PIETROALDO
– Le poche attestazioni sicure relative a Pietroaldo – dapprima monaco, poi abate del cenobio di S. Colombano di Bobbio, infine anche vescovo di Bobbio – sono comprese tra il 983 e il 1017, anno in cui il personaggio (menzionato sempre nelle fonti come Petroaldus) era sicuramente avanti in età.
La sua origine familiare presumibilmente locale – a poca distanza dal grosso borgo cresciuto attorno al monastero fondato nel 614 nell’area appenninica tra Piacenza e Genova – è ricavabile da una lettera indirizzata nella primavera del 983 da Gerberto d’Aurillac: il monaco aquitano a capo del cenobio negli anni 982-983, e dal 999 al 1003 papa con il nome di Silvestro II, si rivolse al vicino vescovo di Tortona per riceverne consiglio. Gerberto lamentò come risultassero nella disponibilità di Pietroaldo tutti i beni del monastero, saldamente detenuti con un contratto di livello, e nulla in pratica fosse nella propria, in quanto abate.
Il peso di Pietroaldo all’interno della comunità bobbiese era infatti doppio dal momento che – così denunciò Gerberto –vi gravava anche la sua parentela: ecco la ragione per credere che i suoi consanguinei vivessero non distanti dal monastero. L’imperatore aveva sanzionato positivamente questa situazione possessoria (Gerbert d’Aurillac, Correspondence, n. 3, p. 6): non c’è motivo perciò di dubitare di un accesso diretto o mediato, almeno in un’occasione, alla corte di Ottone II di Pietroaldo, la cui appartenenza a una famiglia di rilievo, dai connotati signorili, può così precisarsi. Basti pensare a quanto dovevano ammontare i redditi delle cospicue proprietà del monastero, sparse in più regioni italiane, nonostante altri vicini protagonisti ne stessero usurpando delle quote. Mancano tuttavia indizi per accostare Pietroaldo a dinastie marchionali o signorili note in sede storiografica (Obertenghi, Gandolfingi, conti di Lavagna).
Un radicamento familiare nell’area vicina e nel monastero stesso si può dedurre anche dalla probabile parentela tra Pietro – l’abate bobbiese precedente Gerberto – e Pietroaldo. L’ipotesi di un rapporto zio-nipote è stata sostanzialmente accettata sulla base di un componimento poetico, che descrive una situazione in parte stereotipata, contenuto in un manoscritto del X secolo (ora nella Real Biblioteca El Escorial di Madrid).
Il Lamentum monachi, abbatis Petri nepotis parla di un monaco, identificato in Pietroaldo, entrato giovane in monastero. Benché risanato da malattia grazie all’intervento di s. Colombano pregato dallo zio Pietro, il monaco aveva continuato a mancare ai propri doveri: temendone le conseguenze, chiese di essere riammesso nella comunità da cui era stato allontanato (Tosi, Il governo abbaziale, n. 3, pp. 169-172).
Il fatto che Pietroaldo divenisse poi abate di S. Colombano, ancor prima di Gerberto, sarebbe testimoniato da un’altra lettera della fine del 983 scritta dal futuro papa, tra molti ostacoli ancora a capo del monastero. A pochi mesi di distanza dalla epistola al vescovo di Tortona, Gerberto si rivolse a Pietroaldo, in cui adesso trovava un buon interlocutore perché la condizione del monaco in seno al cenobio era rapidamente mutata. Lo confortò infatti nelle difficoltà che incontrava con i confratelli ricordandogli un periodo precedente in cui a Pietroaldo ci si rivolgeva come signore e padre, perciò verosimilmente abate (Gerbert d’Aurillac, Correspondence, n. 15, p. 30). La svolta effettuata da Pietroaldo e il rapporto che costruì con Gerberto gli consentirono in seguito di essere coinvolto in relazioni anche di altissimo livello, benché la sua sollecitazione nei processi e negli eventi di maggior rilievo non risulti sempre nitidamente accertabile.
Occorre attingere ancora alla corrispondenza di Gerberto d’Aurillac, che nel gennaio del 984 prese atto dell’opposizione interna ed esterna e lasciò Bobbio. Pietroaldo forse gli succedette nel governo abbaziale, che in un modo o nell’altro gli era familiare, per poi essere velocemente rimosso. Lo si apprende dal fatto che nella primavera di quell’anno Gerberto consigliò i monaci bobbiesi di resistere ai tyranni e infuse coraggio in particolare a Rainardo, il quale si era lamentato di non avere un abate. Soprattutto, Gerberto sottolineò come nel giro di un solo anno Rainardo avesse visto sopra di sé «tria diversa imperia»: nell’ordine, probabilmente, Gerberto stesso, Pietroaldo e un usurpatore (Gerbert d’Aurillac, Correspondence, n. 18 e 19, pp. 36-40).
Si ha una conferma di tale situazione dal diploma di Ottone III, che nel 998 non si rivolge a un rappresentante di Bobbio, ma interviene su preghiera di Gerberto (adesso arcivescovo di Ravenna) che vigilava sull’abbazia rimasta – come si dichiara – per un quindicennio senza una vera guida e anzi «invasa». Il sovrano proibì a chiunque di tenere ciò che possedesse a vario titolo senza un’esplicita approvazione del distante ex abate: si trattava proprio di quei «vassalli» su terra monastica insediati in definitiva dal potere regio (Codice diplomatico, I, n. 103, pp. 351-363).
