Pietro Silva
Personalità aperta, disponibile, mai rancorosa, generosa verso gli allievi, Pietro Silva è in pari tempo uomo di principi morali e politici fermi e rigorosi. Accademico attento alla ricerca archivistica e al costante aggiornamento documentario, non si sottrae a un lungo impegno pubblicistico, fino a divenire elzevirista del «Corriere della Sera», nella convinzione che un certo tipo di attività giornalistica, «quando sia esplicata con serietà di intenti e con preparazione», riesce «giovevole all’incremento della cultura nazionale, in quanto rompe le barriere tra il pubblico e gli studiosi, e dà al primo la sensazione viva e diretta dell’utilità sociale dell’alta cultura, e pone i secondi, talvolta portati a perdersi tra le nuvole dell’astrazione, in contatto con la realtà e l’attualità» (Studi e scorci di storia, 1921, p. VIII). La stagione del regime fascista lo vede forzosamente silente nell’arena giornalistica ma non assente nel campo fervido dell’impegno storiografico.
Pietro Silva nasce a Parma il 2 maggio 1887. Frequenta dal 1906 al 1910 i corsi universitari alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ove è allievo di Amedeo Crivellucci (1850-1914), conseguendo la laurea con una tesi su Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa e le sue relazioni con il resto della Toscana e con i Visconti, lavoro pubblicato poi in volume nel 1911. Oltre e più che da Crivellucci, peraltro, nel periodo pisano Silva è orientato dagli insegnamenti di Gaetano Salvemini e dall’opera di Gioacchino Volpe. Entrambe queste personalità, pur nelle loro differenze, diverranno punti di riferimento scientifico, culturale e civile durante l’intera esistenza dello studioso parmense.
Tra il 1912 e il 1913 egli è a Parigi, vincitore di un concorso di perfezionamento. Nel 1914 consegue la libera docenza presso l’Ateneo pisano. Interventista di orientamento democratico, con l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale chiede di andare al fronte, ma per una forte miopia è dichiarato idoneo solo ai servizi sedentari e così, comandato all’Ufficio storico della Marina, continua i corsi di storia avviati presso l’Accademia navale di Livorno nel 1913. Nel 1922 vince la cattedra di storia nell’Istituto di Magistero di Roma, non ancora facoltà universitaria: allorché lo diviene, Silva è ope legis professore ordinario. Inizia l’insegnamento nel febbraio 1923. Negli anni di guerra, e in quelli immediatamente precedenti, ha avviato la collaborazione con varie testate, specie «l’Unità» di Salvemini e «La Voce» di Giuseppe Prezzolini, nonché, dal 1915, con il già citato quotidiano milanese. Nel frattempo, sul finire del 1922, il fascismo ha fatto i passi iniziali di quello che diverrà un regime autoritario.
Primo nella terna dei vincitori nel concorso a cattedra di storia per l’Università di Cagliari nel 1923, Silva è scavalcato per pressioni politiche: il motivo di fondo è collegabile alla posizione assunta dall’interventismo democratico e specie da Salvemini sulla questione della Dalmazia. Nel 1925 Giovanni Gentile pubblica il Manifesto degli intellettuali fascisti. La risposta di Benedetto Croce è il Manifesto degli intellettuali antifascisti, che Silva firma e al quale – nonostante svariati pentimenti altrui – mantiene l’adesione, pur se gli appaiono «grossolane», come ricorda Bruno Gatta (1997, p. 180), espressioni «gratuite» che definiscono il testo redatto da un pensatore quale Gentile «un imparaticcio scolaresco», ove a ripetizione si registrano «confusioni dottrinali e mal filati ragionamenti».
Nel 1928 Silva è primo ternato nel concorso per l’Università di Bologna. Nuovamente, scatta l’intervento discriminatorio, che si ripete nel concorso del 1932 per l’Ateneo di Napoli. Nello stesso anno, chiamato alla facoltà di Lettere a coprire la cattedra di storia moderna di nuova istituzione, la votazione viene annullata. Già nel 1927, peraltro, Silva aveva rischiato di perdere l’insegnamento al Magistero, ove tuttavia rimarrà studiando fino alla fine dei suoi giorni, ma non si piega al consiglio di chi gli suggerisce di cercare benevolenza rivolgendosi direttamente a Benito Mussolini:
appartengo a quello scarso manipolo che non ha capitolato, perché si è fatto custode di alcuni principî di valore assoluto ed eterno, e che devono essere trasmessi intatti alle nuove generazioni (cit. in Gatta 1997, p. 184).
