PIGNATELLI, Francesco, principe di Strongoli
PIGNATELLI, Francesco, principe di Strongoli. – Nacque a Napoli il 6 febbraio 1775 da Salvatore, principe di Strongoli, e Giulia Mastrilli.
Il 30 marzo 1778, a soli tre anni divenne cavaliere gerosolimitano nel priorato di Capua e, a partire dal 20 marzo 1779, iniziò gli studi presso il Real convitto fernandiano alla Nunziatella, di cui era governatore lo zio Francesco.
Morto il padre nel 1792, nell’aprile del 1793 intraprese la carriera militare e presentò al ministro John Acton istanza di servire nell’esercito austriaco. Nel 1793 fu sottotenente nei cavalleggeri di Lipsia e nel 1794 tenente nel reggimento Lobkowitz. Combatté nelle Fiandre, ma fu ferito e catturato.
Durante la prigionia a Lille entrò in contatto con le idee rivoluzionarie e ne restò affascinato. Abbandonato l’esercito austriaco nel 1795, sotto la protezione di Antoine Christophe Saliceti nel settembre del 1796 soggiornò a Roma, dove frequentò la bottega del libraio giacobino Matteo Bouchard. Ritornato a Napoli, nella primavera del 1797 decise di lasciare il Regno. Con il pretesto di recarsi a Malta, ottenne il passaporto e viaggiò nell’Italia centro-settentrionale. Giunto a Roma, sospettato di giacobinismo, il 1° agosto del 1797 il governo borbonico ne ordinò la cattura. Allontanatosi dalla città, vi ritornò nell’autunno del 1797 al seguito dell’ambasciatore Giuseppe Bonaparte, ma dopo l’assassinio di Léonard Duphot riparò a Firenze. Vi rientrò ancora il 16 febbraio del 1798 con le truppe del generale Louis-Alexandre Berthier.
Arruolatosi nella guardia nazionale della Repubblica romana, represse una rivolta antigiacobina a Trastevere il 25 febbraio del 1798. Ciò gli valse la promozione a capitano della compagnia granatieri della legione romana. Durante il 1798 dalle pagine del Monitore di Roma promosse la formazione di milizie nazionali. Divenuto nell’ottobre 1798 capo di battaglione, cercò di arruolare nella legione romana i napoletani disertori. Questo gli valse il deferimento al Consiglio di guerra, dove si difese brillantemente. Avvicinatisi a Roma i soldati borbonici del generale Karl Mack, ripiegò in Umbria per poi partecipare ai comandi del polacco Karol Kniaziewicz alla controffensiva nella battaglia del bosco di Falari, dove per il suo valore fu promosso capo di brigata.
Riconquistata Roma, i francesi nel gennaio del 1799 marciarono su Napoli. Durante l’offensiva lasciò il comando della legione romana e a Capua fu assunto nello stato maggiore del generale Championnet con l’incarico di formare una legione campana con i disertori e i soldati napoletani passati ai francesi. Durante la presa di Napoli fronteggiò i lazzari che difendevano la capitale e riuscì eroicamente a impadronirsi delle fortezze di Castel S. Elmo e Castel dell’Ovo.
Sotto la Repubblica napoletana rivestì importanti incarichi nell’organizzazione militare. Championnet gli affidò il comando della fortezza dell’Ovo e il 30 marzo 1799 gli conferì il grado di generale di brigata. Fu membro di una commissione incaricata di esaminare i requisiti degli ex ufficiali borbonici che intendevano arruolarsi nelle fila repubblicane. Per fronteggiare le forze controrivoluzionarie in Calabria, il 1° aprile ebbe il compito di allestire una spedizione militare, ma poco prima della partenza, fissata il 7 aprile, fu sostituito. Si addussero motivi di salute, ma in realtà era in disaccordo con la politica militare francese, contraria alla creazione di un esercito nazionale ben organizzato. Pur godendo della fiducia del generale Étienne Jacques Macdonald, che gli avrebbe affidato il comando della capitale, si scontrò violentemente con il ministro della Guerra Gabriele Manthonè. La posizione critica assunta verso il governo lo indusse a lasciare Napoli con il Macdonald il 9-10 maggio 1799.
