RUFFO, Pietro
RUFFO, Pietro. – Nacque probabilmente in Calabria (a Tropea) nella prima metà del XIII secolo. Era figlio di Giordano, nipote ex fratre di Pietro Ruffo, conte di Catanzaro, e di tale Belladama.
Del prozio omonimo – ucciso nel 1257 per mano di un sicario di Manfredi senza lasciare discendenti diretti – Pietro fu l’erede e ne seguì le orme in campo politico e militare. Dopo la morte cruenta del congiunto, Pietro, postosi insieme con gli altri membri della famiglia sotto la protezione pontificia, emigrò in Provenza per evitare le rappresaglie del vincitore Manfredi, divenuto re di Sicilia. L’esilio ebbe termine con la disfatta del sovrano svevo nel 1266 a opera di Carlo I d’Angiò, al cui seguito Ruffo tornò nel Regno passato ormai sotto la dinastia angioina.
Uno dei più urgenti e delicati compiti del nuovo monarca fu quello di curare la restituzione dei beni ai signori regnicoli, che come i Ruffo erano stati costretti ad andare in esilio e che rivendicavano i loro precedenti diritti. Ruffo fu dunque reintegrato nel possesso dei feudi già detenuti dal prozio, come risulta da un documento fiscale del 1276 e dall’inchiesta dell’anno seguente, in cui i suoi beni feudali furono dettagliatamente elencati insieme con la corrispondente rendita.
Nel giustizierato di Calabria, che corrispondeva alla parte meridionale della regione, oltre alla Contea di Catanzaro, che rappresentava il nucleo principale dei suoi domini, Ruffo possedeva i seguenti feudi: Nicotera, Capsigorio, Matina, Laco in Borrello, Cessaniti, Ardanaste in Batticani, San Fili, un imprecisato feudo in territorio di Tropea, alcuni casali presso Briatico e il casale di Clistò, nella Piana di San Martino, presso l’odierna Taurianova. Da questi possedimenti percepiva una rendita annua di 231 once. Un ampio comprensorio di terre apparteneva al conte di Catanzaro anche nel giustizierato di Val di Crati e Terra Giordana, la circoscrizione amministrativa della Calabria settentrionale. In particolare, a sud-ovest di Crotone possedeva i feudi di Policastro, Roccabernarda, Mesoraca, Le Castella e un territorio nei pressi della stessa città ionica. La rendita di questi beni feudali – non precisata ma comunque superiore a 20 once – poneva Ruffo fra i feudatari del giustizierato obbligati ad armare annualmente un cavaliere e a metterlo al servizio del sovrano. Nel quadro delle prestazioni feudali di carattere militare rientrava anche l’armamento per conto della flotta regia (pro navali exercitu) di imbarcazioni di discreta portata, dette teride, e di minori dimensioni, denominate vaccette, cui erano tenuti i possessori di feudi lambiti dal mare. Nei due giustizierati calabresi, Ruffo era al primo posto tra i signori feudali per il contributo navale al quale erano obbligati. È infatti il solo a essere indicato nei documenti pervenuti come armatore di due teride e altrettante vaccette.
Ruffo è menzionato nei documenti ufficiali come conte di Catanzaro dal 1268; ma il processo di reintegrazione nei feudi del prozio, da lui rivendicati, fu assai lento ed egli se ne lamentò con il re. Questi, nel settembre del 1272, a sei anni di distanza dall’ascesa al trono, con un’ordinanza indirizzata ai secreti della Calabria dispose che venisse svolta un’inchiesta per conoscere la reale consistenza della Contea di Catanzaro in età sveva e di restituire quindi a Ruffo le terre che ancora fossero risultate mancanti. Al riguardo non mancarono contrasti con altri pretendenti al patrimonio feudale Ruffo, o anche con la Curia angioina, mentre furono buone le relazioni di Ruffo con gli enti ecclesiastici calabresi.
Lo provano due casi esemplari. A Catanzaro il conte, su sollecitazione della moglie Giovanna d’Aquino, provvide, fondò e dotò il monastero delle clarisse, tra le cui mura avrebbero trovato dignitosa accoglienza, insieme con altre nobili fanciulle catanzaresi, numerose donne di casa Ruffo destinate alla vita monastica; nel giugno del 1278, inoltre, diede in concessione all’abbazia cistercense di Sant’Angelo de Frigillo la tenuta di Terrata in territorio di Roccabernarda.