Nel febbraio 1940, dopo una conferenza a Milano, Silva è colpito da grave infermità, che gli impedisce quell’arte oratoria, limpida e suadente, dispiegata anche nell’attività didattica. Ormai fortemente ostacolato anche nella scrittura, non si arrende e continua a lavorare come ricercatore e, caduto il fascismo, come polemista politico cui però non mancano gli argomenti di natura storica. Muore a Bologna il 1° novembre 1954.
Nei limiti in cui, a partire da un certo periodo, le difficili circostanze politiche, e poi le condizioni di salute, glielo consentono, Silva ha sviluppato un ampio lavoro di analisi scientifica che sia sotto il profilo metodologico sia in termini di contenuti può a prima vista apparire dispersivo ed eterogeneo. Circa i temi affrontati si va dai lavori giovanili su Pisa, sui rapporti tra questa città e Firenze, in breve sulla Toscana specie tra la seconda metà del 14° sec. e l’avvio del secolo successivo, al saggio sull’azione dei rifugiati italiani in Francia nel 1831 steso sulla base, come dice l’autore stesso, di una serie di documenti da lui ritrovati nell’Archivio del ministero degli Affari esteri di Parigi. E poi gli studi sull’Italia e la guerra del 1866, sulla monarchia di luglio, e ancora la crescente attenzione per le vicende che si susseguono lungo le coste del Mediterraneo e che attraversano il «mare latino», i saggi su Napoleone il Grande e Napoleone le petit, l’indagine su genesi e caratteri dell’Inghilterra moderna dalla fine del 15° sec. allo scoppio della Seconda guerra mondiale, preludio a una completa storia d’Inghilterra, che però non verrà. Ancora, i profili di Emanuele Filiberto e Carlo Alberto, le riflessioni sulla guerra di Crimea, sul 1848, le relazioni tra Piemonte e Russia prima della guerra del 1859, per giungere alla vigilia del referendum istituzionale italiano del 1946, allorché esce il volume in difesa della monarchia.
Quanto al metodo di ricerca, i passi iniziali di Silva si muovono nel segno della scuola definita «economico-giuridica», di cui esponente è tra gli altri Salvemini, e che nell’analisi dei fenomeni politici attribuisce parte preminente ai conflitti e alle convergenze tra le classi e le categorie sociali. Anche Volpe, specie in quel periodo, non è estraneo a tale temperie culturale. Ben presto, però, soprattutto a partire dalla permanenza parigina, il giovane studioso parmense si volge alla histoire diplomatique. Alla storiografia diplomatica, che tanto deve in Francia alla lezione di Albert Sorel (1842-1906), il contributo di Silva dà apporti cospicui e di avanguardia. Egli non si priva, però, del gusto dell’historien peintre, dello storico che profila una serie di quadri dipingendoli con maestria, in uno spirito ove ricorrente è lo sforzo di condurre a equilibrio il lavoro storiografico, rispettando certe regole di metodo, ma senza chiudersi entro rigide gabbie dottrinali, capaci di diventare ostacoli alla libertà dello spirito critico.
C’è un filo accomunante che percorre l’opera di Silva, dai primi lavori su Pisa e la Toscana fino al libro del 1946 sul ruolo della monarchia sabauda? C’è una strada maestra che gli consente di tenere la rotta nell’andirivieni tra metodo narrativo, approach storiografico diplomatique e alta divulgazione per un pubblico di non specialisti? È difficile sostenere che ci sia in tale autore un apriorismo teoretico o, peggio, ideologico, che indirizza ab origine il suo percorso scientifico. Egli procede per approssimazioni successive, non pretende di piegare la storia a un suo disegno dottrinale. Il suo pensiero e la sua operosità scorrono con lo scorrere, il divenire e il dipanarsi della storia, e quale che sia il metodo di svolgimento di volta in volta adottato, quali che siano le divagazioni, reali o apparenti, che si concede, egli non pretende di dare lezioni alla storia, imponendole ora l’uno ora l’altro paradigma dogmaticamente assunto (il progresso inevitabile, la libertà ineludibile, la rivoluzione imprescindibile e così di seguito), ma è attento a cogliere le lezioni della storia, che metabolizza e interpreta nella consapevolezza che la fragilità della natura umana fa sì che non di rado, specie nelle congiunture più difficili e complesse, gli eventi e gli intrecci delle circostanze siano più decisivi e implacabili delle intenzioni di chi comanda e, a fortiori, di chi obbedisce. E tuttavia, l’uomo genuinamente libero non rinuncia alla sua coscienza individuale e storica. Così, antifascista durante il fascismo, Silva difende pubblicamente Volpe («pur essendo di idee politiche diverse dalle sue») dai furori dell’antifascismo indiscriminatamente epuratorio che continua a privare della cattedra l’illustre maestro.