Con la caduta della Repubblica, i Pignatelli pagarono un elevato prezzo: il sequestro dei beni, la condanna a morte dei fratelli maggiori Ferdinando e Mario, l’esilio del minore Vincenzo. Francesco, sfuggito alla morte perché a Roma, fu condannato al bando. Lasciata l’Italia per la reazione austro-russa, il 21 novembre 1799 raggiunse Parigi. In Francia ricevette l’incarico di formare una legione italiana, compito affidato, poi, da Bonaparte al generale Giuseppe Lechi. Intanto, nei primi mesi del 1800 redasse uno scritto, l’Aperçu historique, in risposta all’opuscolo sulla campagna napoletana dell’ufficiale francese Jean-Baptiste Bonnamy. Qui intese valorizzare il contributo dei patrioti e mettere in rilievo gli errori politici commessi nell’esperienza repubblicana.
Nel luglio del 1800, inviato dal ministro Lazare Carnot presso l’Armata d’Italia, fu assegnato alla divisione del generale Domenico Pino e nel novembre gli fu affidato il comando delle truppe toscane e di un battaglione cisalpino di ufficiali italiani. Il 19 dicembre 1800 prese parte a Firenze a una manifestazione nella quale fece innalzare l’albero della libertà nella piazza di S. Croce. Il suo comportamento provocatorio venne censurato dalle autorità militari. Il 14 gennaio 1801 guidò eroicamente le truppe toscane nella battaglia di Siena contro l’esercito napoletano. Ottenuto un mese di congedo, raggiunse in Umbria Gioacchino Murat in marcia su Napoli, ma il 18 febbraio l’armistizio di Foligno mise fine alle operazioni militari. Deluso, disciolto il battaglione toscano da lui comandato, nell’aprile 1801 cercò collocazione nell’esercito cisalpino. Le difficoltà finanziarie della Cisalpina e le numerose richieste di impiego pervenute da graduati impedirono che la sua domanda fosse accolta. Nell’autunno del 1801, di nuovo a Roma, tentò con il fratello Vincenzo di organizzare una spedizione antiborbonica che sembrò potere contare su appoggi esterni, ma che fu osteggiata da Bonaparte, timoroso di turbare delicati equilibri politici. Espulso dallo Stato pontificio, il 28 novembre 1801 rientrò a Napoli e, sorvegliato dalla polizia borbonica, si ritirò dall’attività militare.
Rientrato in possesso del patrimonio e dei titoli, si dedicò all’amministrazione dei feudi di Strongoli e Melissa che aveva ereditato per la morte dei fratelli maggiori. Intraprese diverse liti. Si rifiutò di riconoscere la legittimità del nipote Ferdinando, figlio dell’omonimo fratello defunto e di Francesca Renner, nato postumo nel 1800. La causa si sarebbe conclusa solo nel 1851. Anche i rapporti con la madre furono burrascosi e turbati da un contenzioso iniziato nel 1803 per il pagamento del vitalizio e altri interessi economici. Il 23 ottobre 1802 sposò Maria Giuseppa de Zelada, figlia del tenente colonnello Lorenzo, dalla quale ebbe dieci figli: Salvatore, Virginia, Vincenzo, Lucrezia, Emilia, Clelia, Fabio, Irene, Camilla, Giulia.
Nel febbraio del 1806, con l’approssimarsi dell’esercito francese a Napoli, propose che i proprietari si armassero per impedire ai lazzari di replicare gli eccessi del 1799. Salito sul trono Giuseppe Bonaparte, rientrò nel servizio attivo come generale di brigata agli ordini di Jean Reynier e il 22 maggio fu nominato comandante della provincia di Basilicata dove rimase fino alla metà di agosto. Qui si impegnò con successo nella repressione del brigantaggio filoborbonico fomentato dagli Inglesi e soccorse le truppe del generale Jean Antoine Verdier sconfitte in Calabria. Dal 1° settembre 1806 diresse i lavori della Commissione provvisoria di vestiario per equipaggiare l’esercito e in quei giorni ottenne sia l’ispezione dei tre primi reggimenti di fanteria che il comando della I brigata di fanteria napoletana. Il 9 ottobre fu nominato comandante di Terra di Lavoro. Giuseppe Bonaparte non gli lesinò i segni della sua considerazione. Il 25 ottobre 1806 lo nominò scudiere reale e dal 14 novembre 1806 al 14 marzo 1807 lo inviò con altri dignitari a Varsavia per porgere a Napoleone le sue congratulazioni per la vittoriosa battaglia di Jena. In quest’occasione, il 10 marzo 1807 l’imperatore gli conferì la Legion d’onore e gli regalò secondo l’usanza una tabacchiera d’oro con al centro un suo ritratto miniato contornato di diamanti.
