PIETRO
– Attestato come vescovo di Pisa il 19 marzo 1106, successe a Daiberto, morto a Messina il 15 giugno 1105.
Non ne conosciamo la famiglia: un’infondata tradizione moderna l’ha assegnato a una fantomatica casata Moriconi di Vicopisano. Egli è tuttavia identificabile con l’omonimo abate del monastero benedettino pisano di S. Michele in Borgo, testimoniato dal 31 maggio 1095 al 13 dicembre 1104, il primo presule pisano di cui sia nota una precedente professione monastica. Alla sua elezione, probabilmente avvenuta nella seconda parte del 1105, non fu verosimilmente estranea la marchesa Matilde, allora presente in Toscana.
Tra i numerosi documenti relativi alla gestione e all’incremento del patrimonio vescovile, si segnala l’acquisizione, il 3 novembre 1107, di un sesto del castello di Rosignano Marittimo, che controllava la foce del fiume Fine (allora navigabile) e il porto di Vada, e l’atto con cui, alla presenza dei consoli, il 30 agosto 1116 Pietro, insieme con il visdomino Graziano e il giudice Ildebrando, rettore dell’Opera della cattedrale di S. Maria, acquistò dal marchese di Tuscia Rabodo il castello e la corte di Bientina, importante crocevia d’itinerari terrestri e fluviali tra l’Arno e il lago di Sesto. Particolare interesse rivestono gli acquisti operati tra il 1114 e il 1115 al di fuori dell’ambito diocesano, in Val di Càscina e nelle Colline Pisane, legati al controllo di aree esterne al comitatus cittadino, che investivano la più ampia sfera del dominio del territorio.
Hanno più evidente significato politico alcuni negozi giuridici, in cui agirono congiuntamente la Chiesa vescovile e il Comune, allora in fase di completa maturazione. Un complesso affare, del quale sfuggono i precisi contorni, si articolò l’11 dicembre 1109 coinvolgendo i discendenti dei conti di Pisa da un lato, il vescovo e i consoli pisani dall’altro. Oggetto dei quattro documenti che ne trattano erano tre castelli nelle Colline – Montemassimo, Pandoiano e Parrana – che costituivano il retroterra di Livorno, vero obiettivo dell’intera vicenda (incastellato dai marchesi tra il X e l’XI secolo, donato all’Opera della cattedrale pisana dalla marchesa Matilde nel 1103; per la vicinanza a Porto Pisano, Livorno era postazione di altissimo rilievo strategico per il controllo della costa). Le garanzie prestate a favore del vescovo e dei consoli svolgevano l’importante ruolo di garantire la fedeltà della casata già comitale, titolare di quegli ambiti signorili, tanto più pericolosa perché legittimata dai poteri pubblici un tempo detenuti.
Caratteristiche non diverse ebbero le cessioni di proprietà (redatte in forma di donazioni per rimedio dell’anima) da parte dei signori da Ripafratta al vescovado di S. Maria (21 novembre 1110): si trattava della metà delle quote del castello e poggio di Ripafratta, con i relativi diritti giudiziari e fiscali. In tal modo la casata passò definitivamente dall’orbita lucchese all’obbedienza pisana; nel contado della città sull’Arno entrò così un castello di grande rilevanza strategica (posto sul confine tra i territori di Pisa e di Lucca, a controllo dei transiti sulle vie d’acqua e di terra che per la Valle del Serchio collegavano Pisa e il suo sistema portuale con la via Francigena).
A un’area esterna al comitatus pisano si riferisce un ultimo documento, il giuramento di fedeltà prestato a Pietro dagli abitanti del castello di Vivaia in Val di Càscina in data imprecisata tra il 25 marzo 1114 e il 24 marzo 1115, in un momento particolarmente delicato (poco dopo la morte senza eredi diretti, il 18 febbraio 1113, del conte Ugo, ultimo dei potenti conti Cadolingi).
Il testamento del conte Ugo, che disponeva la restituzione ai vescovi di metà delle proprietà ecclesiastiche da lui detenute e la vendita dell’altra metà per il pagamento dei propri debiti, innescò un’immediata corsa all’accaparramento delle proprietà cadolinge da parte dei vescovi interessati e delle grandi abbazie fondate dai Cadolingi e da altri poteri presenti nell’area già cadolingia. Anche Pisa si fece avanti, riuscendo con questo atto a imporre il proprio controllo su un castello strategicamente ubicato in area di confine fra le diocesi di Lucca, cui apparteneva, di Pisa e di Volterra.
In un contesto non diverso si colloca, l’8 marzo 1116, nel sinodo lateranense del papa Pasquale II, il contrasto tra Pietro e il vescovo di Lucca, che aveva denunciato l’invasione di terre della propria Chiesa da parte dei pisani.
Il conflitto era la conseguenza sia della morte del conte Ugo sia di quella, ancora più importante, di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana, il 24 luglio 1115, che scatenò la gara per il controllo dei beni pubblici da lei detenuti. Nel vuoto di potere generato dalla scomparsa ravvicinata di due figure eminenti, Pisa e il suo vescovo riuscirono a trarre un notevole profitto sul piano istituzionale e del controllo del territorio.