Ricostituito un vasto asse feudale (ampliato con l’aggiunta di nuovi possedimenti), Ruffo mirò a trarre da esso i maggiori vantaggi possibili sia sotto il profilo politico, per i legami vassallatici che gli era consentito di imporre attraverso accorte subinfeudazioni, sia in termini strettamente economici mediante uno sfruttamento organico delle risorse produttive.
Mediante la concessione di limitate porzioni dei suoi feudi, Ruffo puntò infatti a procurarsi non tanto introiti monetari (simbolici, data l’esiguità del censo), quanto vassalli sui quali contare per un sostegno di carattere militare che si sarebbe rivelato molto utile al momento opportuno. Altri territori più ampi vennero invece gestiti direttamente mediante l’ausilio di procuratori. Il contratto di concessione perpetua stipulato con l’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo contribuì al riassetto dei fondi del conte di Catanzaro, che ottenne un sicuro e costante introito annuo in denaro oltre alla riconoscente gratitudine di un influente ente ecclesiastico.
Quanto agli aspetti economici, nel 1271 Ruffo denunciò al sovrano angioino lo spopolamento della sua Contea di Catanzaro, dalla quale i lavoratori agricoli si erano allontanati «a causa della gravezza delle collette» (Registri della Cancelleria Angioina, VI, 1954, p. 112). Per fare fronte alla conseguente penuria di manodopera, da un lato, chiese misure coercitive per farli tornare e, dall’altro, sollecitò sgravi fiscali al fine di consentire un tenore di vita accettabile, tale cioè da prevenire ulteriori abbandoni da parte di villani che vivevano generalmente in condizioni di grave disagio, oberati da gravami fiscali, per cui spesso erano costretti ad abbandonare la terra alla quale erano comunque legati da vincoli legalmente inscindibili. Va sottolineato anche che le attività economiche di Ruffo non si limitavano al solo settore rurale ma erano integrate da operazioni commerciali e finanziarie, di cui si ha notizia da numerosi contratti notarili. Talvolta, quando i rapporti con il monarca angioino erano particolarmente tesi, le normali attività mercantili furono tuttavia intralciate da ordinanze regie, come nel caso del divieto rivoltogli nel 1276 di aprire nuovi porti lungo le coste dei propri feudi e l’ingiunzione di astenersi da operazioni di carico e scarico dei vascelli. Alcuni anni dopo fu però lo stesso Carlo I a concedergli ampie agevolazioni commerciali, come nel 1284 il permesso di esportare grano e successivamente la completa esenzione doganale per l’importazione di determinate partite di cereali.
Queste ultime disposizioni sono sintomatiche della posizione di rilievo che Pietro era riuscito nel frattempo a raggiungere nel Regno di Sicilia, con l’inserimento ai vertici dei quadri militari mediante la nomina a capitano generale nella guerra del Vespro scoppiata nel 1282 in seguito alla rivolta divampata in Sicilia contro il governo angioino.
Questo incarico gli fu conferito dal sovrano angioino anche in seguito ai brillanti risultati che aveva conseguito parecchi anni prima, nel 1269, allorché posto al comando della spedizione contro la ribelle città di Amantea, Ruffo era riuscito a espugnarla mettendo in evidenza le sue notevoli doti di condottiero. Come altri centri calabresi, Amantea aveva preso le parti di Corradino che nel 1268 aveva tentato di sottrarre il Regno di Sicilia al sovrano angioino, e aveva rifiutato di arrendersi anche dopo la repressione della rivolta delle altre città e la messa a morte del giovane svevo. Con dispaccio emanato da Foggia nell’aprile del 1269, Carlo I aveva incaricato Ruffo di assediare la città e di procedere a una dura punizione. Stremati dal rigoroso blocco terrestre e marittimo ordinato da Ruffo, i cittadini di Amantea furono costretti a capitolare nel giugno del 1269 e, per ordine del re, il conte di Catanzaro inflisse implacabilmente pene assai aspre (esecuzioni capitali e mutilazioni: alcuni ribelli furono legati alla coda dei cavalli e trascinati per le vie cittadine).