Tornato a Napoli, il 25 aprile del 1807 fu inviato nella provincia di Salerno per reprimere la comitiva del brigante Biase Antonio Palladino; dopo un mese fu richiamato e agli ordini del generale Jean-Baptiste Jourdan gli fu affidato il comando della riva sinistra del golfo di Napoli.
Il 24 febbraio del 1808 fu incaricato di recarsi nella Calabria Citra per provvedere all’organizzazione militare di quella provincia, nella quale godeva di particolare considerazione come uno degli ex feudatari più potenti. Il 19 maggio 1808 fu nominato commendatore dell’Ordine delle Due Sicilie. Rientrato a Napoli nel giugno per assistere ad alcuni giudizi nei tribunali della capitale, il 9 agosto fece parte della delegazione di nobili inviata a Torino per scortare nel Regno Gioacchino Murat. Sotto il nuovo sovrano, nell’ottobre del 1808 si distinse per il contributo dato nella presa di Capri. Il successo militare gli procurò, il 21 ottobre 1808, il grado di generale di divisione e la promozione ad aiutante di campo del re. Questi decise, dunque, di inviarlo in Terra di Lavoro e in Molise come commissario straordinario delle operazioni di riordino dell’esercito, decretate l’8 novembre 1808. Operò in Molise fino al marzo del 1809.
I rapporti con Murat non furono idilliaci per via del comportamento di Pignatelli poco incline all’adulazione. Nel giugno del 1809 il re gli attribuì la colpa della cattiva riuscita dello sbarco nell’isola di Ponza, dove si asserragliava un contingente anglo-siciliano. Il 17 marzo 1810 fu inviato al comando della divisione napoletana in Catalogna. Qui dovette riordinare le truppe mal equipaggiate e difendere dagli assalti degli insorti i collegamenti con Girona. Nei suoi rapporti segnalò il pessimo stato delle reclute napoletane, sovente ex carcerati senza alcun addestramento. Nonostante gli sforzi, non riuscì ad arginare le continue diserzioni.
Richiamato nel febbraio 1811, nell’estate del 1812 la regina Carolina, reggente in assenza del re, gli affidò il compito di relazionare sullo stato delle infrastrutture militati del Regno. Redasse diverse memorie, segnalando lo scarso grado di attaccamento dei sudditi al sovrano spesso dovuto alla violenza delle requisizioni forzate operate dalle truppe.
Nell’aprile del 1813 gli fu assegnato il comando della divisione negli Abruzzi e tra il dicembre di quell’anno e febbraio 1814 fu incaricato di una delicata missione in Italia e in Germania. Accompagnato dal suo aiutante di campo, Gabriele Pepe, visitò numerose città italiane per sondare il consenso al disegno murattiano di costruire una nazione italiana fino al Po. Essendo, poi, a buon punto le trattative di un armistizio con l’Austria, si recò dall’imperatore per la ratifica degli accordi. Rientrato nel Regno nel febbraio 1814, non esitò nel consiglio dei generali a criticare l’ambigua politica di Murat. Questo gli valse l’ostilità del sovrano, che lo destituì dall’incarico di aiutante di campo. Nel marzo 1815, durante la campagna contro l’Austria bandita da Murat, pur non condividendo l’opportunità della guerra, comandò la divisione di fanteria della guardia reale, ma il 21 maggio ritornò a Napoli dopo avere consegnato la piazzaforte di Capua ai tedeschi.
Con la seconda restaurazione, il 10 luglio 1815 chiese e gli fu concesso il ritiro dal servizio.