Nella vita politica pisana Pietro non si limitò a fiancheggiare e a supplire l’iniziativa comunale, ma dominò la scena dell’ultima grande impresa militare dei Pisani contro i musulmani nel Mediterraneo occidentale, la guerra balearica cantata da Enrico, canonico della Chiesa pisana, nel Liber Maiolichinus. Il vescovo fu a capo della spedizione, salpata da Pisa il 6 agosto 1113 e culminata con la vittoria del 3 aprile 1115, e le conferì quel carattere di crociata confermato anche dalla partecipazione del clero pisano, del legato pontificio cardinale Bosone nonché dell’arcivescovo di Cagliari.
Pietro fu la guida morale, la figura aggregante e il punto di riferimento civile, a rappresentare l’unità dei Pisani.
In campo ecclesiastico Pietro promosse l’iniziativa riformatrice nella scia della tradizione episcopale locale.
Favorì l’insediamento a Pisa di prestigiosi enti monastici, sottoponendo al monastero di S. Vittore di Marsiglia (già presente in città dal 1095 con la dipendenza della chiesa di S. Andrea in Chinzica) il cenobio benedettino maschile dei Ss. Apostoli di Decimo in Val di Tora (il 15 luglio 1107), e a Montecassino la chiesa suburbana di S. Silvestro, di recente fondazione, il 29 settembre 1118. Tre giorni prima era stata consacrata la Cattedrale, alla presenza di parecchi cardinali e di papa Gelasio II, già monaco a Montecassino: fu dunque creato un legame con una prestigiosa congregazione e rafforzato il vincolo con la Chiesa romana. Pietro fu inoltre favorevole ai camaldolesi (connotati da forti intenti riformatori e già presenti in Pisa dal 1084 nel monastero di S. Frediano): vennero loro affidati centri monastici di primaria importanza come S. Michele in Borgo in città (tra 1105 e 1111), S. Savino nel Valdarno e prima del 1113 S. Stefano di Cintoia, sulle ultime propaggini orientali del Monte Pisano.
Pietro promosse un’intensa attività edilizia, testimoniata sia dalla costruzione della nuova sede vescovile, terminata poco prima del 1116, sia da sette consacrazioni di edifici religiosi in città e negli immediati dintorni, cui era spesso connessa la deposizione di reliquie.
Fondati dai suoi predecessori erano il monastero di S. Rossore e la canonica regolare suburbana di S. Pietro in Vincoli, le cui chiese – ricostruite – furono consacrate rispettivamente il 22 settembre 1106 e il 19 novembre 1118; di nuova costruzione erano la suburbana S. Cecilia, di patronato di S. Michele in Borgo, e S. Stefano di Carraia presso Livorno (5 febbraio 1116). All’ottobre 1111 risale la consacrazione della chiesa del monastero femminile di S. Maria in Selva (presso l’attuale Fornacette nel Valdarno) dipendente dal cenobio pisano di S. Matteo, e al 1° settembre 1118 quella della ricostruita pieve dei Ss. Giovanni Battista e Pietro di Calcinaia.
Nel 1110 Pietro pose nella pieve di Calci le reliquie di s. Ermolao, provenienti dalla chiesa dei Ss. Ciro e Giovanni di Costantinopoli (probabile dono dell’imperatore Alessio I Comneno nel quadro degli accordi poi sanciti dal crisobullo dell’ottobre 1111); il 6 maggio dello stesso anno depose nella chiesa del monastero femminile suburbano di S. Matteo le reliquie di s. Mamiliano (proveniente da Centocelle) e di altri santi. In quell’anno Pietro consacrò inoltre la nuova chiesa di S. Giovanni di Campolongo, dove vennero poste le reliquie dei Ss. Felice, Anastasio e Aurea.
È evidente dunque la volontà di raccordarsi con la Roma cristiana e dei martiri, come se Pisa avesse maturato la consapevolezza della nuova identità di ‘campione’ della cristianità mediterranea, che richiedeva un rinnovamento spirituale e materiale, realizzato tramite l’adesione ai movimenti riformatori, con il potenziamento della vita monastica e la costruzione e consacrazione di chiese meglio rispondenti alle nuove esigenze.
L’evento sicuramente più rilevante fu la conclusione dei lavori, iniziati nel 1064, di ricostruzione della cattedrale, con la già menzionata consacrazione da parte del papa (26 settembre 1118). Nell’altar maggiore Gelasio II ripose numerose reliquie, provenienti sia dalla precedente cattedrale sia dagli scrinia papali, donate ai canonici e ai consoli pisani (gli uni officianti della cattedrale, gli altri rappresentanti della città che nell’edificio sacro si identificava). La memorabile occasione fu accompagnata da un importante avvenimento, il rinnovo da parte del pontefice al presule pisano della giurisdizione metropolitica sulla Corsica, al termine di difficili trattative complicate dal clima di diffidenza provocato dall’atteggiamento genovese. In seguito a questo privilegio, nel 1119 Pietro, accompagnato dai canonici, dal console Ildebrando e dal cardinale Pietro da Pisa, si recò in Corsica per esercitare i diritti metropolitici, consacrando Tedaldo, vescovo eletto di Mariana, e la locale chiesa episcopale. È questa la sua ultima azione documentata.
Morì ai primi di settembre del 1119 e fu sepolto il 10 settembre.
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