Ciò detto, qual è dunque il filo rosso della storia su cui si appunta l’attenzione di Silva? Nei primi studi quel che si coglie è la dinamica, affrontata in chiave di connessione tra sistema socioeconomico e quadro politico-istituzionale, che conduce alla transizione delle città dall’esperienza comunale all’emergere della Signoria. Le vicende pisane nel tempo di Pietro Gambacorta (m. 1392) sono viste come urto tra gli interessi di gruppi economici sia a Pisa sia a Firenze: armatori e mercanti di mare per un verso, inclini ad accordi con Firenze per legare sempre più il porto di Pisa alle esigenze dei traffici commerciali fiorentini, e produttori che temono la concorrenza dei manufatti fiorentini e che sono perciò contrari a ogni accordo. Le fazioni economiche in lotta strumentalizzano le libertà civiche e subordinano gli interessi collettivi ai loro interessi particolari. Da qui il ricorso a Gambacorta in funzione della pacificazione interna. La fine violenta di lui e dei suoi figli, nell’ottobre 1392, molto dovuta alla pressione esterna di Gian Galeazzo Visconti (1351-1402), si iscrive in un contesto storico che comunque segna una transizione dalla stagione delle libertà comunali all’età delle Signorie. Certo, quei mercanti e quegli artigiani che si uniscono per richiamare Pietro dal lungo esilio, quel mondo sociale che lo proclama «Capitano della masnada e difensore del popolo», ha sì necessità di un capo, ma non è ancora così indebolito da saper tollerare un padrone; perciò, se giunge a concedere a Gambacorta un’ampia parte del governo, non vuole rinunciare ai suoi più preziosi diritti, né Gambacorta, che a quei gruppi sociali deve il ritorno in patria e l’innalzamento al potere, ha tanta forza da costringerli a ciò.
Tuttavia in Toscana, ma anche altrove, la strada che va dal depauperamento delle istituzioni comunali all’emergere e poi al consolidamento del sistema signorile è tracciata. Le iniziative del Visconti, e poi il confronto che Silva istituisce tra il capo pisano sul finire del Trecento e la Firenze di Cosimo de’ Medici il Vecchio (1389-1464), nella prima metà del secolo successivo, segnalano che pur quando, come accade per il grande mercante fiorentino, questi formalmente non diviene mai signore della sua città, di cui pure guida la politica, il processo che conduce al regime signorile si è comunque messo in moto. La città comunale, con le turbolenze delle sue fazioni interne, con i suoi spazi territoriali ridotti, non garantisce più libertà municipali e sicurezza verso l’esterno. Le divisioni interne sono anzi crescenti opportunità per i nemici esterni, per quanti vogliono sfruttarle d’oltre confine a loro vantaggio. La Signoria è perciò un passaggio dal pulviscolo comunale verso forme aggregative più ampie, in un’età ove in altre aree europee si profilano ormai sempre più nette le sagome in fieri degli Stati e della potestà statuale. In questo senso, il movimento che riduce le centinaia di entità politiche dell’età feudale e comunale in poche Signorie è visto da Silva quasi come un preludio alla dinamica unitaria, pur se poi interrotta «dalle invasioni straniere proprio quando poteva procedere ad ulteriori sviluppi» (Studi e scorci di storia, cit., p. 12).