In un imprecisabile momento successivo Pietroaldo riuscì, forse facendo leva sul proprio radicamento locale e sul (passato) legame con Gerberto, a ricollocarsi al vertice del cenobio. Infatti, nel marzo 1010, Pietroaldo, «abas monasterio Sancti Columbani sito Bobio», concesse a livello alcune terre a esponenti di un “ceto medio” locale, riaffermando uno «ius sancti Columbani». Lo fece stando «in suprascripto castro Bobio» (Codice diplomatico, I, n. 113, pp. 384 s.): forse una semplice recinzione dell’abitato ricollegabile all’iniziativa del ritrovato abate, che aveva sperimentato in prima persona le turbolenze locali.
L’intervento del 1010, che rifletteva l’intenzione di una ordinata gestione dei beni monastici, era in coerenza con la redazione di un Breviarium, cronologicamente collocabile in questo periodo, di tutte le terre di S. Colombano: promosso senza dubbio dai vertici dell’ente, l’inventario manifestava la volontà di affrontare i problemi patrimoniali (Castagnetti, S. Colombano di Bobbio, pp. 176-192). Il fatto che solo tre monaci, incluso il preposito, sottoscrissero l’atto del 1010 rispecchierebbe la non superata crisi del cenobio.
Durante l’abbaziato di Pietroaldo, nel secondo decennio del secolo, fu istituita la diocesi di Bobbio.
È il cronista Ditmaro che informa di questo intervento tutto imperiale, risalente al 1014, approvato da un’assemblea di vescovi forse della provincia di Ravenna e soprattutto avvenuto in ragione di una «summa necessitas»: cioè dell’urgenza di sedare il conflitto con gli esponenti della grande aristocrazia italica, compresi quegli Obertenghi che forse minacciavano la disponibilità di terre monastiche da parte del Regno per i suoi vassalli (Thietmari Merseburgenis episcopi Chronicon, p. 400). Enrico II aveva già creato due nuove diocesi in Germania, ma in un contesto ben diverso, mentre il caso di Bobbio in Italia costituì un unicum rispetto a una situazione stabile da secoli, specie nel quadrante nordoccidentale della penisola.
Non vi sono prevedibilmente segni, nella testimonianza tedesca, di un contributo fornito dall’abate a tale risoluzione, che nei fatti converge con la cura di Pietroaldo nel porre al riparo il patrimonio monastico: questo adesso alimenta un progetto di principato ecclesiastico, ancorché incoerente dal punto di vista territoriale. Alcuni anni più tardi, nel 1017, insieme con la rinuncia a una terra vicina a Pavia e la simultanea acquisizione di appezzamenti sparsi in più luoghi, il notaio registrò anche la nuova qualifica di Pietroaldo, «abbas et episcopus monasterio sancti Colombani sito Bobio»: una locuzione reiterata nel documento e completata, nella parte formulare, da un «pro honore episcopati donni Petroaldi» (Codice diplomatico, I, n. 114, pp. 386-392). Inoltre, nella dedica, forse concordata con Pietroaldo stesso, apposta su un codice che contiene testi sacri ascrivibile ai primi del secolo XI in evidenza si legge solo la qualifica di «presul» (Vat. Lat. 5759; Collura, Studi paleografici, pp. 156 s.), giudicata più “pesante”.
Mancano elementi per comprendere se l’anziano Pietroaldo preparò una successione nell’una e nell’altra istituzione di cui era responsabile, dal momento che nell’immediato non si verificarono ulteriori casi di detentori di ambedue le cariche. Se si considera il suo cursus honorum e le relazioni che intrattenne è giusto credere che fosse ben consapevole di due importanti problemi, anche se non si può sapere come li impostò: quello dell’allestimento di una separata sede di culto per la nuova diocesi (mentre vi sono segni coevi di una ristrutturazione della chiesa monastica) e quello della corrispondenza – che doveva essere avvertita come temporanea – di un disseminato patrimonio monastico, comprensivo di pievi e chiese, con la mensa vescovile; circostanza questa che aveva evidenti ricadute anche sul piano delle competenze religiose delle due istituzioni.
Pietroaldo morì in data imprecisata dopo il 1017.
Fonti e Bibliogr.: Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio fino all’anno MCCVIII, a cura di C. Cipolla e G. Buzzi, Roma 1918, 3 voll.; Thietmari Merseburgenis episcopi Chronicon, in MGH, Scriptores rerum germanicarum, n. s., IX; P. Collura, Studi paleografici. La precarolina e la carolina a Bobbio, Milano 1943; A. Castagnetti, S. Colombano di Bobbio, in Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, Roma 1979, pp. 119-192; M. Tosi, Il governo abbaziale di Gerberto a Bobbio, in Gerberto. Scienza, storia e mito, Bobbio (PC) 1985, pp. 71-234; P. Riché, Gerbert d’Aurillac. Le pape de l’an mil, Paris 1987; Gerbert d’Aurillac, Correspondence, a cura di P. Riché e J.-P. Callu, Paris 2008; A Piazza, Monastero e vescovado di Bobbio (dalla fine del X agli inizi del XIII secolo), Spoleto (PG) 1997; A. Piazza, San Colombano di Bobbio dall’'abate Gerberto all“abbas et episcopus” Pietroaldo: ancora sulla “costruzione” dell’episcopato, in Gerberto d’Aurillac da Abate di Bobbio a Papa dell’Anno Mille, Bobbio (PC) 2001, pp. 375-395; La diocesi di Bobbio. Formazione e sviluppi di una diocesi millenaria, a cura di E. Destefanis e P. Guglielmotti, (in corso di pubblicazione, www.ebook.retimedievali.it).