Dispiegando le sue comprovate qualità di condottiero, Ruffo partecipò alle lunghe e complesse operazioni militari svoltesi in Calabria contro gli Aragonesi. Le truppe nemiche, guidate da Ruggero di Lauria, occuparono la Contea di Catanzaro ed espugnarono nel 1296 la stessa città capoluogo nonostante la strenua difesa di Ruffo. La città fu tuttavia riconquistata nel 1300, con l’aiuto di Lauria, passato nel frattempo tra le fila angioine anche in seguito alle sollecitazioni di Ruffo, con il quale era imparentato. Le sorti della guerra si volsero poi a favore degli angioini e Ruffo tornò in possesso dei propri feudi.
L’importante ruolo svolto durante il periodo bellico consentì a Ruffo di esercitare una forte influenza anche in campo politico, a stretto contatto com’era con gli ambienti più esclusivi della corte e con lo stesso monarca. Di tali favorevoli circostanze il conte di Catanzaro seppe trarre profitto per conseguire i nuovi possessi feudali di Mesiano e Montalto, concessigli dal nuovo re, Carlo II, a risarcimento dei danni subiti dall’esercito aragonese, e benefici di natura economica, con il risultato di accrescere ulteriormente il prestigio della sua casata.
Agli inizi del Trecento la famiglia Ruffo si collocava tra le più influenti della nobiltà regnicola, come si poté constatare subito dopo la fine della guerra del Vespro. Quando, a suggello della pacificazione del 1302 fra le case di Angiò e di Aragona, si celebrò il matrimonio del sovrano aragonese Pietro III con Beatrice, figlia di Carlo II, l’onore di accompagnare la promessa sposa a Messina, luogo della cerimonia nuziale, toccò tra gli altri a Ruffo, al quale fu confermato dal sovrano angioino l’ufficio di capitano generale della Calabria.
La cerimonia del 1302 fu l’ultimo avvenimento di rilievo al quale partecipò Pietro, che già nel 1299 aveva provveduto a redigere il testamento. Morì tra il 1309 e il 1310, lasciando sette figli: Giovanni, Giordano, Tommaso, Carlo, Belladama, Iacopa e Clarice.
Dei figli maschi, il primogenito Giovanni subentrò a lui nel possesso della Contea di Catanzaro e degli altri feudi ottenuti in eredità dai predecessori. I feudi di nuova concessione, Montalto e Mesiano, toccarono invece rispettivamente a Giordano e a Carlo. A Tommaso che, intrapresa la carriera ecclesiastica divenne nell’agosto del 1306 arcivescovo di Reggio Calabria, furono assegnati Castelminardo e una parte dei beni burgensatici di Tropea. Queste terre allodiali alla morte dell’arcivescovo sarebbero dovute passare al fratello Giordano o ai suoi successori mentre l’altra parte fu attribuita a Carlo. Giordano e Carlo ottennero inoltre dal padre, nel maggio del 1306, un legato di 150 once annue sulla Contea di Catanzaro. Le figlie femmine di Pietro avevano sposato esponenti di alcune delle più illustri famiglie della nobiltà regnicola e forestiera, a cui recarono doti rilevanti, indicative della cospicua consistenza patrimoniale accumulata dal padre. Belladama sposò Giovanni de Jonville, prima maresciallo e poi gran conestabile del Regno; Iacopa andò in moglie a Riccardo dei conti di Fondi della casa dell’Aquila e marito di Clarice fu Gentile Orsini, della prestigiosa famiglia romana, nipote di papa Nicolò III e gran giustiziere del Regno di Napoli nel 1301.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Archivio Ruffo di Scilla. Cartulari, vol. 1; Napoli, Biblioteca della Società napoletana di storia patria, XXV.A.XV; Napoli, Biblioteca nazionale, XV.D.4; C. Minieri Riccio, Studi storici fatti sopra 84 registri angioini dell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1876; E. Sthamer, Bruchstücke mittelalterlicher Enqueten aus Unteritalien, Berlin 1933; Registri della Cancelleria Angioina, ricostruiti da R. Filangieri, I-XXV, Napoli 1951-1983.
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