Il tema dello Stato, destinato a divenire Stato nazionale; il tema che in esso successivamente si innesta del principio di nazionalità, il quale s’intreccia e alimenta un processo di formazione di nuovi Stati dopo che Francia, Inghilterra, Spagna sono divenuti Stati prima e indipendentemente dall’emergere e dal crescente appeal di tale principio; tutto ciò viene all’attenzione, che passo passo si fa preminente, della ricerca storiografica di Silva nel corso del dibattito fervido e acceso che precede, accompagna e segue la Prima guerra mondiale, la Grande guerra per antonomasia. E allora l’Italia come tale, il suo formarsi culturale e istituzionale, diventa il cuore della riflessione del cattedratico parmense. Ma l’Italia non è un hortus conclusus. A Silva non può bastare la visione provinciale dello studio del ‘caso singolo’. L’Italia sta nel Mediterraneo, su cui affacciano tre continenti: la sua vicenda storica s’intreccia strettamente, specie durante la grande avventura risorgimentale ma anche prima e dopo, con le vicende interne e internazionali di almeno altri due Paesi, Francia e Inghilterra; la costruzione dello Stato nazionale italiano e il suo completamento debbono vedersela con l’Austria; l’esigenza di mantenere l’unità spirituale, materiale e organizzativa della nazione è un parametro di valutazione che giunge fino alla Seconda guerra mondiale e alle sue conseguenze; la consapevolezza che la lotta per l’indipendenza e per l’unità della nazione è strettamente coniugata con la lotta per la conquista di istituzioni su base costituzionale e rappresentativa; tutto ciò diventa sia la costante sia la pietra di paragone e il metro di giudizio della realtà in divenire, senza escludere cambiamenti di valutazione e ripensamenti su scelte compiute e che l’esperienza successiva dimostrerà non sufficientemente meditate: si pensi, ad es., alla svolta aventiniana, prima condivisa e poi considerata un errore.
Il momento di snodo del lavoro di Silva – nel quale l’attenzione agli andamenti socioeconomici si attenua, la storia narrativa mantiene il suo spazio e così l’histoire diplomatique, il tutto però fuso in un disegno ove la storia diviene precipuamente storia politica – è quel passaggio epocale che, avvicinandosi la Grande guerra e poi la partecipazione italiana, porta all’esito supremo il dibattito su coscienza nazionale, irredentismo, interventismo. Per ispirazione salveminiana, Silva si colloca nel filone dell’interventismo democratico, e aspra è, anche a guerra conclusa, la polemica nei confronti dell’interventismo nazionalista. Il punto del contendere si riassume nell’imperativo mazziniano (recuperato dallo scrittore pugliese) delenda Austria, e che si accompagna all’idea di un’applicazione senza esclusioni discriminatorie del principio di nazionalità a tutte le popolazioni soggette all’Austria. Con evidenza ciò rinvia anche alla questione dalmatica. L’accusa rivolta all’interventismo nazionalista è di non voler accedere al definitivo smembramento dell’impero austro-ungarico, di negare perciò ad altri popoli il riconoscimento di quel principio di nazionalità che si rivendica per l’Italia, di voler mantenere in piedi, pur nella sconfitta, un’Austria in grado di fungere da Stato cuscinetto rispetto alla Germania, mentre liquidare definitivamente la potenza viennese è il passo cruciale per dare il colpo definitivo alla potenza germanica. In questo quadro, veemente e sopra le righe è il battage accusatorio salveminiano che coinvolge il ministro degli Esteri Sidney Sonnino (1847-1922), stipulatore del Patto di Londra, e il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), che a guerra conclusa saranno alla Conferenza di Parigi per la pace. Anche Silva è critico verso Sonnino. Del resto, non v’è storiografia civicamente asettica e passiva, nella temperie in cui l’Italia del tempo è immersa. Forse non v’è mai. Ma c’è modo e modo, e in Silva ciò vuol dire una misura di pietas verso la patria e di distacco scientifico che anche nel fuoco della polemica più aspra evita di trasformare la critica storica in pseudostoriografia viscerale.
