Per quanto nel 1427, in seguito a una sommossa antiviscontea scoppiata a Genova, fosse stato richiamato in patria, il D., che si era ormai compromesso col partito antivisconteo, riallacciando i suoi rapporti con gli ambienti fiorentini, dovette rinunziare per sempre al ritorno nella sua città. Infatti.1 benché fosse legato da sincera amicizia al nuovo governatore inviato da Filippo Maria a Genova, l'arcivescovo di Milano Bartolomeo Capra, il duca fu irremovibile nel rifiutargli il perdono. Non migliore effetto ebbe il formale giuramento di fedeltà che il D. accettò di pronunciare il 27 giugno 1428 nel monastero della Cervara, dove si era rifugiato sotto la protezione dei suoi antichi avversari, i Fieschi, ostili anch'essi al governo visconteo. Dopo aver soggiornato a Firenze, il D. si trasferì a Roma, accolto da Martino V. A Genova, in quel medesimo periodo di tempo, fu oggetto di una campagna infamante, che toccò il culmine con la richiesta, avanzata formalmente dalla cittadinanza genovese al papa, di rimuovere il D. dalla sua stessa diocesi. Su questo soggiorno romano siamo scarsamente informati: l'ultimo atto a noi noto del D. è la domanda di un beneficio ecclesiastico a favore del suo cappellano Luca Oliva, che lo aveva accompagnato nell'esilio.
Si ignora la data esatta della morte del D., che deve tuttavia collocarsi negli ultimi mesi del 1429. Infatti, il 4 novembre di quell'anno il papa nominò "per obitum" come successore del D. nella sede di Genova Pietro de' Giorgi, vescovo di Novara.
Il D. svolse un ruolo di primaria importanza nella vita culturale genovese tra Tre e Quattrocento, ove contribuì ad aprire il tradizionalmente ristretto orizzonte cittadino ai nuovi ideali umanistici. Egli approfondì i suoi studi classici e mantenne rapporti epistolari o contatti personali (in modo particolare, durante la sua missione del 1423) con alcuni dei più autorevoli esponenti fiorentini e milanesi del primo umanesimo, da Leonardo Bruni a Gasparino Barzizza, dal frate agostiniano Andrea Biglia all'arcivescovo di Milano Bartolomeo Capra, dal Decembrio all'Aurispa ad Ambrogio Traversari.
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