Lasciato l’esercito, si dedicò al patrimonio e agli studi. Iniziò la prima stesura delle sue Memorie e nel 1818 pubblicò l’opuscolo Memoria sul danno che produrrebbe all’economia pubblica del regno il comprare all’estero i cavalli per l’esercito, e su la necessità di migliorare le razze. Nello stesso anno divenne socio onorario dell’Accademia cosentina.
Scoppiata la rivoluzione nel luglio del 1820, convocato a corte propose di concedere la costituzione spagnola. Rientrato in servizio, gli fu affidata la 4a divisione militare cui spettava il controllo della provincia di Salerno e della Basilicata. In quest’ultima regione si impegnò per ristabilire l’ordine minacciato da movimenti carbonari secessionisti. La sua rigida condotta non fu apprezzata dal governo costituzionale, propenso per opportunità politiche al compromesso con i carbonari. Il 27 agosto 1820 fu sostituito nel comando e a nulla valsero le proteste presso il vicario del Regno. Profilandosi l’intervento armato dell’Austria, ebbe la direzione della 2a divisione al servizio del generale Raffaele Carrascosa. Qui si verificarono aspri contrasti tra ufficiali e soldati e diserzioni che ne portarono allo scioglimento.
Durante il periodo rivoluzionario scrisse alcuni opuscoli, tra i quali alcune osservazioni sugli avvenimenti del 1820, un contributo in difesa del suo operato in Basilicata e un altro in risposta all’opera di Pietro Colletta, che gli aveva attribuito responsabilità nel fallimento della guerra del 1815. Da queste accuse si difenderà anche in altri scritti.
Restaurata la monarchia assoluta, il 24 aprile 1821 fu congedato. Gli fu risparmiato l’esilio e tornò agli affari e agli studi. Terminò la redazione definitiva delle Memorie, che avrebbero avuto una travagliata storia editoriale, e redasse la Lettera di un napoletano ad un filantropo suo amico, in cui tornò a riflettere sugli eventi del 1820.
Salito al trono Ferdinando II, nel febbraio 1831 cercò con altri ex generali di indurlo a modernizzare lo Stato. Si servì dell’ambizioso marchese Nicola Intonti, il quale diffuse voci su probabili sedizioni nelle province che solo un cambiamento in senso liberale avrebbe contenuto. Alla fine il re, convinto dai consiglieri reazionari, ritirò il suo appoggio ai provvedimenti progressisti.
Tra il 1831 e il 1847 uscirono altre opere. Nel 1833 tornò a occuparsi dell’approvvigionamento equestre per l’esercito. Scrisse contributi sull’annosa questione della censuazione del Tavoliere di Puglia e nel 1838 sulla conversione della rendita.
Nei primi mesi del 1848 fu tra i firmatari della richiesta di Costituzione al sovrano e sostenne il disegno costituzionale di Francesco Paolo Bozzelli. Rientrato in servizio con il grado di tenente generale, ebbe la direzione del corpo di fanteria della guardia nazionale, che mantenne fino al 26 aprile. Dimessosi il ministero Bozzelli a causa della questione siciliana, il 29 marzo ricevette l’incarico di formare il nuovo governo. Tuttavia non riuscì a dirimere i contrasti tra moderati e radicali e rassegnò il mandato. Nominato il 15 luglio nella Camera dei pari, non nascose al re il disappunto sul ritiro delle truppe inviate in Lombardia contro l’Austria. Partecipò attivamente a diverse sessioni e il 6 marzo 1849 svolse un’interpellanza parlamentare sullo stato delle Calabrie, ma il 10 marzo la Camera fu sciolta.
Deluso, affaticato dagli anni si ritirò a vita privata.
Morì a Napoli il 27 aprile 1853.
Fonti e Bibl.: Napoli, Archivio di Stato di Napoli, Archivio Pignatelli di Strongoli, parte I, f. 73; f. 75; parte II, f. EXLII, inc. 39; Pandetta corrente, f. 9644; (sez. militare) Riviste antiche, f. 128, f. 84; Napoli, Società napoletana di storia patria, Manoscritti, XXVI C 7.
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