Come si è già accennato, dopo il periodo dedicato al tema della transizione dalla civiltà comunale alla Signoria, è lo Stato nazionale italiano l’autentico oggetto di considerazione, osservato nella vasta cornice ambientale, continentale e marittima, che è preminentemente internazionale per gli intrecci, gli incontri e gli scontri, strategici e tattici, in cui la penisola si colloca. La Prima guerra mondiale, sentita da Silva, con animo risorgimentale, come quarta guerra di indipendenza, è lo stimolo che lo orienta in tale lunga fase del suo cammino scientifico. Gli spunti sono molteplici, ma tutti connessi a comporre una serie di studi che, senza seguire una traiettoria cronologica lineare, hanno però una loro ispirazione di fondo, volti come sono a individuare le radici, i precedenti della nazione e dello Stato italiani, i problemi, gli ostacoli e le opportunità derivanti dalle relazioni con le potenze europee, le prospettive una volta conseguita l’unità istituzionale, infine i rischi di frantumazione di tale unità dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale.
È del 1928 il profilo che il professore traccia di Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580). Ciò che soprattutto lo attrae di tale principe è il suo ruolo di «sapiente ed energico ricostruttore dello Stato» (Figure e momenti di storia italiana, 1939, p. 41): ricostruzione territoriale, istituzionale, militare, amministrativa, ricostruzione «con caratteri e con orientamenti italiani tali che, solo uniformandosi ad essi e continuandoli, i successori potranno provvedere adeguatamente alle sorti della Dinastia e della Patria» (p. 77). Di più. La figura di Emanuele Filiberto «emerge col massimo rilievo nella storia plurisecolare dei Savoia, fra i quali uno solo può venire accostato a lui: Vittorio Emanuele II» (p. 74). La linea di continuità è dunque tracciata tra ricostruzione dello Stato sabaudo e costruzione dello Stato nazionale italiano.
Ma la nazione italiana? Qui la posizione crociana, in polemica con Volpe e altri, è netta: «la nazione è lo Stato o lo sforzo di comporre uno Stato», talché «una storia politica d’Italia» comincia «solo nel 1860 come concreta realtà». In altri termini, «Italia» è, storicamente parlando, il nome di una determinata volontà e azione, «e non si può fare la storia dei secoli andati col criterio di un fatto che sorse più tardi» (Croce 19302, pp. 251-52). Quanto a Silva, se lo Stato nazionale unitario è realtà che viene con il Risorgimento, periodo che «nella sua fase attiva e decisiva» egli colloca tra il 1815 e il 1918, tuttavia il travaglio prodotto dall’accavallamento e dai contrasti nella penisola di tante genti e stirpi diverse sbocca progressivamente nella «formazione di un popolo nuovo, […] è il popolo italiano, che presto ha chiara la coscienza della propria differenziazione dagli altri popoli […]. Ecco la nuova Italia […]; Nazione», anche se non ancora Stato unitario, «ergentesi con proprii inconfondibili caratteri e aspetti di fronte alle Nazioni che si stanno formando oltralpe», e la cui storia «si svolge nei secoli XIV e XV» (Figure e momenti di storia italiana, cit., pp. 31, 20), anche se poi verranno tempi lunghi di preponderanze straniere finalmente interrotte dall’epopea risorgimentale.
Come si vede, Silva tende a equiparare popolo e nazione. Ora, se può essere accolta l’opinione che un popolo italiano come aggregato sociologico – ove un ruolo accomunante hanno religione, lingua, diritto prevalentemente ispirato all’esperienza giuridica romana, commerci che s’intrecciano tra coste ed entroterra, melting-pot etnico – esiste già da secoli prima che emerga lo Stato nazionale, tuttavia perché ascenda a nazione è necessario che il popolo come dato sociologico sia integrato da una struttura elitaria, cioè «da una classe dirigente» in grado di conferire «al popolo coscienza civile, sentimento dell’indipendenza e dell’unità e consapevolezza di una auctoritas cui dare fiducia […]. La nazione è, allora, insieme il prodotto e la proiezione di una élite aggregante che dà orientamento, cornice e compostezza» al popolo (Fisichella 2010, 5a rist. 2011, p. 38), e ciò in Italia si profila ben dopo quanto sostiene Silva.
L’equivoco, forse soprattutto semantico, della sinonimia di popolo e nazione, non impedisce però a Silva di cogliere il rilievo eminente che personalità e vicende di epoche successive hanno avuto nello sviluppo della vita nazionale italiana. Nel 1927 esce la breve biografia dedicata a Napoleone il Grande. Giudicato tra le cose migliori di Silva, pur nella sua sinteticità, per quel costante slargamento di orizzonti, per quel continuo riportare le vicende specifiche di uno spazio politico nel più vasto quadro delle relazioni e delle dipendenze internazionali, tale scritto nulla ha delle «angustie nazionalistiche» proprie di certa letteratura coeva, talché in questo senso «il Napoleone di Pietro Silva non è un Napoleone italiano», al punto che il rapporto tra Napoleone e l’Italia è «del tutto eccentrico rispetto al cuore della narrazione» (Mascilli Migliorini 2008, p. 12). Eccentrico, ma non assente. Infatti, sottolinea Silva, i due più importanti movimenti nazionali europei del 19° sec., dai quali sono sorte due grandi potenze, la Germania e l’Italia, hanno avuto dall’opera di Napoleone poderoso impulso, anche se, certo, il movimento nazionale italiano è ancora embrionale nel 1813-14: e tuttavia il generale corso ne ha avvertito gli iniziali flebili segni fin dai tempi della prima campagna d’Italia.
Se il giudizio su Napoleone zio è positivo, la valutazione su Napoleone nipote è nel segno della mediocrità. Già dal luglio 1859 (conclusione della Seconda guerra di indipendenza) a Napoleone III sfugge il senso della situazione italiana, il cui movimento politico egli, come pure vorrebbe, non riesce a guidare e dominare. In mezzo agli ondeggiamenti e agli adattamenti ai fatti compiuti, due rimangono i punti fermi dell’imperatore francese: ostacolare il movimento unitario nel conseguimento delle sue ultime mete (in prospettiva la questione romana) e avere nelle cose italiane un’influenza predominante e quasi direttiva. Se ciò rispondesse agli interessi della Francia, il comportamento dell’imperatore avrebbe senso. Ma ciò non è, ad avviso di Silva. E gli errori di Napoleone III, con il crescente prevalere della tattica, pur quando abile, sulla strategia, si colgono nelle vicende successive, che per quanto riguarda l’Italia hanno a vedere con l’errore che gli fa costruire il piano del 1866 sulla certezza della vittoria austriaca sulla Prussia.
Del 1866 gli italiani (giunti fino al Trentino dal quale gli eventi maturati sul piano internazionale li costringono a ritirarsi) sono vittime, e le polemiche che sul fronte interno ne seguono si scatenano roventi. Qui l’avvertenza di Silva è quella dello storico autentico, che al cospetto delle accuse lanciate ad Alfonso La Marmora (1804-1878), ministro degli Esteri durante la preparazione dell’alleanza italo-prussiana e capo di Stato Maggiore durante la guerra, così scrive:
Troppo si indulge, nello studio della storia del nostro Risorgimento, a considerare quasi esclusivamente l’azione dei singoli uomini, lasciando nell’ombra le condizioni generali del Paese, delle classi sociali, dei governi, nei vari periodi. Con ciò si riesce, forse, a dare maggiore interesse drammatico all’intreccio degli avvenimenti, ma si rinuncia a scoprire le cause, le ragioni profonde degli avvenimenti stessi, a metterli nella vera luce (Studi e scorci di storia, cit., p. 103).
E il fatto è che nel 1866 la nuova Italia esiste soltanto da cinque anni e contro le si erge un’antica monarchia, «organizzata da secoli, forte di tradizioni e di glorie, sostenuta da un’armata e da una amministrazione tra le prime d’Europa» (p. 105). Impresa azzardata e dannosa, dunque, il 1866, Terza guerra di indipendenza? Azzardata, ma dannosa a conti fatti no, perché comunque ne viene il Veneto. Ma per Trento e Trieste occorrerà attendere mezzo secolo, e il lungo, travagliato lavoro di preparazione cui l’Italia nel frattempo attende è il nesso profondo che Silva coglie tra Terza e Quarta guerra di indipendenza.
Che tutto sia stato impervio nel processo di State building italiano, del resto, a Silva è già apparso chiaro nel suo studio sulla monarchia di luglio e l’Italia, che è del 1917. Legato inizialmente, in ragione delle sue stesse origini, alla causa «rivoluzionaria», il regno di Luigi Filippo d’Orléans (1773-1850) e la sua politica estera suscitano speranze di evoluzione costituzionale non solo in Italia, ma anche in Spagna. Se nella crisi italiana del 1831-32 l’azione del re dei francesi è ambigua, passo passo Klemens von Metternich-Winneburg (1773-1859), che in un primo tempo spera in una rapida conclusione dell’esperienza della ‘monarchia borghese’, successivamente si adopera nel tentativo, ampiamente riuscito, di affrancarla dalle sue origini liberali, anche allo scopo di instaurare un rapporto cordiale tra Austria e Francia. Quanto all’Italia, il proposito metternichiano è di scalzare quella posizione di antagonismo tra Francia e Austria, per la quale la Francia pare simbolo di liberalismo e l’Austria simbolo di reazione. E l’abilità di Metternich registra il suo trionfo dall’autunno 1846 al febbraio 1848, quando si vedrà la Francia quasi accodata all’Austria di fronte alla questione italiana, accomunata all’Austria nell’avversione e nell’odio dei liberali di tutta la penisola.
Si intitola Il Mediterraneo dall’unità di Roma all’unità d’Italia l’opera maggiore di Silva, edita nel 1927 e più volte aggiornata e integrata: dal 1939 il titolo diviene Il Mediterraneo dall’unità di Roma all’Impero italiano. Al volume che, come ricorda Walter Maturi (1902-1961), «ebbe un notevole successo sul gran pubblico» e che «venne nel complesso benevolmente accolto dalla più autorevole critica storica» (1954, p. 602), non sono però mancate due riserve. Una è relativa a una sorta di asimmetria e distanza tra la prima e la seconda parte, con lacune su taluni aspetti e ridondanze su altri, specie nel primo settore dell’opera. Ma qui occorre tener conto di quanto nella prefazione ha dichiarato l’autore stesso: «Nel libro tutti noteranno un divario, un contrasto di caratteri e di tono fra la prima e la seconda parte». La prima è dedicata a rievocazioni del passato, la seconda allo studio di questioni e situazioni specie degli ultimi tempi;
la prima risultante quasi di una serie di quadri storici, la seconda compiuta attraverso ricerche su particolari problemi storici e politici connessi all’epoca presente, e mirante a prospettare ulteriori sviluppi (Il Mediterraneo dall’unità di Roma all’unità d’Italia, 1927, p. 8).
Nella prima Silva è più historien peintre, nella seconda historien diplomatique. Si può naturalmente confutare tale taglio nell’impostazione dell’opera, ma egli ne ha ben avvertito il lettore.
La seconda riserva, di natura epistemologica, viene formulata da Adolfo Omodeo (1927):
Si può raggiungere un’omogeneità e uno sviluppo in una storia che abbia il suo centro in un fatto fisico, in una realtà geografica, a cui non può in alcun modo competere il concetto di sviluppo che è essenziale alla storia? [Infatti], ciò che rende non unitaria e perciò non organica la storia di un ambiente geografico si è che il principio delle variazioni che costituiscono la storia è estrinseco all’elemento geografico (p. 239).
Croce (19302) si associa: «Si pubblica un pregevole libro sulla storia del Mediterraneo; ma la critica coglie subito quello che è da dirne, se non proprio il difetto, il limite» (p. 253). Segue citazione di Omodeo.
Il presupposto (pregiudizio) banalmente storicistico di tale valutazione critica è piuttosto evidente. Terra e mare – ricordiamo per tutti Carl Schmitt (1888-1985) – sono due ambienti geografici, eppure su tali due scenari naturali si sono innestati processi politici, giuridici, militari, economici, dunque storici, di primario rilievo. Non potremmo parlare di dispotismo orientale perché l’Oriente è un concetto astronomico? La scienza politica non potrebbe lavorare a una teoria di medio raggio, diacronica e sincronica, cioè con tutte le variazioni e le ricorrenze della storia, ad es. sui regimi politici dell’America Meridionale, perché quest’ultimo è un concetto geografico?
In verità, Silva sa benissimo che «la storia è storia degli uomini e non delle cose», e «la discussione filosofica su ciò che costituisce il vero oggetto della storia non serve, in questo caso, a chiarire il problema, ma anzi lo complica inutilmente» (Valeri 1956, p. XIX). Del resto, sottolinea Silva, il ruolo della «talassocrazia britannica», di una potenza geograficamente non mediterranea, è di primario rilievo anche nel «mare latino», via essenziale per l’impero londinese, e ciò a partire dalla «sua attività mediterranea iniziatasi nel 1704 con l’occupazione di Gibilterra e di Minorca, e sviluppatasi attraverso continui successi verso la supremazia» (Il Mediterraneo dall’unità di Roma all’Impero italiano, 1939, p. 539). E se con l’orgoglio del patriota risorgimentale Silva guarda agli eventi che seguono l’impresa etiopica del 1935, è perché ritiene che finalmente i rapporti tra Italia e Gran Bretagna, nel Mediterraneo e altrove, si possano svolgere su base di parità, per salvaguardare la pace europea. E questa vuol essere storia, non è geografia.
Studioso pulito, Silva non è un intellettuale per tutte le bandiere e per tutte le stagioni. Antifascista durante il fascismo, egli rifiuta nel 1925 l’invito a collaborare alla Enciclopedia Italiana diretta da Gentile. Solo a partire dal 1931 l’insistenza di Volpe lo induce a dare il suo contributo ai volumi dell’Enciclopedia, e da tale data al 1938 si susseguono ben oltre venti voci, alcune di ampio respiro, come Francia (Storia) e Inghilterra (Storia). Caduto il fascismo, il giudizio sugli eventi che seguono il 1938-39 è drastico: «fu sempre convinzione dei più assennati uomini di governo italiani, che l’Italia non dovesse mai trovarsi in conflitto con l’Inghilterra» (Io difendo la monarchia, 1946, p. 11), ma Mussolini, sbagliando tutte le previsioni e tutti i calcoli, fa la follia di trasformare una prospettiva di pace in un’avventura bellica. Più in generale, la valutazione di Silva è che il fascismo ha dissipato l’opera del Risorgimento.
Ciò detto, può una repubblica riprendere tale opera? La difesa della monarchia, cui Silva dedica pagine dense di passione, si riassume in un duplice convincimento di fondo. Primo. Le istituzioni rappresentative non potranno recuperare il loro ruolo in una società ormai dominata dal mito delle masse e priva del nesso con l’istituto monarchico; e le masse non sono più il popolo di cui parlava Giuseppe Mazzini. Secondo. «La repubblica non può continuare lo Stato italiano nato dal Risorgimento. Essa coincide con un moto di disgregazione nazionale e di accentuati separatismi […]. La repubblica in Italia non ha tradizioni unitarie. Essa è municipale per intima e organica derivazione. Non appena si è parlato di repubblica si sono pronunciati gli accesi separatismi delle isole e i movimenti regionali e le gelosie municipali che hanno portato i milanesi a cancellare Via Roma dalla toponomastica cittadina» (Io difendo la monarchia, cit., pp. 219, 235, 237). Anche se sa che si è messo in moto un meccanismo, interno e internazionale, che in ogni caso condurrà alla repubblica, il professor Silva – che dal 1933 agli anni Cinquanta del 20° sec. ha educato intere generazioni con le sue Lezioni di storia civile ed economica e con il suo Corso di storia per i Licei – sente il dovere di lanciare il suo libero monito.
Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa e le sue relazioni col resto della Toscana e coi Visconti, Pisa 1911.
Intorno all’azione dei rifugiati italiani in Francia nel 1831, «Rassegna storica del Risorgimento», 1914, 2.
Il Sessantasei, Milano 1917, 2a ed. accresciuta 1935.
La monarchia di luglio e l’Italia, Torino 1917.
Studi e scorci di storia, Firenze 1921.
Il Mediterraneo dall’unità di Roma all’unità d’Italia, Milano 1927, 1937; ed. aggiornata con il titolo Il Mediterraneo dall’unità di Roma all’Impero italiano, Milano 1939, 1942.
L’Italia fra le grandi potenze, 1882-1914, Roma 1931.
Figure e momenti di storia italiana, Milano 1939 (contiene i profili di Emanuele Filiberto e Napoleone).
Genesi e caratteri dell’Inghilterra moderna, Milano 1939.
Fasi di storia europea, Milano 1940.
Io difendo la monarchia, Roma 1946.
Il 1848, Roma 1948.
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